“XIX Seminario di aggiornamento per docenti di italiano nei licei della Baviera, Chiemsee bei Prien”

22 April 2004

Leggere l’Italia di oggi: aspetti culturali e interculturali

 

XIX Seminario di aggiornamento per docenti di italiano nei licei della Baviera

Abbazia Frauenwörth, Frauenchiemsee

Chiemsee bei Prien

22-24 Aprile 2004

 

Organizzato dall’Ufficio Culturale del Consolato Generale d’Italia –Istituto di Cultura, in collaborazione con il Bayerisches Staatsministerium für Unterricht und Kultus, la scuola “Cultura Italiana” di Bologna, il Consorzio Produttori Alta Maremma

Bozza di programma

 

“Leggere l’Italia di oggi: aspetti culturali e interculturali”

 

Carmine Abate importante scrittore italiani dell’ultimo decennio. E` nato a Carfizzi, un paese arberesh – cioè italo-albanese- della Calabria. Come narratore ha esordito nel 1984 in Germania con la raccolta di racconti “Den Koffer und weg!”. Ha pubblicato tra l’altro una ricerca socio-antropologica sull’emigrazione, “Die Germanesi”. Il suo ultimo libro “Tra due mari” ha riscosso un ampio successo ed è tra i vincitori finalisti del Premio Stresa e del Premio Fenice Europa. Si occupa di temi multiculturali.

Angela Barwig Insegna all’Università di Erlangen-Norinberga. E’ autrice di numerose pubblicazioni sulla letteratura italiana contemporanea e sulla canzone d’autore italiana.

 

Felice Balletta E’ lettore di italiano a Nancy (Francia). Ha al suo attivo numerose pubblicazioni aventi per tema la letteratura italiana contemporanea. Lavora attualmente a una dissertazione sul romanzo giallo italiano

 

Alessandro Bergonzoni  scrittore (Einaudi e Feltrinelli),  poeta, pittore,  regista, affabulatore  NON HA PARTECIPATO

 

Gabriella Dondoli-Scholl è lettrice di italiano del ministero degli Affari Esteri presso l’Università di Erlangen-Norinberga.E’ specializzata in tecniche didattiche multimediali

 

Massimo Maracci è direttore della Scuola “Cultura Italiana” di Bologna e collabora da molti anni con l’Ufficio Culturale del Consolato Generale d’Italia  nell’ambito della realizzazione di eventi culturali e nell’ideazione dei seminari di aggiornamento per docenti d’Italiano.

Siri Nergaard  semiologa allieva di Umberto  Eco ha pubblicato con Bompiani due testi sulla “Teoria della Traduzione” e con altri autori il saggio sull’intercultura “Spettri del potere”.

Gian Enrico Rusconi professore di scienza politica presso l’Università di Torino, direttore del “Dipartimento di studi politici”. Editorialista de “La Stampa” di Torino e collaboratore alla rivista “Il Mulino”, è vincitore della Goethe-Medaille (1997), assegnata dai Goethe-Institute tedeschi agli studiosi stranieri che hanno contribuito all’arricchimento dei rapporti tra la cultura tedesca e le altre culture. Autore di studi storico-politici sulla Germania (“La teoria critica della società”, “Germania, un passato che non passa”, di saggi sulla politica italiana (“Se cessiamo di essere una nazione”) e sulla ridefinizione della laicità (“Come se Dio non ci fosse”).

 

Sandra Scagliarini. è lettrice di italiano del ministero degli Affari Esteri presso l’Università di Monaco di Baviera

Espressioni, traduzioni e infiltrazioni nella parola, nella scrittura,  nell’arte, nella produzione, nelle tradizioni, negli usi e nei costumi dell’Italia di oggi

La cultura italiana  si rappresenta  oggi come una composizione di diversità, un insieme di modi, di abitudini e di estetiche intrecciate strettamente. In epoca successiva al post-moderno  appare improprio legare il termine “cultura” ad un luogo geografico specifico, come una nazione, una regione o altra località.

Il rischio è quello di ipostatizzare una immagine di una cultura locale preservata dalle influenze esterne, in cui i modi di vita e le aspirazioni del passato reggano alla spinta della modernità, senza influenze esterne che invece riducono notevolmente il peso della tradizione in ogni luogo del mondo.

Il concetto di  “cultura italiana”  (escludendo la lingua che si mantiene morfologicamente forte) appare allora indebolito, improprio per un’ attualità su cui agiscono con forza interferenze di altre culture dell’Europa e             quelle di altri continenti.  I modi di vita tipici dei paesi ricchi hanno intriso profondamente quelli che erano considerati gli autentici “usi e costumi” del popolo italiano.

A questa variazione antropologica  si aggiungono le incidenze delle culture marginali, dei nuovi saperi e dei valori sociali di gruppi sparsi, che non si considerano più espressioni settoriali,  “sottoculture”, ma parti integranti e propulsive di quell’unica Cultura.

Anche la cosiddetta sottocultura del consumo è parte integrante della cultura italiana globale. La necessità di acquisto di beni costruisce una trama di simboli, di identificazioni sociali e culturali. I simboli sono proprio gli stessi oggetti, il cui  possesso sostituisce i valori di appartenenza e di riconoscimento nel gruppo.  Nuove convenzioni danno allora vita ad una nuova società.

Gli argomenti che si sviluppano nel XIX seminario sono: espressioni, traduzioni e infiltrazioni nella parola, nella scrittura, nell’arte, nella produzione, nelle traduzioni, negli usi e nei costumi dell’Italia di oggi. (M:Maracci)

 

Abbazia Frauenwörth

83256 Frauenchiemsee

im Chiemsee presso Prien

Giovedì 22 Aprile 2004

14:30  Discorso di apertura

Francesco Jurlaro Addetto Culturale del consolato Generale d’Italia di Monaco di Baviera

Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura

 

15:00 Introduzione

Massimo Maracci, Direttore di Cultura Italiana

 

15:30 L’Italia delle Regioni: aspetti interculturali e linguistici

Sandra Scagliarini, lettrice del Minstero degli Affari Esteri, Università di Monaco di Baviera

 

16:15 Dibattito

 

16:45 Pausa caffè

 

17:15 Strada dei Vini e dei Sapori delle colline di Modena e Bologna

Davide Contri  Direttore del Consorzio dei Vini e dei Sapori

 

18:15 Dibattito

 

 

19:30 Buffet di presentazione dei prodotti

 

21.00 Scrivere fra due mari. Verso la letteratura multiculturale

Carmine Abate,  scrittore

 

22:00 Dibattito

 

 

 

Venerdì 23 Aprile 2004

 

 

9:00 L’italiano nei licei della Baviera

Udo Schmitt, Consulente per l’insegnamento dell’italiano presso il Ministero

dell’Istruzione bavarese

 

9:30  Dibattito

 

9:45  Maremma ieri e oggi. 2 culture a confronto

Massimo Maracci, Direttore di Cultura Italiana

 

10:45 Dibattito

 

11.15 Pausa caffè

 

11.45  Presentazione delle produzioni alimentari tipiche della Maremma

Maurizio Sonno,  Presidente del Consorzio produttori Altra Maremma

 

13.00 Buffet di presentazione dei prodotti

 

15:00 “Cantautori Italiani”

Angela Barwig, Università di Erlangen – Norimberga

 

16:00 Dibattito

 

16:30 Pausa caffè

 

17:00 I colori del  giallo: tendenze attuali del romanzo poliziesco italiano

Felice Balletta, Università di Nancy

 

18:00 Dibattito

 

18:30 Intercultura: tradurre la cultura italiana

Siri Nergaard,  semiologia, Università di Bologna

 

19:30 Dibattito

 

20:00 Cena

 

Sabato 24 Aprile 2004

 

9:00 La multimedialità nella società italiana

Gabriella Dondolini Scholl, Università di Erlangen – Norimberga

10:00 Dibattito

 

10:30 Pausa caffè

 

11.00 Italia Germania Europa

Gian Enrico Rusconi, Università di Torino

 

 

12:00 Dibattito

 

13:00 Buffet

 

15:00 Incontro con la lettera, la parola e  la cosa nella scena italiana

Alessandro Bergonzoni, scrittore, drammaturgo

 

 

16:00 Dibattito

 

16:30 caffé di commiato

 

Trascrizioni non ufficiali

 

 

(h. 14.30, Discorso di apertura)

 

Buon pomeriggio e un cordiale benvenuti al diciannovesimo seminario di aggiornamento per docenti di italiano nei licei della Baviera. Desidero rivolgere un sentito ringraziamento al Dottor Francesco Jurlaro, Addetto Culturale del Consolato Generale d’Italia di Monaco di Baviera e Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, alla Signora Irmgard Mayrhofer, Oberstudienrätin del Bayerischen Staatsministerium für Unterricht und Kultus e al Dottor Massimo Maracci, direttore della scuola “Cultura Italiana”. Do ora la parola al Dottor Francesco Jurlaro.

 

Dottor Francesco Jurlaro, Addetto Culturale del Consolato Generale d’Italia di Monaco di Baviera e Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura.

 

Gentili Signore, gentili Signori, è per me un grande onore dare il benvenuto a tutti voi che partecipate a questo diciannovesimo seminario di aggiornamento per docenti di italiano nei licei della Baviera. Come insegnanti, la vostra attività è incentrata sulla lingua italiana, e le metodologie di insegnamento hanno fatto passi da gigante negli ultimi anni, anche grazie alle trasformazioni operate dalle nuove tecnologie. Ma come voi ben sapete non è possibile ridurre l’insegnamento della lingua straniera a un mero sapere tecnico-linguistico, senza approfondire tutte quelle realtà complesse a cui la lingua si riferisce e che in essa vivono e si esprimono. È quindi stata la (?) mia preoccupazione particolare, in questo primo incontro con voi, portare l’accento su aspetti specifici e particolarmente caratterizzanti della società e della cultura italiana contemporanea, nell’intento di coglierne le peculiarità e le trasformazioni all’interno del processo di globalizzazione che ha investito il mondo di oggi. Si ha talvolta la sensazione che l’immagine dell’Italia all’estero rimanga ancora legata a vecchi e superati stereotipi che impediscono la piena percezione della moderna realtà italiana. La cultura italiana, oggi, invece si presenta ad un’analisi approfondita come una composizione di diversità, un insieme di modi, di attitudini e di estetiche in cui si intrecciano strettamente una cultura locale, ancora legata alle proprie radici, ed influenze molteplici provenienti da una realtà in cui si inseriscono in misura crescente interferenze e influenze di culture diverse. Tutto ciò, ormai, solo riduttivamente si può definire con il termine di ———————; questo concetto, che letteralmente significa “notizie intorno al Paese”, sempre più viene sostituito dal termine “Kulturwissenschaft” (?) delle culture nel mondo di oggi (?). Un tempo si utilizzavano i concetti di Nazione (?) e di Patria, oggi è più lecito parlare di identità e di memoria per definire il binario si cui corrono la storia e la cultura dei popoli. Sul problema dell’identità nazionale ha avuto luogo, nell’Italia degli anni Novanta, un intenso dibattito intellettuale che ha coinvolto varie discipline, dalla storiografia all’antropologia, dalla psicologia alla politologia. La discussione non è rimasta chiusa e limitata nell’ambito accademico, ma ha trovato ampio spazio nella pubblicistica, nei mass-media. Il tema in sé non è certo nuovo, visto che altre volte in passato la cultura italiana si era confrontata con la questione della propria identità. Tuttavia nel secondo dopoguerra esso è rimasto a lungo pressoché ignorato, per cui il concentrarsi di molti saggi sull’argomento nel giro di pochi anni sembra indicare un’evidente rinascita dell’attenzione per questa tematica. Tra le ragioni che hanno contribuito al rinnovato interesse per il tema dell’identità nazionale negli anni Novanta si può citare anzitutto l’esaltazione delle autonomie locali. Sullo sfondo storico che ha visto risorgere in Europa (?) dopo la caduta del muro di Berlino, talora ancora in forma cruenta, vari micro-nazionalismi (?) per decenni assopiti, anche in Italia si è registrato l’affermarsi di movimenti e programmi miranti alla destrutturazione dello Stato nazionale, perlomeno nella sua forma attuale, e al potenziamento delle realtà locali. Anche l’arrivo in Italia di centinaia di migliaia di persone provenienti da Paesi poveri ed il conseguente rovesciamento di prospettiva che ha visto l’Italia trasformarsi da Paese (?) di emigrazione a Paese di immigrazione, ha costretto molti italiani al confronto interculturale; conseguenza sul piano sociale e psicologico è stato il ripensamento di se stessi e del proprio modo di rapportarsi con gli altri. Questi fenomeni si sono affiancati al contemporaneo processo di globalizzazione e alla diffusione di forme nuove di comunicazione e di interazione, creando un panorama ricco di segnali contrastanti e di difficile lettura. Se da una parte, però, le trasformazioni degli anni Novanta hanno aperto una fase di disorientamento nella coscienza dell’Italia contemporanea, al tempo stesso esse evidenziano una vitalità sana della comunità nazionale, e testimoniano l’esigenza di recuperare il filo continuo della storia in una prospettiva di equilibrio tra passato e futuro. Per voi insegnanti, che trasmettete alle nuove generazioni la nostra lingua e cultura, spesso si pone il problema di come leggere il quadro estremamente molteplice e diversificato che la società italiana contemporanea presenta. È mia viva speranza che questo seminario possa offrirvi spunti di riflessione e di discussione che contribuiscano ad illuminare aspetti peculiari della cultura e della società italiana di oggi, e che vi fornisca strumenti utili a svolgere il vostro difficile compito. Grazie.

 

Do ora la parola alla Signora Irmgard Mayrhofer

 

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Irmgard Mayrhofer, Oberstudienrätin del Bayerischen Staatsministerium für Unterricht und Kultus di Monaco di Baviera.

 

 

Do ora la parola al Dottor Massimo Maracci

 

Massimo Maracci, Direttore della scuola “ Cultura Italiana”: “Introduzione”.

 

Benvenute Signore colleghe, benvenuti colleghi. Sono lieto e grato al Dottor Jurlaro di essere stato invitato anche quest’anno a collaborare all’organizzazione del seminario, e naturalmente sono grato alla Dottoressa responsabile del Ministero e anche a Udo Schmitt, che è ormai un amico, oltre che un appoggio sostanzioso. Come avete notato, il programma del seminario quest’anno tratta un taglio culturale abbastanza consueto in questo periodo: se ne parla molto, di intercultura. “Intercultura” è un termine abbastanza vasto, con un’estensione che, a parte nella didattica e nella pedagogia, trova ancora una capitolazione non ben specificata. Possiamo anzi dire che ogni processo culturale è un processo interculturale, però qui arriviamo al generico. Quello che sto dicendo è che, se il termine “cultura italiana” non si può più usare, come abbiamo scritto nel preambolo, c’è, per me personalmente che rappresento una scuola (di) cultura italiana, una contraddizione in termini (si capisce? Sono un po’ confuso, forse, sto cercando di raggruppare una riflessione). Nel senso che, se si parla di “intercultura” e di “multicultura” come un reticolo di elementi in conversazione, in combinazione, in contatto, in comunicazione tra loro, se si parla usando un termine che può essere negativo e probabilmente lo è, di “globalizzazione”, si esclude la realtà di una cultura specifica, come appunto quella italiana, che noi siamo qui a trattare e a presentare. La prima domanda che vi pongo come riflessione è: che cos’è l’intercultura? (poi ce lo spiegherà sicuramente meglio la dottoressa Scagliarini, non nel senso che abbia la risposta, però si interrogherà). La seconda questione è: esiste una cultura italiana, alla luce – uso una brutta parola – della globalizzazione? Cos’è che rende specifica la cultura italiana, solo la sua storia o esistono usi e costumi dell’Italia di oggi, specifici, singolari e particolari? Emotivamente, visto che io rappresento una scuola che si chiama “Cultura Italiana”, dico: “Certo, esiste la cultura italiana”. E come possiamo uscire dal paradosso? Possiamo uscirne dicendo che possiamo usare la posizione di un versante al termine “cultura”, come in questo caso italiana, semplicemente se consideriamo la cultura un processo, che noi fissiamo con un’istantanea, con una fotografia, dell’hic et nunc, di adesso, di questo momento. Non possiamo pensare alla cultura italiana come era per esempio la storia dei popoli, come si considerava nel periodo dell’Ottocento. Un esempio secondo me calzante è gli Etruschi. Sapete la solita storia- uso un dispregiativo, la solita storiella-  “qual è l’origine degli Etruschi”?. È una storiella perché gli Etruschi hanno un’origine come gli altri popoli. Gli Etruschi non sono un “etnos”, sono una composizione. Come: “qual è l’origine dei Francesi”? Voi lo sapete meglio di me, sono delle composizioni. Allora noi diciamo: perché gli Etruschi parlavano una lingua non-indoeuropea, una lingua così strana? E io qui risponderei: ma perché i francesi parlano una lingua neolatina e non parlano la lingua dei Franchi? Si capisce? Un falso problema. Diventa un falso problema se noi ipostatizziamo, cioè facciamo diventare sostanza, quella materia che è in sviluppo, in divenire. E in ciò condivido il discorso secondo me molto ricco e molto denso del Dottor Jurlaro, nel senso che nella cultura italiana – certamente sono italiano – però anche in senso antropologico, di vita di oggi, c’è un valore, c’è una consistenza. (Certamente ognuno vende il vino che ha, non quello degli altri) ———–. Il termine “multicultura” è nato in Italia negli anni Settanta quando iniziarono i cosiddetti scambi culturali tra le Università, forse in ambiente accademico, prima non esisteva. “Intercultura” apre al termine “pluricultura”; l’Italia è invasa dalla cultura anglosassone di tipo americano———? Certamente, lo è. Regge a questo impatto? La mia risposta è: come la nostra lingua regge ai diecimila termini inglesi o americani -dico “diecimila” ma forse sono di più-  perché se andiamo al cinema non andiamo a vedere un film (pronuncia inglese-americana), andiamo a vedere un film (pronuncia italiana). (Morfologicamente l’italiano sostiene—————–)

C’era quello che andava a chiedere le Marlboro dal tabaccaio, le sigarette, e il tabaccaio non capiva: si comprano le Marlbòro (?), dal tabaccaio. La lingua italiana morfologicamente regge alle contaminazioni. La cultura italiana regge alle contaminazioni? Le contaminazioni, vorrei pensare che sono anche positive; certamente sono pessimista, però le contaminazioni le pensiamo come nutrimento. Sapete che –questa è una cosa che mi piacerebbe dire dopo, quando vengono i produttori della strada dei vini e dei sapori delle colline tra Bologna e Modena-  l’immagine rurale dell’Italia – tutti voi conoscete certamente Pasolini- questa bella immagine della campagna, di contatto fisico con la terra, di quel bel, sano contadino che era legato alla sua terra, dipende dal fatto che questa persona viveva sul podere, questo pezzo di terra, e questo podere si è mantenuto in Italia fino al 1971 perché fino ad allora esisteva ancora la mezzadria. Il podere era quel pezzo di terra che doveva consentire la sussistenza a due famiglie: quella del mezzadro e quella del proprietario. Fino al 1971, tutti i proprietari davano a (?) mezzadria, piuttosto che in affitto, e questo comportava che, per il mezzadro, per l’agricoltore, che aveva molti bambini, perché il mezzadro con molti bambini aveva molte braccia che avrebbero lavorato su quel campo, quello era il suo mondo. Certamente era contaminato – contaminazione, una parola da intercultura – perché sullo sfondo c’era il villaggio, il paese, però il rapporto che lui aveva con questo luogo era un rapporto fisico, un rapporto con un luogo. Non c’erano eccedenze, non c’era surplus, non portavano le verdure al mercato, perché ci mangiava lui e la famiglia del padrone. E quindi anche le piccole città restavano piccole, perché non c’era molto da mangiare fuori dal podere. Secondo me è molto interessante il fatto che il podere sia una relazione con un luogo, a differenza della relazione con lo spazio, che, come sapete dalla prospettiva fiorentina del Quattrocento, scientifica, viene da “stadion”, che significa rapporti interni, dimensioni già prestabilite. Lo spazio è interscambiabile, sono delle misure, non c’è più rapporto fisico; nell’agricoltura intensiva lo spazio, che poi diventa territorio, dominio, vale in quanto spazio, ma può essere uno o l’altro, (non è che lo spazio in montagna vale di meno…), viene già smaterializzato. Non a caso in quel periodo, nel Quattrocento, a Genova – ed è già (?) capitalismo, capitalismo puro – a Genova (c’era la) carta moneta, perché c’erano i commerci, la scoperta dell’America, la dominazione era possedere la carta moneta, che andavano scambiandosi. A Firenze, no. La terra diventava spazio (———–). Ma questo è il discorso che vorrei fare quando presenteremo i produttori della Maremma, per spiegare perché lo spazio della Maremma, selvaggio e assoluto, nel senso senza confini, è diverso dal paesaggio del Nord della Toscana. Tutto questo per associarmi in maniera molto indiretta al discorso del dottor Jurlaro: noi – non so se sia plurale maiestatis o posso aggregarmi – siamo ottimisti, dobbiamo esserlo, anche per le funzioni diverse che svolgiamo, e comunque siamo fedeli alla nostra cultura in senso antropologico. E in questa circostanza ne siamo anche al servizio. Con questo ho concluso.

 

Proseguiamo il seminario con l’intervento della Dottoressa Sandra Scagliarini, lettrice del Ministero degli Affari Esteri all’Università di Monaco di Baviera; il titolo è “L’Italia delle Regioni: aspetti interculturali e linguistici”.

 

Sandra Scagliarini, lettrice del Ministero degli Affari Esteri, Università di Monaco di Baviera.

Buongiorno cari colleghi, sono molto felice di fare la vostra conoscenza. Il titolo del mio intervento è molto generico, molto ampio e quindi ho dovuto fare le mie scelte e ho deciso di proporvi una panoramica della situazione linguistica italiana, con un accento particolare (su quello che possono essere le) sulle variazioni delle Regioni e sulla collocazione sul territorio di altre minoranze non italofone. Però lo faccio anche nella convinzione precisa, che voi sicuramente condividete, che il linguaggio è la sedimentazione prima di una interculturalità infinitamente antica, tant’è vero che noi disegniamo – e anche, lo vedremo, gli storici linguisti hanno disegnato – le aree linguistiche, le aree dialettali italiane, ma fino ad un certo punto, perché appunto i fatti linguistici non si lasciano ricostruire completamente. Io, quindi, (questo è il mio parere personale), non tendo a drammatizzare eccessivamente il problema dell’interculturalità in questo momento di invasioni barbariche, come vengono definite da un film recentemente uscito sull’argomento, proprio alla luce dei fatti storici: cioè una situazione chiara, di partenza, iniziale, non è mai esistita. E se fosse mai esistita, non siamo in grado di ricostruirla. Allora partiamo per scoprire questa realtà linguistica della Penisola (?). Tutti i linguisti che si sono occupati di questo aspetto, a partire da Dante nel “De vulgari eloquentia”, hanno messo in rilievo la estrema molteplicità dei ——-(parlari?) presenti sul territorio. Cito da una traduzione di Mengaldo (?) la fine del passaggio relativo del “De vulgari”: “Pertanto, a voler calcolare le varietà principali del volgare d’Italia e le secondarie e quelle ancora minori accadrebbe di arrivare non solo alle mille varietà, ma a un numero anche superiore”. Facciamo un salto fino ad oggi; tutti i linguisti, anche attuali, che contemplano la situazione italiana sul piano della varietà diatopica territoriale ribadiscono questa estrema molteplicità. Seriani e De Mauro (?), per citare due fra i più autorevoli. Il secondo: “Non c’è Paese del Nord del mondo in cui, a parità di area e popolazione, vi sia un’analoga presenza, un analogo secolare insediamento di dialetti diversi e di lingue minori altre”. “Una situazione”, dice Seriani, “in tutto il dominio indoeuropeo paragonabile solo a quella dell’India, Paese quattordici volte più grande dell’Italia”. Quindi bisogna partire da questo dato e anche da un altro dato interessante e importante, vale a dire: abbiamo una lingua unitaria? Sì, ce l’abbiamo, sicuramente; l’italiano, quello che viene definito lo standard, la norma su cui si orienta il parlante italiano, esiste ed è usato. Però non è lingua unitaria da molto tempo, lo sappiamo, perché in realtà se leggiamo i dati angolari noi sappiamo che nel 1861 gli italofoni, secondo alcuni che hanno delle stime più ristrette parlano (?) di un 2,5% (De Mauro), Castellani è più generoso, dice il 9,5 ma di sicuro non più di questo 9,5, nel 1861. asetno di un 2,5% me più rsitrette Ma se scendiamo fino al dopoguerra, ancora nel dopoguerra solo il  18% della popolazione era italofona. E attualmente, e qui vediamo un salto notevole, abbiamo un 50% della popolazione che alterna italiano e dialetto, un 40% che parla solo italiano e solo un 6 -7 % che parla esclusivamente dialetto, presumibilmente persone più anziane e dislocate in determinate aree della Penisola (?). Bisogna quindi prendere atto di questa indubbia perdita di terreno dei dialetti – qualcuno parla anche di morte dei dialetti – però resta il dato incontrovertibile che la stragrande maggioranza degli italiani possiede, quantomeno sul piano della competenza passiva, un dialetto. Se quindi ci poniamo la questione del repertorio linguistico degli italiani, in questo momento storico nelle varie Regioni italiane, noi abbiamo questo concetto dello standard, che è l’italiano delle grammatiche, della norma, l’italiano che voi insegnate, però la definizione di questo standard è un’astrazione, perché in realtà, a maggior ragione con i dati che vi ho dato poco fa, tuttora questo standard non viene realizzato nella produzione linguistica da nessuno, se non da una categoria estremamente ristretta di persone che hanno studiato dizione, che praticano il doppiaggio, che quindi hanno (proprio) studiato (quella che deve essere) la pronuncia italiana dello standard. La stragrande maggioranza degli italiani parla un italiano regionale, e questa sarà la categoria su cui ci concentreremo e di cui analizzeremo una serie di tratti perché mi sembra anche il modo migliore di andare alla scoperta dell’italiano delle Regioni, prima di parlare delle altre lingue disseminate sul territorio nazionale. Quindi un italiano c’è, ovviamente, (avente?) come punto di riferimento lo standard, la norma (?), le produzioni riscontrabili sul territorio sono quelle dell’italiano regionale, e poi c’è questo dialetto, o koinè dialettale, che è anche importante, un punto di riferimento perché, anche se oramai sempre meno persone parlano il dialetto, la competenza passiva di questo dialetto c’è, permane, continua ad esistere. Che cos’è intanto questo italiano regionale? (Lo sapete tutti perché non è un concetto nuovo, sicuramente neanche per voi). È l’italiano dello standard (?) che si è corrotto, diciamo, con il sostrato dialettale che aveva alle spalle. E quindi noi abbiamo tante realizzazioni di italiano a seconda delle aree dialettali su cui questo italiano si è realizzato e si realizza. Ecco perché è importante partire dai dialetti (voi avete visto nella cartina, la prima che ho distribuito che vi ho indicato questa perché è di lì che bisogna partire) per capire quali italiani effettivamente si stiano parlando, si parlino in Italia. Questa cartina dei dialetti è la combinazione, che quasi tutti i linguisti propongono, di due grandi, importantissimi studi storici sui dialetti italiani. Il primo, del 1937, è di Gherard Rols (?), ben noto, immagino, a cui si deve l’individuazione della tripartizione del territorio, quella individuazione della tripartizione del territorio che poi è fondamentale: sono le due linee che vedete sulla cartina: La Spezia-Rimini e Roma-Ancona. Come vengono definite queste due linee? (Lo sapete, forse) Il Rols (?) procede individuando una serie di tratti fonologici, morfosintattici e lessicali, e traccia delle linee di confine fra i territori ove questi tratti sono presenti rispetto ad altri dove non lo sono più. In tal modo nello studio del Rols, che rimane fondamentale per quanto  successivamente sia stato messo in discussione, si ha una concentrazione di fasci di queste isoglosse, queste linee linguistiche, su due zone: una è molto netta, la linea La Spezia-Rimini; un po’ più frastagliata l’altra linea, che va da Ancona a Roma. Queste due linee, che sono tracciate appunto sulla indagine di caratteristiche ben precise (ripeto fonologiche, morfologiche e lessicali), (guarda caso) isolano perfettamente (più o meno perfettamente) la zona mediana con la Toscana nella sua particolarità. La cartina poi è un po’ più complicata perché, (sovrapposta a questa, vi ho dato solo il territorio della Repubblica italiana con le due linee del Rols), ma c’è sovrapposta la successiva classificazione del Pellegrini, che in effetti ha puntualizzato alcuni aspetti a cui il Rols (?) non aveva dedicato nessuna attenzione: vale a dire, ad esempio il Veneto, la zona Veneto-Friuli, andava definita meglio, bisognava puntualizzare una serie di aspetti e anche la divisione successiva fra l’area meridionale e l’area meridionale estrema sono appunto opera di Pellegrini. Rimaniamo un attimo al Rols perché già qui (?) abbiamo gli elementi fondamentali (per la comprensione?); non mi fermerò molto a lungo sui dialetti ma mi interessa fermarmici perché dai dialetti bisogna partire per capire le caratteristiche, soprattutto fonetiche, (saranno quelle che in particolare vedremo), degli italiani regionali, degli italiani effettivamente parlati. Il Rols (?), ad esempio, identifica che a nord della linea La Spezia-Rimini abbiamo l’insieme dei dialetti settentrionali, dove ci sono dei particolari fenomeni molto interessanti, ad esempio cui la sonorizzazione delle consonanti sorde in condizione intervocalica. Fratellum (?) dà (?) fradèl, in uno dei dialetti del Nord, urticam (?) dà ortiga. E questa sonorizzazione di consonanti, come vedremo poi della s in posizione intervocalica, rimane nell’italiano regionale del Nord. Un altro fenomeno è la de-geminazione, la riduzione della consonante doppia a semplice; e anche questo, nella produzione dell’italiano regionale del Nord, sarà uno dei tratti distintivi che permette a un parlante di un’altra Regione di identificare subito quella persona come proveniente dal Nord. Allo stesso modo abbiamo dei fenomeni tipici per il Sud, ad esempio appunto delle assimilazioni o dei fenomeni di sonorizzazione; un esempio potrebbe essere, assimilazioni, il gruppo nd diventa nn: quindi, non quando, ma quanno. (oppure, appunto, sonorizzazioni, ma non mi sto a soffermare più di tanto a questo punto su questa aspetti perché li avete tutti elencati in particolare in rapporto agli italiani regionali). A questo punto possiamo saltare il discorso sui dialetti, però una piccola considerazione va fatta, ancora. È proprio morto, il dialetto? Certo, ha perso terreno, moltissimo, però la cosa non desta meraviglia se si considera che il processo di effettiva unificazione linguistica del Paese avviene soltanto nel dopoguerra e avviene a marce forzate soprattutto negli ultimi decenni. Ricordate, vi ho detto, che nel ’45 abbiamo ancora una percentuale bassissima di italofoni. In realtà adesso il dialetto, (che potete già prendere in considerazione sotto la cartina, l’altro schema che vi ho proposto sulla diffusione del dialetto); in realtà questi sono dati che si riferiscono alle percentuali di persone che parlano il dialetto in casa, con i familiari. Una condizione quindi in cui (a punti di afasia particolare?——-) non si tende più ad usare il dialetto e quindi dobbiamo pensare che, se prendiamo in considerazione tutto l’arco della giornata e tutte le varie funzioni sociali, le percentuali di sicuro sono molto più basse. Già qui vedete che ci sono aree, intanto che al Sud lo si parla più che al Nord, con l’eccezione però del Nord Est, in particolar modo del Veneto, dove il dialetto viene ancora molto parlato. Invece è quasi completamente abbandonato al Nord, sempre meno persone parlano- e genitori, anche – parlano sempre più raramente dialetto con i figli; tanto è vero che studiosi come Cortellazzo (?) hanno riscontrato che c’è, da parte di alcuni giovani, di una percentuale sensibile, un recupero del dialetto (quando vanno a scuola), nella fase della scolarizzazione. Cioè, viene recuperato il dialetto, non integralmente, come sistema, ma semplicemente come si attinge all’inglese, come si attinge alle parole della tv, della pubblicità, per contribuire al gergo dei gruppi giovanili, in particolar modo. Quindi non so fino a che punto si possa parlare di un effettivo recupero del dialetto, non ne parlerei, però ci sono altri segnali che invece sono significativi: il  fatto, ad esempio, che dopo cantautori storici come Pino Daniele o De Andrè, che già avevano recuperato il dialetto in modo molto raffinato, ora dei gruppi Rap cantano in dialetto. Io ricordo ad esempio i Pitura Fresca in Veneto, ma ce ne sono altri, ad esempio ci sono (per darvi qualche altro nome) gli emiliani Modena City Ramblers, i piemontesi Mau Mau, i napoletani Almamegretta. Quindi questi sono segnali importanti invece che possono forse suffragare l’ipotesi -per me ancora ottimistica- di alcuni linguisti, che si stiano lentamente creando le condizioni per un recupero culturale dei dialetti, che dal dopoguerra in poi invece, nel processo di italianizzazione massiccia tramite la scuola e i media, erano stati considerati per anni come qualcosa di brutto, di repellente, un segnale di bassa estrazione sociale. Penso che la condizione sia completamente diversa qua perché è diverso il rapporto (?————–) dialetto. (bene, non lo so, vedremo). Di fatto si può dire che nella letteratura alta, invece, il dialetto già da tempo, dal dopoguerra, ha abbandonato – come dice Cortellazzo (?) – il ghetto dell’uso bozzettistico, crepuscolare, oleografico, lacrimoso a favore di una ricerca sperimentale, ed è andato spesso a cercare (anche proprio) le forme e i dialetti più arcaici, più desueti, meno frequentati, a volte anche polemicamente e in conflitto con un italiano standard che era avvertito come incapace di esprimere i bisogni più profondi, (quindi ci poteva anche essere questa opposizione polemica, alle volte), ma che in ogni caso ha prodotto altissimi risultati letterari e poetici; partendo da Pasolini possiamo arrivare al sardo Mario Pin, al romagnolo Giuseppe Bellosi, al veneto Andrea Zanzotto, alla bellissima prosa del vicentino Meneghello, al lombardo Consogni, al siciliano Buttitta, eccetera (?). Adesso, fatta questa considerazione (che mi premeva) sul dialetto, vediamo di considerare i fatti relativi al fenomeno più cospicuo sul piano della produzione linguistica, cioè (qual è l’italiano che effettivamente viene parlato), appunto questo italiano regionale. Qui potete prendere in considerazione lo schema, la pagina due, in sostanza (?), (di solito storicamente si parte a considerare (?) anche gli italiani regionali, quindi ci basiamo su questa cartina perché) avremo un italiano regionale settentrionale, un italiano regionale toscano e romano, e uno meridionale, e poi degli appunti particolari sul sardo. Questi sono i primi italiani regionali, che nascono (?) molto precocemente, proprio perché la norma imposta nel Cinquecento (a un certo punto è, come noi sappiamo), è riferita alla lingua del Trecento. E quindi già in Toscana si sviluppa una forma regionale di italiano che non è più lo standard, e lo stesso avviene a Roma, che nel Cinquecento subisce uno spopolamento e un ripopolamento in senso toscaneggiante perché si succedono sul soglio pontificio diversi Papi della famiglia dei Medici. Di conseguenza Roma, che prima aveva (un dialetto di tipo molto più) una parlata di tipo molto più meridionale, si sposta come orientamento più verso Nord e nel corso dei secoli questo determina una configurazione nuova. Vediamo questi tratti particolari che differenziano il toscano e il romano fra loro, perché sono in effetti due aree molto diverse con dei sostrati diversi. Ad esempio  il discorso è sempre fatto rispetto allo standard, che voi ben conoscete – abbiamo una diversa distribuzione delle vocali medie aperte o chiuse, per cui un toscano dirà dópo, mentre un  romano dice dòpo, più aperto; un toscano dice allégro, un romano dice allègro, più aperto. Parziale è invece la congruenza nella perdita della fricazione nelle palatali c e g. Lo standard cenagente, a Firenze suona scenasgente, mentre a Roma è scena ma gente. Solo in Toscana, poi, e non a Roma, permane questa tipica gorgia che è, qualcuno dice, di origine forse etrusca ma non si sa, francamente, per cui: hasaandathocapho. Solo romano, invece – non ve l’ho indicato ma ve lo aggiungo io- lo scempiamento della r per cui i romani dicono guerabira per guerra e birra. Questo tratto di scempiamento della r ci porta già più verso gli italiani centro-meridionali; e qui avete i tratti relativi agli italiani centro-meridionali, che in parte sono anche comuni al romano. Ad esempio, il rafforzamento di b e g intervocaliche: àbbileàggile. A Roma poi – volevo segnalarlo perché molti di voi sono già stati in Italia e hanno già sentito queste varianti, forse le hanno anche già catalogate – può capitare e in molte altre varietà mediane, che la gl si realizzi spesso come (?), quindi non figlio ma fijo. (Ci sono altri tratti che ora salto). Un altro tratto importante che vi ho indicato è la lenizione, vale a dire semi-sonorizzazione, delle occlusive tenui non precedute da consonante, per cui deputato dà debudado. E vi ho riportato una citazione, che indica Seriani nella sua bellissima grammatica, dal “Demetrio Pianelli” di De Marchi, dove proprio si usa come mezzo stilistico per connotare la persona, la provenienza e anche molto di più, anche se vogliamo una certa visione del mondo. “C’era, tra gli altri, il Cavalier Tagli dei Pesi e Misure, sempre rauco; il Commendatore Ranacchi della Prefettura, (…) il ‘gavaliere’ o ‘gommendatore’ Lojacono, ‘naboledano’ mandato quassù alle ‘Ibodeghe’, nero, rotondo, grave…”. Passiamo a un altro tratto tipico del meridione, la tendenza, che si sente anche in Toscana appunto, alle assimilazioni, per cui mondo dà monnogamba dà gamma. In generale è una tendenza a risolvere dei nessi consonanti difficili, o per assimilazione o (come si suol dire) per epentesi, vale a dire con l’aggiunta di una piccola vocale muta, per cui atmosfera diventa atemosfera, c’è questa e muta alla francese. Ce n’è un altro, che vi ho segnato, che si riscontra in Campania e in Abruzzo: la sibilante preconsonantica si palatizza: per cui noi sentiamo ashpettare (?) per aspettare shtanco per stanco. Negli italiani regionali meridionali estremi abbiamo le vocali, il sistema vocalico di cinque unità, e sono sempre aperte la e e la o , quindi amòre e nève. In molte zone della Sicilia in particolare si pronuncia la i diacritica, cioè quella dei dittonghi che in realtà è una semi-consonante che dovrebbe sparire: quindi non speciale ma speciale, non scienza ma scienza. In Salento e parte della Calabria abbiamo (come vedete qui, il Salento, la parte meridionale della Puglia, Calabria meridionale e Sicilia sono un’area linguistica con delle caratteristiche particolari, anche se non è facile ricostruire perché sia stato così, dal momento che i sostrati erano diversi). E qui succede quello che vi ho indicato, le occlusive sonore tendono, al contrario, a diventare sorde. Abbiamo visto che nel meridione c’è in generale un processo di sonorizzazione, che appunto è evidenziato benissimo dal “Demetrio Pianelli” in chiave stilistica; e qui avviene il contrario, ecco perché era comunque inevitabile individuare due aree linguistiche differenti, perché questo è un fenomeno macroscopico. Ragazzi qua diventa racazzipagare diventa pacaregridare diventa critare. In Sicilia avete molti suoni cosiddetti cacominali (?)o retroflessi, ad esempio la r tipica, che è r, rana (?), per cui la rana, non la rana, o carro, questa erre pronunciata in apice, un po’ all’americana, si potrebbe dire. Poi ci sono altri suoni sempre così, ad esempio trdtrstr;  tre viene pronunciato treFinestra. Poi ci sono dei raddoppiamenti consonantici all’inizio di parola o dopo l’articolo, soprattutto dopo l’articolo: ggitaggolaggatta, bbagno; e frequenti anche le assimilazioni. Nel sardo, (per andare un po’ più rapidi, perché sennò perdiamo troppo tempo), non abbiamo rafforzamento fonosintattico, che è un fenomeno particolare che in realtà è quasi solo del toscano nella sua forma pulita, canonica, però nello stesso tempo c’è il rafforzamento, il raddoppiamento di altre consonanti, anche il sistema vocalico è sostanzialmente ridotto a cinque. Adesso, siccome ci siamo soffermati tanto sui dialetti meridionali, dobbiamo parlare un po’ male anche di quelli settentrionali, e allora abbiamo il sistema vocalico ridotto a cinque unità nel Nord, quindi per e e o c’è una certa anarchia delle realizzazioni, da Provincia a Provincia, da Regione a Regione. Le consonanti sono sempre tenui: belo, …… (?). Poi anche pegno (?), figliacoscia (?), che il toscano vorrebbe sempre raddoppiati, in realtà vengono addirittura ulteriormente scemati e realizzano dei filia, cosia, penio. La s intervocalica è sempre sonora: casa (in toscano verrebbe casa). E poi, tipica dell’Emilia-Romagna, è la perdita dell’elemento occlusivo in ts e ds. Ed ecco che avete gli esempi: alzare diventa alsarezero diventa sero. Ancora dell’emiliano, e in particolare del bolognese (non credo di poterlo ridurre…non è di Reggio Emilia), è questa ‘salata’ dei bolognesi: shorbole, ad esempio. Neanche a Modena c’è questa, ad esempio. E anche qui avete poi una citazione da Seriani che riporta un articolo di Repubblica in cui si parodizza un deputato settentrionale, bolognese: “Shoshpettavo che Andreotti volesse togliersi qualche shassolino dalla scarpa con gli americani…”: ‘s salata’ bolognese. In Val D’Aosta, Piemonte, Alessandrino e Emilia trovate la ovulare, alla francese, molto diffusa, sistematica. In Veneto ad esempio, e soprattutto a Venezia, un’altra cosa che non vi ho indicato è che la l tende a scomparire quando è davanti a una i, per cui in veneto quelli diventa quei (che non è quei-quei, regolare), ma sta per quelli. Dico più chiaro:qualche diventa quaiche (?). Tutte queste trasformazioni, che possono essere ovviamente più o meno forti nella produzione linguistica, a seconda di infinite variabili che sono le componenti diastratiche (?), diafasiche, vale a dire, a seconda di come mi sento, di quanto sono rilassato, sono in casa i miei, ma anche a seconda di quanto posso, di quanto sono acculturato, di quanto sono scolarizzato, abbiamo una variazione che può essere molto ampia, ma questi sono i tratti caratteristici di questi tre gruppi che rimandano a questo panorama estremamente complesso dei dialetti precedenti. E ovviamente, così come per i dialetti cambia il dialetto da una città all’altra, da un paese all’altro, anche le realizzazioni dell’italiano regionale cambieranno quasi anche da una città all’altra. (Può bastare, adesso vi volevo fare ascoltare una realizzazione …..Sul retro non li stiamo ad analizzare, ve li potete leggere, sono anche abbastanza noti; questi sono i tratti fonetici, e sul retro vi ho riportato anche una serie di tratti morfosintattici e sotto due esempi di variazioni lessicali, si tratta appunto di variazioni di caratteristiche varie da Regione a Regione). Magari diamo un attimo un’occhiata a quelli morfosintattici, che sono anche interessanti. A Nord, uso del passato prossimo e non del passato remoto, e questo l’avete già appurato, però la tendenza si sta diffondendo in tutto il Paese, tant’è vero che alcuni linguisti, cioè Sabatini, che ha condotto i suoi studi proprio sul neostandard o italiano dell’uso medio, questa la considera una di quelle caratteristiche, uno di quei trentacinque tratti da lui identificati, per parlare appunto di una categoria intermedia: lo standard è l’astrazione, sotto c‘è quello che si parla effettivamente, vale a dire l’italiano regionale, a metà strada, però, c’è qualche cosa di medio che si è costituito in questi anni, vale a dire l’italiano medio regionale – perché l’altro, ripeto, era pura astrazione – parlato dalle classi colte, acculturate: neostandard, appunto. Alcuni linguisti però contestano questa categoria. In ogni caso, questa caratteristica che un tempo era solo del Nord, di usare il passato prossimo e non il passato remoto, in realtà si sta espandendo in tutta l’Italia (…). E infatti io devo sempre discutere perché quando lavoriamo gli studenti non vogliono mai usare il passato remoto per comodità, e noi linguisti dobbiamo insistere perché lo devono sapere, come (…?). Uso dell’articolo con i nomi di persona: il Giuseppe, la Maria. Uso di me e te come soggetti: fai te come preferisci! Uso della costruzione perifrastica essere dietro a; secondo me però questi ultimi tre tratti sono di un parlato poco controllato, diciamo, quindi mentre i tratti fonetici sono quelli, questi sono di un parlato poco controllato, che può anche essere legato a una situazione di familiarità, di amicizia, di relax. Centro-Sud: noi si va. Accusativo preposizionale: ho visto a Maria, con oggetti animati. Uso della costruzione perifrastica stare ancora a; anche questa secondo me, invece, si è diffusa in tutta Italia. Stai ancora a mangiare? (Sempre di un parlato colloquiale). Sud: confusione nel periodo ipotetico di secondo e terzo tipo fra congiuntivi e condizionali; può succeder di tutto, come vedete qui. La preposizione a al posto di per (specie in Abruzzo). Poi abbiamo altri fenomeni, come la distribuzione diversa dei suffissi diminutivi, per cui al Centro-Sud abbiamo piuttosto –uccio, al Nord-Ovest piuttosto –ino, al Nord-Est piuttosto –etto. Quindi uno del Centro-Sud dirà piuttosto macchinuccia, uno del Nord-Ovest dirà piuttosto macchinina, e uno del Nord-Est dirà piuttosto macchinetta. Poi avete, ve le potete leggere tranquillamente, queste due schede, una relativa all’espressione marinare la scuola, come si dice nelle varie Regioni italiane – questi sono i cosiddetti geosinonimi – e le altre sono le forme d’italiano regionale per grembiule (……). Parliamo ora delle altre entità presenti: le minoranze linguistiche. Molto rapidamente: minoranze linguistiche ne abbiamo una serie cosiddette neolatine perché sono parlate di tipo neolatino, (va bene, queste le avete anche riportate lì, se non sbaglio, sulla prima cartina, in parte). Consideriamole tutte partendo dal Piemonte:abbiamo circa 200.000 italiani che usano, soprattutto in situazioni familiari, insieme all’italiano, ovviamente, i Papuau-citani (?); andando più a Nord abbiamo circa 100.000 (in numeri non ve li ho indicati, in generale è circa il 5% della popolazione italiana che è alloglotta, che parla anche una parlata, una lingua, diversa dall’italiano; adesso scorrendo in numeri ….). 200.000 di parlata occitana, circa 100.000 di parlata franco-provenzale, quindi sono numeri consistenti,  (sto parlando delle minoranze neolatine) poi abbiamo circa 30.000 che parlano il ladino dolomitico, detto anche ladino centrale, e in Friuli 700.000 friulani che diversi linguisti definiscono ladino orientale. Il ladino occidentale, lo sapete, sta in Svizzera, è il romancio dell’Engadina e dei Grigioni. Poi per trovare della altre minoranze neolatine dobbiamo arrivare fino giù in Sicilia o in Basilicata, dove troviamo appunto qualche migliaia, forse neanche, di Gallo-Italici. Gallo-Italici, noi non abbiamo guardato bene la carta dei dialetti, ma nei dialetti settentrionali avete le parlate gallo-italiche; sotto il termine di parlate gallo-italiche si riassumono: Piemontese, Lombardo, Emiliano. Una minoranza gallo-italica è presente anche in Basilicata e in Sicilia; questo risale al Medioevo ed è una conseguenza della politica matrimoniale condotta dagli Svevi con gli Alerani di Monferrato. Poi troviamo, in provincia di Cagliari, nel Sud della Sardegna, dei liguri, una comunità di 9.000 persone; anche questi sono insediati in questa zona dalla fine del Settecento, e si tratta di una politica di insediamento che all’epoca condusse in modo mirato Carlo Emanuele III di Savoia. Poi abbiamo, nel Sassarese, 20.000 persone che parlano il catalano – ovviamente tutte queste persone parlano anche l’italiano, e addirittura come lingua più importante, come lingua di riferimento, come lingua-tetto, hanno l’italiano – però c’è ancora, parlato magari in famiglia. (Questo dipende dal prestigio che ha in una determinata area quella parlata- prestigio che si determina anche con fatti istituzionali. È evidente, adesso parleremo delle minoranze non- neolatine, che invece se andiamo in Sud-tirolo abbiamo il tedesco al primo posto, come lingua standard, perché è difeso anche con particolari leggi e istituzioni, mentre in tutti questi casi l’italiano è la lingua di riferimento e quindi anche la cultura di riferimento. Poi queste situazioni non sono stata commentarle tutte per filo e per segno, ma in alcuni casi sono anche a grave rischio di estinzione, proprio perché la tutela è intervenuta molto recentemente e ancora si deve esprimere).  Allora, 20.000 di parlata catalana, e poi ci sono ancora dei Gallo-Italici nella zona della Versilia e di Lucca, quindi in Toscana, dove sono arrivati dal Nord. Poi ci sono le altre minoranze linguistiche non-neolatine, la più consistente ovviamente è quella dei Sud-Tirolesi, è la più estesa, la più numerosa, la più tutelata, la più consistente per questo, ne abbiamo anche un indice numerico ben preciso: nella provincia di Bolzano ci sono 450.000 persone, 280.000 sono i tedescofobi, pari al 62%, 150.000 gli italofoni, pari al 33%, 20.000 i ladini, pari al 5%. Non è che voglia essere così pignola, ho citato in questo caso le percentuali perché erano state ancorate, segnalate, nel pacchetto di accordi stabilito nel ‘46 tra l’Austria e l’Italia; in questo pacchetto si stabilisce che queste percentuali non possono cambiare di molto e deve permanere, sul piano della politica occupazionale e degli interventi istituzionali, questa maggioranza, nella provincia di Bolzano, di tedescofoni. Quindi sicuramente è la meglio tutelata per questo. Poi abbiamo una serie, lungo l’arco alpino a oriente, una serie – centro-orientale – di parlate bavaro-austriache, come sappiamo. Una è quella cosiddetta Cimbra, dei tredici Comuni veronesi e dei sette Comuni vicentini, che è a forte rischio di estinzione, ho letto recentemente. Poi abbiamo i cosiddetti Moccheni (?) (————–)  Moccheni perché usavano il verbo ———–? E questi sono qualche migliaio. Poi abbiamo i veri e propri Bavaro-Austriaci, così definiti, a Luserna in Provincia di Trento, ma sono pochi, 700-800 (?). Continuo scendendo lungo l’Adriatico, c’è prima, al confine con il Friuli e la Slovenia, abbiamo un consistente gruppo di sloveni, di persone che parlano sloveno, ma sono italiani: 60.000, in Provincia di Udine, Gorizia e Trieste. Poi abbiamo un insediamento croato in Molise, e diffusa in tutto il Sud la cosiddetta sporade (?) albanese, (sono disseminati un po’ ovunque, in Molise, Campania, Puglia, Calabria, anche questo è un insediamento del quindicesimo secolo). (Sporade perché sono disseminati come le spore, non sono concentrati in una zona particolare). E parlano l’arabescia (?)-l’arbaresc (?). Poi ci sono circa 20.000 italiani che parlano anche una parlata greca, i cosiddetti Grici, soprattutto in provincia di Lecce e Reggio Calabria. (E abbiamo finito). Rimangono due comunità – non comunità, appunto non sono comunità, ed è questo il problema – circa 100.000 zingari, Sinti al Nord e Rom al Sud, e, distribuiti su tutto il territorio, anche 35.000 (?) italiani di parlate cosiddette giudeo-italiane. Si tratta come vedete di minoranze linguistiche anche di antichissima data, e la costituzione della Repubblica prevedeva già dal ’48 la necessità di tutelare le minoranze linguistiche. Di fatto però la legge di tutela delle minoranze linguistiche, a parte la situazioni particolari delle Regioni a statuto speciale, che hanno potuto devolvere anche di mezzi (?) alla tutela del loro ……., (ma come abbiamo visto ci sono delle minoranze disseminate anche in altre aree), la legge di tutela è stata varata solo nel 1999. E il regolamento applicativo è del 2001, per cui è chiaro che in più di cinquant’anni molte, o sono sparite, o sono in via di estinzione, cioè si interviene con notevole ritardo. Questa legge – la legge 482 del 15 dicembre ’99 – tutela la lingua e la cultura, cito: “Delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate, di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”. Quindi restano escluse – e ora stanno protestando – le comunità gallo-italiche della Sicilia e della Toscana, i liguri si Sardegna, che abbiamo visto, gli zingari e queste parlate giudeo-italiane. Rimangono escluse perché la legge –forse sarà passibile di modifica – coerentemente vuole un’unità territoriale, un insediamento territoriale, questa non è nemmeno l’unica condizione ma è necessario anche ce ci sia una comunità con proprie istituzioni, intenzionata a perseguire un progetto culturale e linguistico comune, quindi deve trattarsi di una comunità con proprie istituzioni anche sul piano organizzativo. A questo panorama già estremamente vario – ripeto sul piano più cospicuo quello che ci interessa di più è l’italiano regionale- dobbiamo poi aggiungere il discorso dei flussi migratori. (mi sono dimenticata di farvi ascoltare la cassetta con gli italiani regionali, adesso ve la faccio sentire). Adesso vi faccio sentire la cassetta con gli italiani regionali. Questa registrazione è una delle poche (io conosco solo questa), fatta molto tempo fa – l’avete nelle indicazioni bibliografiche anche nel Canepari, dell’83, perché è l’unico lavoro che abbia anche questa appendice concreta con queste realizzazioni dell’italiano regionale che io conosca – è fatta un po’ in modo ingenuo, e lo sentirete, le registrazioni non sono particolarmente buone, le frasi scelte secondo me non sono particolarmente felici, c’è un repertorio molto lungo, ha fatto pronunciare a tutti questi parlanti delle venti Regioni italiane 25-30 frasi, ma tutte senza contesto, oggi lo si farebbe in modo diverso e forse sarebbe anche opportuno farlo in modo diverso, però è interessante perché comunque è un documento. Non ve le faccio sentire tutte e venti, non sono così cattiva, vi faccio sentire 4 varianti – 5 o 6- ma solo queste 4 o 5 frasi, per avere giusto la cadenza, l’intonazione, perché questo è un fatto che non è descritto in modo soddisfacente. E precisamente sentirete Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Veneto, Liguria e Emilia.

Registrazione: “Questa è la zona della coltivazione dello zucchero. La casa è divisa come nel disegno. Assaggio i piselli e ti dico come sono. È andato in pensione il mese scorso. Possiamo chiudere? Hai qualcosa per scrivere? Si può interrompere?”.

Ripeto, sarebbe da rifare, soprattutto sarebbe necessario fare una registrazione migliore, più pulita, anche nella cassetta originale era pessima, ma lo trovo una lavoro per molti versi più interessante, anche in ambito didattico, di tante altre cose, e quantomeno una cosa nuova, una registrazione pulita; un recupero di questi aspetti in modo più sostanziale anche nei libri di testo sarebbe importante, perché questo è l’italiano che si incontra andando in Italia, non se ne incontra un altro, non si incontra lo standard, che non esiste. A questa situazione già molto complessa si aggiungono le nuove migrazioni. Vi do solo dei dati, vi renderete conto del perché. Intanto ho fatto una fatica estrema a trovare dei dati aggiornati di quanti siano gli immigrati, poi alla fine ho trovato in internet il dossier Caritas, citato da molte altre persone, che pare sia quello di riferimento, mentre Istat e altre grandi istituzioni statistiche hanno dati di cinque anni fa. Il dossier Caritas 2003 mi dice che all’inizio di quell’anno (la data esatta è 1/1/2003), in Italia c’erano circa 2.395.000 immigrati, pari al 4,25% della popolazione italiana. È una percentuale bassa, infatti gli italiani si sono spaventati perché era raddoppiata in un anno, ma in effetti la Germania ne ha quasi il doppio, (però dal punto di vista italiano gli hanno detto: sono solo il 2%, improvvisamente da un mese all’altro gli dicono che sono il 4,2, è un fenomeno nuovo); però dobbiamo capire che agli italiani è stato detto che gli immigrati erano il 2& e poi improvvisamente, il mese dopo, che erano raddoppiati, per gli italiani era un fenomeno nuovo, per cui gli italiani non si sono preoccupati affatto, sul piano interpersonale si costruiscono  rapporti stupendi, ma leggendo il giornale ci si terrorizza per dei numeri che non vogliono dire assolutamente nulla di …(?). In questo modo, in ogni caso, l’Italia è il terzo Paese della Unione Europea per presenza di extracomunitari, dopo la Germania al primo posto, e la Francia al secondo. O forse se la gioca con la Gran Bretagna. Gli immigrati sono in particolare presenti al  Nord-Ovest (32,8%), segue il Nord-Est (26%), al centro abbiamo un 8,4%, al Sud 9,8%, sulle isole il 4% (sono tutti dati che trovate andando a guardare il dossier della Caritas). Quello che adesso ci interessa qui è quante lingue sono entrate in Italia con queste persone. Intanto chi sono? (Lo vedete…). Al primo posto è passata improvvisamente la Romania, che era al terzo posto nelle statistiche precedenti, (perché considerate 1/1/2003, alla fine del 2003 c’è stata un’altra regolarizzazione, in ottobre – novembre, mi pare, quindi questa classifica è già cambiata, però) questi dati corrispondono effettivamente al fatto che abbiamo visto negli ultimi anni arrivare più persone dall’Est che da altre zone. Il Marocco rimane comunque al secondo posto, l’Albania al terzo, l’Ucraina è saltata, rispetto alla precedente classifica, dal ventisettesimo al quarto posto (c’è un’infinità di Ucraini che sono arrivati in Italia), specie donne, specie badanti. Cina popolare stabile, Filippine stabili, Polonia dal dodicesimo al settimo posto. Tunisia stabile, Senegal stabile, l’Ecuador è passato dal trentesimo al decimo posto. Però non sono nella nostra area, io ad esempio in Emilia non ho visto tanti Ecuadoregni. Evidentemente in altre Regioni italiane. Il Perù è passato dal quattordicesimo all’undicesimo. La Moldavia è un fenomeno interessante, è passata al diciassettesimo posto dal quarantunesimo, perché anche qui, come per l’Ucraina, c’è l’assistenza ai bambini, agli anziani, per le quali sono preferite sul mercato le donne ucraine o moldave. Queste sono solo le prime venti posizioni, ce ne sono poi altre. Complessivamente sono entrate in Italia 182 etnie con 182 parlate, lingue diverse, e diciotto diversi credi religiosi. È chiaro quindi che a questo punto il compito della geografia linguistica è colossale, c’è da riscrivere la geografia linguistica italiana, visto che si tratta di fenomeni non aleatori (?), dato che l’economia ha bisogno di queste presenze. Quindi, sarà presto da riscrivere. (Quindi allevate i vostri ragazzi a prepararsi a grossi compiti futuri). Per ora è un problema, sicuramente, che in parte si avverte e sempre più si avvertirà in futuro (perché le comunità tenderanno). Attualmente questo numero che vi ho dato comprende la stragrande maggioranza di lavoratori e vi posso dare le percentuali di quanti sono i congiunti; su questo numero che vi ho dato, circa 1.600.000 sono i congiunti, il resto sono lavoratori. In ogni caso, con la progressiva scolarizzazione dei bambini, (e sappiamo che più le comunità si consolidano e più fanno venire i parenti, si insediano. Per ora tra l’altro la maggior parte di questi immigrati sono relativamente giovani rispetto alla media dell’età della popolazione italiana, che come sapete è molto invecchiata, ma presto si sposeranno, metteranno su famiglia, quindi i problemi che voi conoscete benissimo da molti anni, ma a livello di scolarizzazione si stanno già pian piano ponendo, si porranno sempre più: il discorso delle classi con tanti gruppi etnici, con tanti gruppi culturali). Per ora si avverte ancora abbastanza poco ma è sempre più consistente. Io concluderei qui per lasciare lo spazio… . Questo panorama complessivo, più che altro linguistico ma appunto muovendo dalla convinzione che i fatti linguistici siano delle spie importanti dell’interculturalità. Poi ci sono tante possibilità, c’è la possibilità di percorrere il lessico e andare a scoprire la storia dei rapporti interculturali fra l’Italia e la Germania, oppure, anche rispetto a queste nuove immigrazioni gli arabismi; noi abbiamo degli arabismi ormai consolidati nel nostro lessico, di cui non abbiamo nemmeno più idea che siano arabismi; pensate alla parola zero: viene dall’arabo. Mentre i più recenti non si integrano, cioè non sono neanche soggetti ai fenomeni di adattamento fonologico, vengono solo pronunciati così. Perché è così? Forse perché ancora non c’è un atteggiamento di accettazione; questo fra l’altro non è solo un problema italiano ma anche tedesco. Certo i fenomeni di adattamento fonetico o addirittura morfologico durano più anni, è un periodo troppo breve quello che stiamo analizzando, ma non c’è nessuna tendenza ad esempio a giocare – nei gerghi giovanili che citavamo prima, che sono così significativi di valori culturali di riferimento, si gioca con l’inglese, si gioca col dialetto, si gioca con la pubblicità, non si gioca con gli arabismi, non si creano parole, o forse sì, ri-semantizzandoli, però c’è ancora un certo atteggiamento di stupore, di perplessità. Quindi anche i fatti linguistici raccontano molte cose sull’integrazione avvenuta, non ancora avvenuta, eccetera. Mi fermo e se avete delle domande…

Massimo Maracci: se ci sono delle questioni, sono apprezzate.

(Sandra Scagliarini: Ma potete farmele anche dopo, anche stasera)

…..Io vorrei chiedere una cosa. Non ci sono i turchi qua (?), dal punto di vista tedesco ma anche…

Scagliarini: non ci sono, è vero. Sì è vero, questi sono i fenomeni delle famose catene di richiamo, rovesciando il discorso perché gli italiani si sono mossi, si sono mossi già molto di più, però ci sono proprio le catene di richiamo (importanti secondo me), cioè il fatto che una serie di persone partano e poi preparino il terreno agli altri. A un certo punto il fenomeno è anche automatico, un po’, o Lei pensa che ci siano delle altre ragioni?

 -Intervento: Io pensavo che almeno 30.000 stessero in Italia (?)

Scagliarini: Attenzione, queste sono le prime venti posizioni; le 182 etnie e lingue di cui vi parlavo sono riferite alle prime trenta posizioni, questo vuol dire che ce ne sono ancora, di posizioni, per cui qualche turco c’è di sicuro anche in Italia. Ora non è più così strano perché, essendo qua i turchi…………………………………………………………………………………………………………………………………….

(non finisce)

 

 

(Giovedì 22, ore 17.15: Massimo Maracci: La Via Emilia: introduzione alla Strada dei vini e dei sapori)

 

Sapete che –questa è una cosa che mi piacerebbe dire dopo, quando vengono i produttori della strada dei vini e dei sapori delle colline tra Bologna e Modena-  l’immagine rurale dell’Italia – tutti voi conoscete certamente Pasolini- questa bella immagine della campagna, di contatto fisico con la terra, di quel bel, sano contadino che era legato alla sua terra, dipende dal fatto che questa persona viveva sul podere, questo pezzo di terra, e questo podere si è mantenuto in Italia fino al 1971 perché fino ad allora esisteva ancora la mezzadria. Il podere era quel pezzo di terra che doveva consentire la sussistenza a due famiglie: quella del mezzadro e quella del proprietario. Fino al 1971, tutti i proprietari davano a (?) mezzadria, piuttosto che in affitto, e questo comportava che, per il mezzadro, per l’agricoltore, che aveva molti bambini, perché il mezzadro con molti bambini aveva molte braccia che avrebbero lavorato su quel campo, quello era il suo mondo. Certamente era contaminato – contaminazione, una parola da intercultura – perché sullo sfondo c’era il villaggio, il paese, però il rapporto che lui aveva con questo luogo era un rapporto fisico, un rapporto con un luogo. Non c’erano eccedenze, non c’era surplus, non portavano le verdure al mercato, perché ci mangiava lui e la famiglia del padrone. E quindi anche le piccole città restavano piccole, perché non c’era molto da mangiare fuori dal podere. Secondo me è molto interessante il fatto che il podere sia una relazione con un luogo, a differenza della relazione con lo spazio, che, come sapete dalla prospettiva fiorentina del Quattrocento, scientifica, viene da “stadion”, che significa rapporti interni, dimensioni già prestabilite. Lo spazio è interscambiabile, sono delle misure, non c’è più rapporto fisico; nell’agricoltura intensiva lo spazio, che poi diventa territorio, dominio, vale in quanto spazio, ma può essere uno o l’altro, (non è che lo spazio in montagna vale di meno…), viene già smaterializzato. Non a caso in quel periodo, nel Quattrocento, a Genova – ed è già (?) capitalismo, capitalismo puro – a Genova (c’era la) carta moneta, perché c’erano i commerci, la scoperta dell’America, la dominazione era possedere la carta moneta, che andavano scambiandosi. A Firenze, no. La terra diventava spazio (———–). Ma questo è il discorso che vorrei fare quando presenteremo i produttori della Maremma, per spiegare perché lo spazio della Maremma, selvaggio e assoluto, nel senso senza confini, è diverso dal paesaggio del Nord della Toscana. Tutto questo per associarmi in maniera molto indiretta al discorso del dottor Jurlaro: noi – non so se sia plurale maiestatis o posso aggregarmi – siamo ottimisti, dobbiamo esserlo, anche per le funzioni diverse che svolgiamo, e comunque siamo fedeli alla nostra cultura in senso antropologico. E in questa circostanza ne siamo anche al servizio. Con questo ho concluso.

 

Massimo Maracci: Dobbiamo ringraziare la Dottoressa Salati…. E l’Istituto Italiano di Cultura, che ha non solo accettato, ma caldeggiato, il suo intervento.

 

Contri: Davvero è stata veramente una cosa unica e speriamo che in voi rimanga e soprattutto che non faccia fare brutta figura alla dottoressa e al professore perché sennò mi licenziano a me e alla mia strada. Andiamo subito al sodo perché mi piace anche ogni tanto fare qualche battuta in mezzo. La strada è la prima strada dell’Emilia-Romagna. In Italia c’è un regolamento che disciplina gli itinerari enogastronomici regionali. Ogni Regione ha la sua legge e il suo regolamento, e in base a quello…(È possibile avere la lavagna luminosa, dottoressa? Perché avevo portato alcuni lucidi che potevamo sfruttare qui). Vi ho portato alcuni dati per farvi capire come (?) il turismo in Emilia-Romagna. Nel 1999 noi avevamo trentacinque milioni di presenze circa, e nel 2002 trentasette milioni. Quindi sta crescendo finalmente il turismo anche in Emilia-Romagna, chiaramente il nostro forte è la costa romagnola, quindi Rimini, Riccione, Cattolica, e chi più ne ha più ne metta. Quindi abbiamo circa ventisette milioni di presenze, di cui ventun milioni in alberghi, quattro milioni e rotti in campeggio, e due milioni e settecentomila in agriturismo, che sono quelli che più si avvicinano a noi. Io parto da questi dati per poi arrivare ad addentrarmi di più nel nostro turismo enogastronomico. Quindi c’è il turismo delle città, quattro milioni di presenze, le terme – noi in Emilia-Romagna abbiamo una forte vocazione alle terme, nel nostro territorio Modena-Bologna abbiamo ad esempio le terme di ……che sono a fianco di Maranello, forse Maranello vi dice qualcosa in più: siamo nella patria di Schumacher, noi invece veniamo dal paese dove gli producono quel lavorino che ha sotto il volante, quel motore che ci da tante soddisfazioni in questo periodo – Potrei metterci il turismo legato alla Ferrari ma ve lo dico in termini banali, sono centoottantamila presenze l’anno, solo a visitare il museo della Ferrari. Maranello è un paesino a venti chilometri da Modena, praticamente è tra Bologna e Parma, per intenderci, e da lì inizia il nostro itinerario enogastronomico “Città, Castelli e Ciliegi”. Come vedete, c’è l’Appennino, che è quello che mi interessa più da vicino. A me pagano per portare queste presenze qua, in termini molto pragmatici. Novecentoottantamila presenze, noi siamo forti nell’Appennino, soprattutto emiliano, soprattutto dove c’è il Cimone e quindi le stazioni sciistiche più importanti. (…) Allora, cosa significa fare turismo territoriale? È una parola molto forte che noi stiamo usando molto, il turismo di sistema, il turismo di rete. La mia associazione ha proprio questo compito: mettere insieme tanti piccoli campanili e cercare di dirgli: “Signori, se vi mettete insieme forse riusciamo a fare qualcosa, se ognuno fa il turismo per i cavoli suoi probabilmente la nostra terra non viene conosciuta. Quindi, cos’è questo mettere insieme tante cose? È un’analisi attenta del territorio, quindi andiamo ad analizzare le emergenze ricreative, quindi con le manifestazioni, il volontariato, lo sport. Il volontariato, credo che capiate tutti cos’è, è quelle persone che lavorano gratuitamente per un loro fine sociale. Noi fortunatamente in Emilia, di questo ne siamo veramente ricchi. Quindi le amministrazioni pubbliche, i Comuni, le Province, le Regioni, si vantano di avere queste persone che riescono a costruire dal nulla tante belle manifestazioni, che persone come me riescono poi a sfruttare per far venire a conoscere il nostro territorio. Quindi le emergenze architettoniche, voglio dire i borghi, i centri storici, senza nulla togliere alle grandi città come Modena e Bologna che sono culturalmente e architettonicamente qualcosa di veramente speciale, però abbiamo tanti piccoli centri storici sul nostro territorio, veramente molto interessanti. Poi abbiamo l’emergenza della tradizione. Cosa sono? Il prodotto agricolo. Spero che si fermino tutti di là, dopo; saremo intorno a un tavolo un po’ diverso, magari al posto dei libri potete trovare tanti salumi o tanti dolci portati dalla nostra terra. Quindi il prodotto agricolo per noi diventa veramente molto importante. Prodotti agricoli che dopo vi elencherò; chiaramente andiamo dal Parmigiano alla mortadella di Bologna, eccetera. Poi c’è anche, però, il prodotto industriale. L’aceto balsamico tradizionale di Modena credo che lo conosciate tutti, però abbiamo di fianco il prodotto industriale dell’aceto balsamico, quello che comunemente noi itailani andiamo a prendere nel supermercato. Per fare un raffronto, così forse vi rimane più in testa, una bottiglina da cento cc di aceto balsamico tradizionale di Modena, invecchiato venticinque anni, costa circa sessanta euro, una bottiglina da un litro comprata al supermercato costa cinque euro. Questo per farvi capire la differenza del prodotto; però ha la sua importanza. Poi abbiamo il prodotto artigianale; chiaramente dalle nostre parti non c’è solo il prodotto agricolo. Voglio dire, io vengo da una terra dove Sassuolo ha fatto conoscere la ……a tutto il mondo, e quindi anche il prodotto artigianale un pochino più……, è veramente importante. Poi abbiamo le emergenze culturali: le mostre, la storia, gli usi, i costumi, le pubblicazioni (?). Noi abbiamo un territorio dove gli Estensi hanno fatto la sua epopea e quindi ci vantiamo anche di fare delle rievocazioni storiche. Q gli Estensi hanno fatto la sua epoeAd esempio al mio paese, io vengo da Castelvetro, lo troverete in cima alle vostre guide, noi facciamo ogni due   vostre guide, noi facciamo ogni fueanni una rievocazione storica del Cinquecento, cioè una partita a dama, il nostro paese ha una scacchiera al posto della piazza, e noi facciamo la partita a dama vivente, quindi con dei costumi fatti dai famosi volontari là in fondo, che però hanno un valore meraviglioso (?). Per diventare itinerario turistico: vedete, norme previste dall’articolo quattro della legge regionale 23 del 2000. Questa è una legge regionale dell’Emilia Romagna; come facciamo a diventare itinerario turistico? Noi nel ’99 siamo partiti – deriva poi dalla legge 7 del ’98 – e abbiamo detto: stà a vedere che dobbiamo portare del turismo non solo sul mare, ma proviamo a portarlo in montagna da noi e facciamogli conoscere questi benedetti prodotti. Allora, la Comunità Europea, tramite il cosiddetto progetto …(?), ci dice: “Signori sindaci, mettetevi assieme e provate ad andare d’accordo. Figuriamoci un po’, mettere d’accordo tante teste politiche. Però, questi si sono messi intorno a un tavolo come questo e poi hanno detto: “Bene, cominciamo a firmare un protocollo d’intesa e proviamo a diventare una strada. Ci hanno dato qualche soldino, questi signori quando vedono i soldini si capiscono tutti, quindi partiamo. Sono partiti e hanno presentato una domanda in cui dicono: noi ci siamo messi insieme, vogliamo mettere insieme, come nel nostro caso, sedici Comuni – che, vi posso annunciare oggi, siete i primi a saperlo, proprio ieri hanno deliberato i Comuni, ecco perché non sono potuto partire un giorno prima, abbiamo introiettato altri due Comuni, Pavulle e Serramazzoni, stiamo girando un po’ intorno a Maranello, perché sapete, la Ferrari comunque muove turismo, quindi cerchiamo di allargarci in quella zona – quindi saranno diciotto Comuni. Si sono messi d’accordo e hanno presentato l’Emilia Romagna alla direzione generale dell’agricoltura. Su questo faccio un piccolo inciso: purtroppo noi siamo emanati dalla legge regionale sull’agricoltura, benché facciamo turismo. Il turismo non è agricoltura, secondo alcuni. Fortunatamente adesso sembra che si siano messi d’accordo, cominciano a collaborare, però in passato questi due assessorati, quello all’agricoltura e quello al turismo, venivano dati a due persone diverse – questo a partire dal piccolo Comune fino ad arrivare al governo –  addirittura nel governo non c’è neanche più l’assessorato al turismo, pensate un po’, quindi cerchiamo veramente di fare collimare queste due cose. Quindi, presentiamo la domanda alla direzione generale dell’agricoltura, nel contempo …….le due Province, perché noi, visto che siamo stati i primi, e sapete che i primi è come i primi film (gli facciamo provare tutto), ci hanno fatto provare addirittura su due province, che è ancora più difficile la cosa, mettere insieme la Provincia di Modena e la Provincia di Bologna, pensate che anticamente, ve l’avrà detto forse il Professore, hanno litigato per un secchio, queste due Province. C’è proprio la battaglia degli antichi, che è più una leggenda che una battaglia, ma comunque si dice che per un secchio si sono messe a litigare queste due Province, e i cittadini di una e i cittadini dell’altra non ne vogliono sapere reciprocamente. Beh, a noi hanno detto: “Se va questa, se riusciamo a fare questo itinerario, vedrete che poi in Emilia Romagna li facciamo tutti”. Infatti oggi ce ne sono tredici, non ci siamo più solo noi. Quindi, alle Province gli andiamo a dire: “Attenzione, noi presentiamo questa domanda e quindi se avete qualche cosa da dire, fate presente ora perché dopo la Regione può deliberare”. A questo punto la domanda va firmata dal legale rappresentante dell’itinerario, che nel nostro caso è il nostro presidente, il dottor Vezzalini (?), che purtroppo si scusa ma doveva essere qua al mio posto a farvi questa introduzione di là in cucina, ma putroppo un malanno all’ultimo l’ha bloccato a letto e quindi non è potuto partire. La documentazione da allegare è il progetto di base, chiaramente, il regolamento interno dell’itinerario, l’indicazione dei prodotti, perché almeno ci deve essere un prodotto da presentare, un prodotto tipico, e un atto di impegno della realizzazione dell’itinerario da parte dei soggetti aderenti all’atto costitutivo. Dopo di che, la Regione ha centoventi giorni per approvarlo, e poi lo approva e, com’è capitato a noi, possiamo cominciare a dire che siamo diventati un itinerario, eccoci qua. Questo è il nostro itinerario turistico, vedete, è il numero uno dell’Emilia Romagna, abbiamo a oggi duecentocinquanta chilometri di itinerario, quindi noi siamo partiti da un progetto …., come vi dicevo, trenta dicembre ’98 i sindaci si incontrano e firmano l’accordo di programma, per dopo dare vita al nostro statuto, il ventinove marzo 1999.

 

Intervento: Progetto Life (?), cosa significa?

 

Contri: Progetto Life (?) era il nome di un progetto europeo per il quale l’Europa diceva: “E’ inutile continuare a fare delle politiche territoriali a livello turistico da soli. Il progetto Life (?) deriva proprio ………mettetevi assieme e cominciate a lavorare assieme. Questo deriva da allora, infatti noi siamo figli di quel progetto. Come oggi abbiamo tanti contributi che arrivano dall’Europa in fase di formazione, allora i contributi arrivavano in questi progetti che sembravano utopistici allora, perché mettere insieme tante teste si faceva veramente fatica, però ce l’hanno fatta. Questi sono gli otto Comuni della parte bolognese, rigorosamente rosso perché Bologna ha il rossoblu e quindi era giusto dargli i colori della loro città, Bazzano, Castello di Serravalle, Crespellano, Monte San Pietro, Monteveglio, Savigno, Vergato, Zola Predosa. E formavano la Provincia di Bologna.

 

Intervento: …….(incomprensibile)

 

Contri: Siamo sui colli, guardando la nostra cartina, guardando Bologna siamo a nord di Bologna, ma per assurdo siamo al sud, perché siamo sull’Appennino tosco-emiliano. Questa è la cartina solo dell’itinerario, quindi magari si capisce poco. Siamo praticamente ai confini della Toscana, così ci capiamo. Siamo proprio sul crinale tosco-emiliano. Poi abbiamo la Provincia di Modena: sono i Comuni che confinano, sempre nell’Appennino tosco-emiliano, quindi Vignola, Castelnuovo, Castelvetro, Guiglia, Marano, Savignano sul Panaro, Spilamberto e Zocca. Di bello aveva, questo progetto life (?), che oltre a mettere insieme le testine politiche, sono riusciti a dirgli: “Però fate entrare dentro i soci privati, quindi le aziende agricole, i ristoranti, gli alberghi, …E noi siamo partiti con cento soci. Poi, come ogni progetto, ha un inizio molto forte, poi c’è una flessione. Noi purtroppo per due anni non siamo stati tanto bravi, e quindi avevamo perso quasi tutti i soci. Siamo andati – non ho paura a dirlo – a rischio di essere cancellati come itinerario enogastronomico, poi, nel 2002, i nostri soci costituenti l’associazione si sono trovati e hanno detto: “Bene, cosa abbiamo intenzione di fare? O chiudiamo, o ci diamo un’impronta professionistica. Quindi diventiamo azienda a tutti gli effetti”. Quindi hanno assunto al figura del Direttore, cioè del sottoscritto, abbiamo preso un’impiegata, e siamo partiti il primo gennaio 2003. Avevamo quaranta soci. Oggi ho la smania di dirvi e l’orgoglio di dirvi che abbiamo centotrenta soci e quattro ragazze più me, come struttura operativa. Quindi questo ci ha dato un pochino lustro, non a caso oggi i Comuni ci usano anche per agenzia di servizi. Mi spiego meglio: noi abbiamo i nostri politici che sono bravissime persone però magari si lasciano sfuggire delle opportunità alle volte molto importanti, come quella di andare a cercare i fondi europei, seguendo i progetti, eccetera. Quindi noi fungiamo proprio da questo servizio, cioè noi per loro andiamo a presentare domande per farsi finanziare dall’Europa o dalla Regione o dal nostro Stato italiano, in base a dei progetti. Quindi è vero che loro ci finanziano perché ci danno 0,75 euro ad abitante, però noi, oltre a gestirgli il turismo di tutto il loro comprensorio, gli facciamo anche questo importante servizio che per loro diventa fondamentale perché sennò non portano a casa i soldini. E quindi questa è proprio un’innovazione di quest’ultimo (?). Quindi siamo nati e naturalmente è nato anche il nostro logo. Un itinerario turistico deve avere un logo, deve avere tante cose, ecco allora che il nostro logo…Il nostro logo all’inizio era quello blu, poi siamo diventati più bravi e allora abbiamo detto: “Cambiamo il logo”. Io credo che ci sia ancora da lavorare su questo logo, perché se voi lo vedete da lontano, sfido la signora là in fondo a leggere cosa c’è scritto dentro. Però pian pianino impareremo anche noi che tante volte dentro un logo non bisogna fare poesia ma basterebbe un’immagine molto forte. Questo è marketing, e pian pianino cercheremo di farlo capire. Ecco, questo è il paniere dei nostri prodotti. Noi è vero che abbiamo rallentato in quei due anni, però avevamo una forza: credo che rispetto alle altre tredici strade, dodici strade dell’Emilia Romagna, noi abbiamo una forza, che sono i tanti prodotti che le nostre terre fanno, proprio la terra di Modena e Bologna. Quindi, i tortellini e le paste fresche – i tortellini non so se voi li conoscete, ma stasera non ve li abbiamo portati perché portare qua i tortellini era un’impresa. Però vi aspettiamo in Italia magari a mangiarli  tutti assieme. Anzi, vi dirò di più, queste sono le parole del mio presidente, non sono le mie, però sono io che ve le dico: il mio presidente è disponibile ad ospitarvi due giorni sul nostro territorio, vi organizziamo noi il giro sul nostro territorio, siete nostri ospiti per due giorni. Questo è un invito che io lancio, lo accetteremmo molto volentieri una vostra….Perché solo voi, che siete di un’altra terra, riuscite e portare i sapori e gli odori della nostra terra qua, in una terra che è tanto vicina, ma purtroppo…Tra l’altro noi abbiamo la fortuna che molti tedeschi vengono a visitare la nostra costa romagnola; qualcuno adesso comincia a venire anche sull’Appennino, come vi dicevo grazie a Schumacher e alla Ferrari, chissà che voi non siate i nostri ambasciatori in Patria. Quindi, i vini dei colli bolognesi, il Grattarossa (?) di Castelvetro, il Parmigiano Reggiano, l’aceto balsamico tradizionale, i salumi tipici: Prosciutto, zampone e mortadella (Mortadella Due Torri, che è quella di Bologna, la più conosciuta). Il tartufo bianco, i funghi e i frutti del sottobosco; sembrerebbe che il tartufo l’abbia solo Alba, in Piemonte, invece l’abbiamo anche noi. Il nocino, gli infusi, la frutta tipica: le ciliege,che tra l’altro dopo avrete la possibilità di assaggiare, sia sotto spirito che in cima a una crostata di frutta. Adesso non vi anticipo più niente, perché sennò…I pani tipici, la crescentina, il borlengo e lo gnocco. Sicuramente assaggiate la crescentina, dopo, la torta Barozzi…

 

Intervento: Che cos’è il borlengo?

 

Contri: Il borlengo è…vi ricordate i nostri nonni? Una volta, quando non avevano soldi, per fare la colla prendevano acqua e farina. E poi le amalgamavano e incollavano i libri. Ecco, abbiamo fatto la stessa ricetta aggiungendo solo un po’ di sale, molto liquida, c’è una padella di questa dimensione, viene messo il vino..

 

Intervento: …amalgamare, così c’è la pastella (?)

 

Contri: Sì, esatto, però ce ne viene messo proprio un filo, un filo che copre solo lo strato in fondo alla padella; viene cotto due minuti e poi viene condito con il lardo. Il lardo dei maiali, e condito con aglio e rosmarino. E naturalmente il Parmigiano Reggiano. Noi col Parmigiano siamo come i napoletani con il pomodoro.

 

Intervento: …..Io sono di Reggio Emilia, tagliata fuori completamente. Chiedo a voi se ci sono degli itinerari analoghi anche da noi. E poi il Parmigiano avete anche un pezzo anche voi di zona?

 

Contri: Tutta Modena. Diciamo dal Panaro..il Parmigiano Reggiano termina con Vignola. Fino a Vignola c’è la produzione del Parmigiano Reggiano. Quindi voi a Reggio Emilia, che siete il cuore del Parmigiano Reggiano, .. da Parma (?) avete due itinerari anche voi. Comunque dopo ve lo faccio vedere.

 

Intervento: Cos’è la torta Barozzi?

 

Contri: La torta Barozzi è una torta, pensate, che è stata registrata. Barozzi era il signore di Vignola, addirittura c’è il palazzo Barozzi, c’è il castello, eccetera, e quindi gli hanno fatto una torta, i cui ingredienti ce li ha una sola pasticceria a Vignola. Quindi è una cosa veramente… Comunque adesso la asseggerete. E’ segreta. L’unica cosa per me segreta è il sapore, che dopo vi facciamo assaggiare. E poi la castagna e il marone. E chiaramente il miele, perché anche da noi il miele riveste la sua importanza. Ecco la nostra struttura operativa della strada dei vini e dei sapori: noi abbiamo un’assemblea dei soci, un consiglio di amministrazione di ventun persone, un ufficio di presidenza composto da sette persone con il presidente e i suoi coadiuvanti. Il ……(?) non è altro che la figura che era il presidente uscente, che rimane in carica a dare una mano al presidente. Poi ci sono io, e poi c’è la struttra tecnica delle mie collaboratrici. Per farci conoscere, chiaramente abbiamo la necessità anche dei…Il nostro itinerario l’avrete visto…Il nostro itinerario, vedete, è questo, quello che trovate sulla cartina…(Oggi vi faccio veramente lavorare tutti). Vedete tutti i nostri Comuni, noi abbiamo pensato di fare una carta geografica, anziché dare risalto ai paesi abbiamo dato risalto ai prodotti tipici, che sono poi il nostro principale riconoscimento. Abbiamo fatto – vi faccio vedere così rispondiamo anche alla signora – queste sono le altre strade dell’Emilia Romagna. Quindi abbiamo la strada dei Vini e dei Sapori dei colli piacentini, a Piacenza; a Parma ne abbiamo tre: il culatello di Zibello, il prosciutto e i vini dei colli di Parma, e il fungo porcino di Borgotaro. A Reggio Emilia ne abbiamo due. Qua ne vedete una sola perché è appena stata approvata, insieme a un’altra di Modena, che è la strada dei Vini e dei Sapori di Scandiano e Canossa (questa è a nord), e poi ce n’è una (rispetto alla catena sempre a sud), qua siamo verso l’Appennino, poi c’è anche quella della bassa. Quindi ne hanno due. Poi abbiamo la nostra, e anche a Modena se n’è formata un’altra nella bassa. Poi abbiamo i colli di Imola, la strada di Ferrara, che raggruppa tutta la provincia di Ferrara. Faenza e la strada del Sangiovese, e Forlì e Cesena. Poi abbiamo Rimini, che vedete, loro sono forti nel mare ma che ci lasciano l’enogastronomia (?) e quindi stanno ancora facendo il marchio ma presto arriveranno anche loro. Quindi in totale tredici strade. Naturalmente, per farci riconoscere sulle strade, voi trovate questa cartellonistica. Questa è la cartellonistica che trovate sulle nostre strade. Quindi, strade dei Vini e dei Sapori, le varie tipologie di cartellonistica, e questi sono due cartelli che i nostri tecnici comunali hanno messo in due posti molto visibili dietro a due piante, così erano sicuri che prendessero l’ombra. Pensate i nostri turisti quando arrivano…E l’ho fotografato perché quando vado a spiegare queste cose ai Comuni voglio che i sindaci ci sentano: “Attenzione che chi vi parla è anche amministratore”, quindi mi permetto di prenderli anche un po’ in giro perché lo sono in qualche modo anch’io. Quindi questa è la cartellonistica che voi trovate sul nostro territorio. Mentre, per le singole aziende, la Regione Emilia Romagna vuole che sia fatta in un certo modo, quindi questo è il cartello che troverete davanti all’azienda, che tra l’altro stiamo montando proprio in questi giorni. C’è il simbolo della Regione là in alto a sinistra, il simbolo della nostra strada, il logo dell’azienda, le varie tipologie: fattoria, acetaia, vendita di prodotto tipico, poi c’è lo spazio di un altro, che adesso vediamo insieme al socio cosa mettere. Telefono e fax, il sito, vendita diretta dei prodotti tipici, gli orari e le visite guidate, come si fa (?). Di modo che qualsiasi persona riesce ad individuare, tramite questi simboli che sono europei, quello che fa quell’azienda. Mentre davanti ai Comuni, e con questo chiudo così vi faccio vedere – non l’ho portato perché è Castelvetro ma perché è il prototipo del segnale – mettiamo questo; proprio all’ingresso dei paesi – questo è Castelvetro, qua sotto c’è la piazza che vi dicevo – e quindi questo viene messo davanti ai Comuni. Io vi ho spiegato in mezz’oretta tutto quello che è l’enogastronomia delle nostre parti, ma chiaramente la nostra associazione vuole dare grosso risalto poi a tutta l’architettura che c’è dalle nostre parti, e quindi il nostro compito è quello di promuovere il territorio nel suo insieme. Noi dobbiamo essere bravi in questo, ci stiamo provando, non è detto che ce la facciamo, lo scopo principale veramente è quello di far conoscere al mondo chesta fuori un territorio che non è il territorio toscano – la Toscana è sicuramente molto bella – però anche noi qualche collina importante e bella da vedere ce l’abbiamo. Forse noi siamo stati meno bravi di loro a farci conoscere al mondo. Quindi pian pianino arriveremo, ma io dico sempre: “Non ho mai paura del vicino se è capace di insegnarmi bene”. L’erba del vicino dicono che è la più verde, ma se tu vuoi imparare dal vicino che ha l’erba verde, può darsi che anche la tua, dal giallo, cominci a prendere le sembianze del giallino (?). Io avrei concluso con questa panoramica, però vorrei sentire anche voi per dopo farvi sentire, aldilà delle chiacchiere, qualcosa di più concreto. Giuro che non mi avevano mai fatto degli applausi per una presentazione, mi emoziono anche, eh! Io vi ho poi portato anche la cartina che mi ha dato la Regione Emilia Romagna e qui potete trovare tutto quello che è Emilia Romagna. Questi ve li lascio, potete distribuirli.

 

Massimo Maracci: Intanto, se avete delle questioni, delle domande, delle curiosità…

 

Intervento: Visto che siete così bravi, dal punto di vista ecologico come si fa?

 

Contri: Bravissima. Mi aspettavo questa domanda e non a caso l’ho tralasciata, perché il prodotto biologico è molto sentito soprattutto da voi bravi stranieri. Perché davvero, in Italia purtroppo si fa ancora poco per l’ecologia, per i rifiuti, per tutte queste cose. Però noi al nostro interno abbiamo l’Aiab, che è l’Associazione Italiana Biologici, che ha sede – quella regionale – proprio a Vignola, ed è un nostro socio. Quindi insieme a loro stiamo studiando tutte le formule per arrivare a insegnare ai nostri agriturismi, alle nostre aziende, a cominciare anche loro a fare, se non altro, della lotta integrata per poi arrivare a fare un prodotto biologico in tutto e per tutto. Chiaramente questo cosa comporta? Comporta sacrifici da parte delle aziende, comporta il fatto che noi abbiamo degli agricoltori che fino a ieri avevano magari qualche mucca nella stalla, avevano magari un po’ di orto a casa, avevano magari due piante di ciliegi, e fino a poco tempo fa il loro significato più grosso era: dobbiamo fare della quantità. Quindi finalizzavano tutto alla quantità, andavano da chi vendeva gli anti crittogamici e dicevano: “L’importante è che io riesca a portare a termine il raccolto”, perché poi l’importante è fare dei quintali. Quindi stiamo cambiando questa mentalità nella gente. Vi faccio solo un esempio banale: voi pensate che il Lambrusco Grasparossa lo vendevano a tremila e cinquecento lire la bottiglia, un euro e mezzo, due euro al massimo. Questo, sette anni fa. Oggi il Lambrusco Grasparossa, quello medio, viene venduto a quattro euro e mezzo. Questo perché? Perché qualcuno ha cominciato a capire che a fare la qualità si prende più che a fare la quantità. Io scopro completamente le mie carte: oltre a essere direttore della strada, sono anche responsabile dell’Emilia Romagna per l’associazione nazionale “Città del Vino”, oltre ad essere nella giunta esecutiva italiana. L’Associazione nazionale Città del Vino raggruppa cinquecentocinquanta Comuni italiani, tutti i Comuni praticamente che hanno un Ad Hoc (?), cioè producono vino. Quindi ho la fortuna di conoscere anche il Sud Italia. Il Sud Italia, a livello di vino, non era assolutamente conosciuto. O meglio: da noi al nord, che credevamo di essere furbi, andavamo al sud, prendevamo il loro prodotto con le cisterne, lo portavamo al nord e facevamo del vino rosso: il vino rosso da dare ai commercianti all’ingrosso. Oggi il sud ha capito che facendo della qualità riesce ad emergere. Quindi Campania, quindi Sicilia, oggi producono dei vini che sono quotati in tutto il mondo. Ecco perché vi dico che stiamo molto attenti anche noi, stiamo cercando di fare di tutto per invogliare i nostri soci a fare della qualità, soprattutto finalizzata al biologico. Non a caso, noi abbiamo alcuni Comuni, tra cui il mio, Castelvetro – ecco perché ci credo in questa cosa – che ho voluto assolutamente farlo certificare da un punto di vista ambientale, quindi Castelvetro è certificato Iso 14.000, quindi ha la certificazione ambientale. Quindi stiamo lavorando anche un po’ sulla raccolta differenziata dalle nostre parti: con i nostri politici stiamo veramente facendo delle tavole rotonde dove, ahimè, noi eravamo un sito destinato ad ospitare una discarica, quindi vi potete immaginare quanto soffrissi io, che sono assessore al turismo e alle attività produttive e mi occupo di turismo professionalmente, quando ho sentito dire che una discarica veniva sul mio territorio. Però mi sono anche fatto carico di dire: “bene, se non ce l’ho io (?) non posso dire no da me e sì dal vicino, perché non ho risolto il problema”. Quindi dico: “Entriamo, discutiamo, guardiamo cosa si può fare”. Quindi è partito tutto il discorso della raccolta differenziata, che molti Comuni oggi si stanno anche vantando di avere; io credo che bisogna invece partire adesso, perché va bene mettere i cassonetti, mettere le campane del vetro, mettere le isole ecologiche ma bisogna educare la gente, perché se noi pensiamo quanto carta o quanto nylon – perché mi viene in mente, a tutti ci fanno ridere i francesi quando li vediamo girare con la baguette con un fogliettino di carta così sotto il braccio. Bene, loro girano così, è vero che igienicamente uno potrebbe dire “beh, insomma…”. Noi in Italia ci mettiamo – non so da voi in Germania – il sacchetto, lo mettiamo dentro un altro sacchetto perché dopo si rompe, e poi lo mettiamo dentro la borsa di plastica: andiamo a casa con tre sacchetti. Io ho fatto un conto, e sono intervenuto proprio sul giornalino del mio Comune, che se ognuno di noi – nel mio paese siamo 10.200 abitanti – la bustina del te, anziché buttarla nel bidone della spazzatura, la teneva da una parte, risparmiavamo due ……(?) di rifiuti all’anno. Ed era una bustina di te. Ho portato questo esempio per far capire, con poco, quanto si potrebbe fare. Quindi, noi avevamo intitolato quell’articolo “Il poco di molti”; cioè vuol dire che se ognuno di noi fa il suo pezzettino, forse arriviamo ad ottenere tanto. Non so se le ho risposto, ma ho cercato di mettere assieme anche delle nozioni un pochino politiche perché, essendo un mezzo politico, essendo un mezzo turistico, mi dicono sempre che mi svincolo ma poi il potenziale (?) dei politici è di svincolarsi un po’. Altre domande?

 

Intervento: Che partito è al governo a livello (?) regionale?

 

Contri: Allora, (sa perché faccio così? Perché dopo mi devo scoprire ancora di più, perché dopo bisogna che vi dica anch’io da che parte sto). Allora, partiamo da Castelvetro: noi abbiamo l’Ulivo, centrosinistra, quindi Ds, Rifondazione Comunista, i socialisti, quindi il centrosinistra. Andiamo in Emilia Romagna, abbiamo il centrosinistra; Bologna, capoluogo di Provincia, l’ala destra (?). Il governo è di destra, oggi, è la prima volta, sono i primi anni, diciamo così, che il nostro governo è governato dalla destra.Per la verità c’era stata una piccola esperienza anche prima, ma poi adesso sono tre o quattro anni. Silvio Berlusconi io credo di non presentarvelo ma lo conoscete, è il nostro Presidente del Consiglio. (……). Mi scappava la battuta, mi ero rovinato. Io credo perlomeno perché il nostro vino è rosso (?), quindi lui ha detto che perché è rosso non lo beve (?). No, questo è verissimo, infatti (mi sono permesso di fare la battuta perché siamo…)… è verissimo quello che dice il professore: lui viene a prendere il vino sui colli bolognesi, quindi beve del Pignoletto, non a caso sui giornali hanno anche un pochino scherzato perché è l’antagonista di Prodi, e dicono: “Beh, a Prodi piace la mortadella, viene dove c’è il Pignoletto, chissà che non si riescano a mettere d’accordo”. Dico questo per finire con una battuta; però per farvi capire che la Regione non è dello stesso partito del nostro governo, anche se il tredici giugno voteremo per le europee, immagino votiate anche voi, quindi lo sapete bene, in più votiamo anche per molte amministrazioni, sia provinciali che regionali. Regionali no, provinciali e comunali. Infatti anch’io – che adesso mi scopro, io sono uomo di centro sinistra – anche se per me, e qua veramente, ci credo in quello che dico, per me nei piccoli Comuni, diecimila abitanti, il partito sì, è un qualche cosa che conta, perché anch’io sono orgoglioso di far parte di un partito, ho le mie idee politiche, però in un paese io credo che bisogna ancora guardare un pochino alle persone, no? Io avevo diciannove anni, quando ho cominciato a fare l’amministratore, oggi son passati quattrodici anni e lo faccio ancora, e questo mi fa piacere, però per farvi capire che nei paesini ci sono ancora molte liste civiche, si guarda ancora alla persona, anche se invece a Modena, nelle Provincie e nelle Regioni, lì invece contanto soprattutto i partiti.

 

Intervento: Voi vi siete famosi (?) anche per l’asilo di Reggio. Ci racconta qualcosa? Perché io sono insegnante di scuola materna e ho sempre lavorato così (?), e quando ho scoperto, attraverso un corso di aggiornamento, degli asili di Reggio, sono partita in quarta, sono arrivata lì, volevo insegnare, invece ……Vorrei sapere come va, avete allargato o…?

 

Contri: Guardi io purtroppo ne posso parlare poco perché non lo conosco da vicino, però sicuramente è una di quelle realtà di cui tutti noi ci vantiamo, benché non sia …….direttamente. Mia sorella, che è maestra di asilo, auspicherebbe anche lei… E’ un po’ difficile andarci, insomma, anche per noi. Però non voglio dare giudizi e non voglio dilungarmi di più perché purtroppo non conosco la realtà direttamente e io ci tengo che quando non conosco una realtà, insomma, faccio fatica a esprimermi meglio, diciamo.

 

Intervento: Forse ne sai più lei.

 

Contri: Sicuramente lei.

 

Intervento: Si tratta di anni fa, perché dopo ho perso i contatti. So che a Berlino ce ne sono diversi, a …. ce n’è uno, cioè, in Germania è molto conosciuta questa pedagogia.

 

Contri: Sì?

 

Intervento: Sì, molto.

 

Contri: Reggio Emilia sta lavorando molto anche in termini turistici sui bambini. Mi spiego meglio, cerco di farvo il collegamento turistico per farvo capire quanto Reggio Emilia – e farà piacere alla signora che è reggiana – quanto Reggio Emilia sia importante al bambino in sè e per sè (?) quindi non a caso anche all’asilo. Reggio Emilia ha costruito dei parchi che si chiamano Fattorie didattiche o comunque robe simili dove insegnano a conoscere la natura al bambino giocando. Che uno dice “Questi non hanno scoperto certamente l’acqua calda, no?”. Però sono riusciti a costruire dei percorsi che solo loro hanno, e da tutta Italia stanno andando a visitare questi ambienti, perché hanno messo i bambini a loro agio; e magari se venite in Italia possiamo, visto che conosco la responsabile, andare a vedere.

(interventi incomprensibili)

Quando dice il professore “Li porti direttamente tu”, è vero: i nostri gruppi, che muoviamo noi come Strada dei Vini e dei Sapori, hanno sempre una persona delle nostre a seguito, perché noi crediamo che non vendiamo il mare che gli diciamo (dicendogli): “Questo è l’hotel, lì c’è la spiaggia, lì c’è la piscina, là in fondo c’è l’acqua, quindi ognuno sa quello che deve andare a fare”. Noi vendiamo qualcosa che bisogna spiegare, e soprattutto dobbiamo spiegarglielo con il sentimento. Ecco perché i miei ragazzi e le mie ragazze – io ho assunto solo delle donne, perché scusate ma c’è una deformazione professionale, ed è giusto mantenerla, no? – per intenderci, arriva il gruppo, all’uscita dell’autostrada c’è una ragazza che li aspetta, li accompagna per tutto il viaggio e poi li lascia solamente quando vanno a casa. Quindi, ecco perché ho preso una donna: una donna si fa sempre voler bene, invece gli uomini ogni tanto diventano borse…Quindi ecco perché li accompagnano.

Davvero, non era una battuta la mia, a me piacerebbe veramente, dopo questa esperienza fatta qui, avere l’opportunità di avervi con noi in Italia – tra l’altro noi gestiamo anche un piccolo ostello – così vi possiamo far vedere un pochino la realtà. La costruiamo bene perché poi, chiaramente, in cambio vi chiediamo solo di essere ambasciatori della nostra zona. Altre domande? Quindi vi ho detto il mio partito politico, vi ho detto come la penso….la mia età…la mia età ve l’ho detta: trentatre anni (interventi incomprensibili…). Grazie ancora. Abbiamo un pochino concentrato un po’ di batute simpatiche (?).

 

Intervento: Le altre Regioni sono allo stesso livello?

 

Contri: Allora, per quanto riguarda la Toscana è molto forte, il Piemonte è molto forte, il Trentino è altrettanto forte perché in Trentino…Generalmente il turismo viene gestito dall’istituzione pubblica più le Proloco. Le Proloco sono un ufficio turistico all’interno del quale c’è l’amministrazione pubblica in privato (?). Noi cosa abbiamo fatto? (che anche qua siamo stati un prototipo per …tutt’al più che io sono stato chiamato a relazionare di questo anche in Regione). Noi a Castelvetro – proprio perché abbiamo qualche idea che andava fuori dal seminato – abbiamo cercato di costituire non una Proloco ma un ufficio turistico particolare: abbiamo costruito un consorzio. Il problema delle Proloco dove poteva nascere? Nel momento in cui cambiava l’amministrazione e non cambiavano gli uomini ma cambiavano le ideologie, c’era combutta tra il presidente della Proloco e l’amministrazione pubblica, e quindi non si riusciva più ad andare d’accordo e a fare delle…Noi cosa abbiamo fatto? Noi abbiamo fatto un consorzio, invece, che raggruppa, mette insieme, dall’industriale al volontario del paese, di modo che, lascia che cambi l’amministrazione pubblica, ma comunque il paese è tutto dentro questo consorzio e lui stesso decide le politiche turistiche del mio paese. Per dirvi che il Trentino va molto bene, è autonoma, Regione con dei soldi, perché poi sul turismo lo dicevo prima, lo Stato – ma questo non è un problema di destra o di sinistra – lo Stato in generale non ha previsto un assessorato al turismo, qundi i soldi al turismo vengono dati solo dalle grandi strutture: per il mare, solo per i grandi progetti. E quindi ognuno si sta cercando di attrezzare all’interno della Regione come può. Le Regioni sicuramente più svantaggiate sono ancora il Sud. Io il mese scorso sono stato chiamato in Sicilia, a Catania, a fare proprio un intervento sull’enogastronomia, ho fatto un intervento come questo, perché stava partendo una Strada dei Vini e dei Sapori, e quindi ho spiegato loro una medaglia che deve essere vista sia da una parte che dall’altra. Io non a caso vi ho detto che i nostri errori sono stati quelli di credere che una struttura come la nostra potesse fare del turismo senza dei professionisti all’interno. Uso la parola professionisti che magari è troppo grossa per una figura come la mia, ma ci devono essere delle persone che lavorano a tempo pieno sul progetto, non possono essere dei semplici volontari o a mezzo tempo. E quindi io ho cercato di dargli alcuni consigli perché anche loro volevano partire con il progetto, poi a lungo andare vedevano come andava. Io credo che sia sbagliato. Il turismo, oggi più che ieri, è un treno che passa. Noi stiamo facendo l’alta velocità in Italia, è un treno che va molto veloce: o sali alla fermata, sennò durante il viaggio è difficile che si fermi. Altre domande?

 

Intervento: Dopo che ci ha descritto i prodotti regionali (…) quanto tempo ci vuole far soffrire, ancora?

 

Contri: Sto aspettando la ragazza, perché come vi dicevo prima, la mia paura più grossa, lo dicevo con la dottoressa salendo le scale, era: “Mah, chissà se quella presa funziona”. Dice la dottoressa: “Eh, ma c’è tanta roba da mangiare”; però se non mi funziona la presa voi non mangiate niente, perché le tigelle non le faccio, le crescentine…Quindi è per quello che cerco di rallentare, perché ho paura di andare di là e che magari non funzioni la macchina. No, molto volentieri, quando volete voi andiamo di là che magari ve le illustro più da vicino. Io vi ricordo che la suora ha salito le scale e dice – con l’italiano che poteva, poveretta, mi ha spiegato che era arrivata nella sala sentendo i profumi. Chissà che anche voi magari…Perché questo è quasi un labirinto, chissà che con i profumi non riusciamo ad arrivare là.

 

Maracci: Scusate, c’è una proposta: se volete passare prima in camera e vederci tra un quarto d’ora…

 

(conversazioni sovrapposte)

 

 

(Giovedì 22, ore 21: Carmine Abate)

(……) Ed ora abbiamo l’onore e il piacere di avere con noi uno scrittore molto famoso sia in Italia che in Germania, il professor Carmine Abate. È uno dei più importanti scrittori italiani dell’ultimo decennio, è nato a Carpitti (?), un paese arberesh (?), cioè appunto italo-albanese, della Calabria. E quindi è veramente adattissimo a svolgere con noi questo tema della multiculturalità. Dirò soltanto due parole perché poi ascolteremo da lui i temi della sua letteratura e della sua vita. Ha esordito come narratore nel 1984 in Germania con una raccolta di racconti dal titolo ………… (?), ha pubblicato tra l’altro una ricerca socio-antropologica ….(?) e tra gli ultimi suoi libri c’è “Tra due mari”, che da il titolo anche alla conferenza di questa sera, e per ultimo “La festa del ritorno”, che tra l’altro è uscito negli Oscar Mondatori quattro settimane fa ed è già alla sua prima ristampa, quindi sta avendo veramente un successo strepitoso. Ha vinto sette premi letterari tra cui il Premio Strega, il Premio ….. (?) Europa e il …..(?). Do la parola direttamente allo scrittore.

Carmine Abate, Scrivere tra due mari. Verso la letteratura multiculturale.

Grazie, e buonasera. Io alcuni di voi già li conosco, li conosco bene. Prima di parlare vorrei ringraziare per l’invito l’Istituto Italiano di Cultura, il direttore, la dottoressa Bianco (?). Grazie per questo invito, che ho accettato volentieri, perché io torno sempre volentieri in Germania, poi vi dirò perché. Spero di fare un discorso che abbia un filo logico, perché dopo il vino che bevuto…V,i giuro, non è una frase così, effettivamente ho un po’ di giramenti di testa, ma comunque cercherò, visto che sono i miei temi, di seguire un filo logico. Prima di tutto non ho trovato le carte che mi servivano, da buon italiano sono confuso, però parlerò a braccio, come si dice in Italia. Allora, come avete sentito, io sono sì italiano, ma un italiano particolare, perché la mia madrelingua non è l’italiano, ma è l’arbresh (?), l’albanese antico. Come mai parlo questa lingua? Forse qualcuno di voi, studiando anche geografia, lo saprà. Io sono nato in un piccolo paese della Calabria fondato (pensate) cinque secoli fa, quindi alla fine del Quattrocento, dai profughi albanesi che scappavano dalla dominazione ottomana. L’Albania, così come tutti i Balcani, ad un certo punto erano stati invasi da quello che era ritenuto l’esercito più potente dell’epoca, l’esercito ottomano; e allora i più abbienti degli albanesi di allora, quelli che avevano la possibilità, si organizzavano e facevano quello che fanno i profughi oggi: dove vanno gli albanesi quando vanno via, quando scappano: nel posto più vicino, in Italia. Del resto tra Italia e Albania c’è (qualcuno l’ha definito) un muro d’acqua, un piccolo muro d’acqua, per cui si arriva facilmente. Allora, alla fine del Quattrocento questi profughi lasciano l’Albania e vengono in Italia, e in Italia, soprattutto nel Sud Italia, fondano tantissimi paesi. Addirittura all’inizio erano (cinquanta) cento i paesi fondati da questi profughi. Ed erano dislocati in tutte e sette le Regioni meridionali, a partire dall’Abruzzo, il Molise, la Puglia (in Puglia c’è un paese che si chiama Sammarzano), in Basilicata ci sono tanti paesi, in Campania ce n’è solo uno ma c’è, si chiama Greci, e poi la maggior parte di questi paesi si trovano ancora oggi in Calabria. In Sicilia c’è il paese arbresh (?) più famoso, forse qualcuno ne ha sentito parlare, Piana degli Albanesi, considerata la capitale degli arbresh (?). (DOM: come si scrive? RISP: arberesh…………con la e con la dieresi, vedete?) Vi dico solo, vi aggiungo che prima gli albanesi si chiamavano arberesh (?) e l’Albania di oggi non si chiamava come la chiamano oggi ……, ma si chiamava Arbria (?). Il nome ….., che vuol dire Albania, è molto più recente. La cosa interessante è che a distanza di cinque secoli in cinquanta paesi italiani a tutti gli effetti (sentito come parlo io, no? Parlo come un italiano) si parla l’albanese antico. Cinquanta hanno perso la lingua, per vari motivi, e cinquanta, che sono i paesi che vivono a gruppi di due o tre, per esempio vicino al mio paese ce ne sono altri due arbresh (?), in provincia di Cosenza ci sono ventisette paesi arbresh (?), e allora è più facile mantenere la lingua. Paesi invece che si trovano vicino alle grandi città sono stati (diciamo) travolti dalla grande città, hanno perso la lingua. Perché vi racconto questo? A parte il fatto che è interessante, è vera, ed è una cosa che si conosce poco, ma per uno scrittore la lingua è tutto; voi avete di fronte uno scrittore, nonché insegnante (perché io insegno, sono vostro collega). Perché è importante, dicevo? Perché uno scrittore è la lingua in cui scrive. E allora io fino a sei anni non sapevo una parola di italiano, non parlavo italiano. E il motivo è molto semplice: io sono nato in un periodo in cui la televisione era appena nata. Sono nato nel lontano 1954, cinquanta anni fa. Cinquanta anni fa è nata la televisione italiana, non c’erano tanti televisori – al mio paese ce n’era solo uno – quindi quando io sono andato a scuola, a sei anni, avevo sentito parlare solo il napoletano. Mi dovete credere. Perché avete sentito prima il direttore come cantava bene, no? Noi amiamo cantare, io sentivo mio padre, quando si faceva la barba la mattina, che cantava in napoletano. Poi venivano i teatristi – i teatristi in estate erano dei gruppi teatrali che però facevano anche musica, giochi acrobatici, organizzavano degli spettacoli – stavano una settimana, a volte, in paese, quando ero bambino. Erano tutti napoletani. Io sentivo parlare solo napoletano, allora a sei anni, quando sono andato a scuola, sapevo di dover imparare una lingua nuova, una lingua che noi chiamiamo (……….) vuol dire latino, forestiero, non la nostra lingua, una lingua diversa. Lo sapevo, però ero convinto che questa lingua fosse il napoletano. E invece, e questo lo racconto anche in maniera divertente, nella festa del ritorno, il primo giorno di scuola è stato un trauma per me, perché la prima cosa che ha detto la maestra, per esempio, è stata: “Ragazzi state zitti, facciamo l’appello”. “L’appello”!. Già “ragazzi” forse l’avevo sentito, “guaglioni”, ma l’appello era la parola… Però le maestre di allora erano molto in gamba. Le maestre di allora (pensate) avevano già pensato alla figura del tutor (…), cioè prendevano una bambina di quinta e la affiancavano al bambino di prima. La bambina di quinta, ed è quello che  racconto in questo libro, mi spiegava, mi diceva “La maestra ha detto questo: ‘prendi la matita’. La maestra ha detto: ‘prova a scrivere quello scrive lei alla lavagna’”: traduceva. E così piano piano ho imparato l’italiano, così bene che io insegno italiano…Io sono un’insegnante di italiano. Certo la mia madrelingua – e noi dimentichiamo cosa vuol dire madrelingua (in tedesco muttersprache (?), è una parola composta anche in italiano e a volte dimentichiamo che madrelingua vuol dire la lingua di tua madre, la lingua della mamma, la lingua con cui tua mamma da bambino ti parla, ti dice delle frasi affettuose che poi non senti più in quella maniera, i canta le ninnananne in quella maniera. La madrelingua è la lingua della mamma. E la mia madrelingua, la lingua di mia madre….è l’arbresh… (Dicevo: la madrelingua è stato l’arbresh). Noi abbiamo un bel modo di dire per definire la nostra lingua, la nostra lingua è …………………………………………..che vuol dire “la lingua del cuore”. Quindi a casa si parla la lingua del cuore. Non vi sembri retorico perché non lo è, soprattutto quando si parla di una lingua di minoranza. E poi a scuola abbiamo imparato ………………..la lingua del pane, che è l’italiano. Infatti l’italiano mi ha dato il pane, ultimamente anche il companatico. E ….è anche il tedesco, il tedesco per esempio lo è stato per mio padre. Mio padre è stato in Germania trentacinque anni (poi ne parleremo). Allora, a casa e con gli amici, nel vicolo, nei vicinati, parlavamo ……e poi a scuola abbiamo imparato la lingua del pane. Tenete presente che l’arbresh non veniva insegnato nelle scuole. C’è un articolo bellissimo della Costituzione italiana, l’articolo sei, che dice che “l’Italia tutela con apposite norme le minoranze etnico-linguistiche”. In realtà l’Italia tutela solo il tedesco dell’Alto Adige e poche altre lingue di minoranza. La nostra non l’ha mai tutelata, tant’è che siamo tutti analfabeti nella nostra madrelingua. Adesso le cose stanno cambiando, in questi ultimi anni il governo precedente, quello di centro- sinistra, ha fatto una legge di tutela delle minoranze – finalmente, dopo cinquanta anni che lo chiedevamo – e adesso le cose cambieranno, forse l’arbresh verrà insegnato nelle scuole. Però io purtroppo non ho potuto imparare l’arbresh. (domanda incomprensibile) Intanto a sedici anni ho sentito l’esigenza di raccogliere gli antichi canti albanesi; mia nonna me li cantava o me li recitava, si chiamano rapsodie. Sono delle storie bellissime. Sono delle canzoni struggenti perché dentro c’è la nostalgia per la patria lontana, però nello stesso tempo sono delle storie, brevi ma succose, brevi ma belle. E io ero affascinato da queste rapsodie, allora provavo, già da allora, a raccogliere queste rapsodie e le trascrivevo in arbresh. Però non ci riuscivo perché l’alfabeto italiano – voi lo sapete – è fatto di ventuno lettere, poi ci sono la x, la y, eccetera, che non sono italiane. (…) Sono ventuno ufficialmente; quelle albanesi, dell’Albania di oggi e dell’arbresh, i suoni, che vengono trasformati in grafia, sono trentasei. Allora provate voi a scrivere …….(è molto simile al greco). …. Addirittura sembra arabo… e …È difficile, quindi io non riuscivo scrivere queste parole, e mettevo tra parentesi la traduzione italiana. Arriviamo al dunque, al motivo per cui il direttore mi ha invitato qua. Allora, quando io ho sentito l’esigenza di scrivere, e ho cominciato a scrivere, non potevo scrivere in arbresh, nella mia madrelingua, perché nessuno me l’aveva insegnata. E allora mi sono sentito, mi dovete credere (poi dirò il motivo per cui ho cominciato a scrivere, però quando ho cominciato a scrivere mi sono sentito) un transfuga linguistico. Transfuga è una bella parola difficile, tosta, che vuol dire un disertore, uno che passa nel campo dell’avversario, tra virgolette, del nemico in qualche modo. Nel mio caso non c’entra niente la guerra, c’entra che io non ho scritto nella lingua di mia madre, come dicevo prima, ma nella lingua che avevo imparato dopo, nell’italiano. E allora voglio dire subito (perché non è che mi voglia lamentare di questo) che io mi sento a tutti gli effetti uno scrittore di lingua italiana perché scrivo in italiano e sono contento di questo fatto, anzi vi dirò subito una cosa: lo scrivere in italiano, per uno che non è di madrelingua italiana, così come lo scrivere in tedesco per uno che non è di madrelingua tedesca (lo scrivere come fanno tanti scrittori stranieri in Italia, che cominciano a scrivere in italiano, c’è questa nuova letteratura di cui mi piacerebbe parlare, letteratura di stranieri: marocchini, albanesi, che vivono in Italia e scrivono in italiano) può avere un vantaggio. Nel mio caso è molto evidente il vantaggio: è una certa distanza dalla materia trattata. Come se per me la lingua fosse una lingua-distanza, un filtro, e voi tedeschi mi capite benissimo, proprio come il filtro del caffè tedesco, che lascia passare il buono, il caffè caldo, e invece su resta la posa (non so come si chiama). È così, questa è la funzione per me della lingua italiana. Io scrivo volentieri in italiano, perché scrivendo su questi temi – io scrivo principalmente di emigrazione, del contatto e dello scontro tra le culture, scrivo queste storie che sono obbiettivamente storie affascinanti, queste storie degli arbresh di cinque secoli fa – allora, scrivere nella tua lingua alla fine forse ti costringe quasi ad essere retorico. Scrivere in una lingua che tu pensi in un’altra, stai pensando in un’altra e un secondo dopo trascrivi in una lingua che non è tua al cento per cento, vuol dire filtrare un’esperienza e lasciare sulla carta delle esperienze non retoriche, non sdolcinate, quella nostalgia non lamentosa o lamentevole. Quindi io considero la scrittura in italiano un vantaggio per me, per me lo è di sicuro. Però voglio aggiungere un’altra cosa. Questa mia situazione linguistica (…), che non è semplicissima, diciamo, si è andata di più complicando e arricchendo nel momento in cui, a sedici anni, io ho cominciato a bazzicare, a venire in Germania. Ero studente, ovviamente – mio padre era emigrato in Germania; quando io avevo quattro anni, è andato prima in Francia e poi, l’anno successivo, in Germania perché non voleva morire in miniera sotto terra come un topinaro, diceva lui, come un topo, è andato a vivere in Germania, dove ….

Intervento: sa che oggi hanno chiuso l’ultima miniera francese, l’ho sentito alla radio?

Abate: Io nella festa del ritorno parlo dell’esperienza di mio padre in Francia, questo è un libro che è la storia di un rapporto padre-figlio, però un rapporto non conflittuale, un rapporto di stima, in cui recupero questa parte…

Intervento: Ha scritto un libro sulle esperienze che ha fatto ad Amburgo?

Abate: sì

Intervento: Quale?

Abate: La maggior parte. Lì non c’è, però. Si chiama “Il muro dei muri”. Io ho ambientato la maggior parte dei miei scritti ad Amburgo, dove ho vissuto a lungo. “Il muro dei muri” è uscito in tedesco col titolo, che non c’entra niente, “….”. Pensate ad un altro titolo: qualcuno di voi ha comprato “La moto di…”?. In tedesco è uscito da ….ed è stato tradotto – non ci crederete – “…..”. Esotico al massimo, uno pensa “ah, lì c’è l’Italia,…il caldo…”. È anche così, però non c’entrava niente con il titolo originale. Dicevo: a sedici anni arrivo in Germania e comincio a frequentare Amburgo. Però non frequento i tedeschi e la cultura tedesca, per ovvi motivi, perché la mia era una famiglia di ….allora io frequento il mondo dei germanesi. Questo è un bel termine.

Intervento: Anni Sessanta.

Abate: No, negli anni Sessanta avevo sei anni. La prima volta sono arrivato nel settantuno, me lo ricordo come oggi. Nel settantuno ancora c’erano tantissimi emigrati italiani e io quindi non avevo a che fare con la cultura tedesca. Veramente confondevo… Per esempio, la cucina tedesca: in quel periodo conoscevo il würstel e le patatine fritte, perché mi muovevo in questo mondo dei permanesi: un termine bellissimo, permettetemi, perché è stato coniato dagli stessi emigrati italiani e vuol dire che non si sentono tedeschi, altrimenti si chiamerebbero tedeschi, ma non si sentono nemmeno calabresi o meridionali, dopo venti-trenta anni di Germania. Si chiamano germanesi e stava a significare proprio questa figura ibrida che sono loro, come la lingua che parlano. La lingua che parlano è una lingua fatta sulla base dell’italiano, con tanti termini italiani tedeschizzati, parole tedesche italianizzate, poi non vi dico gli arbresh che miscuglio fanno, insomma una lingua bellissima. (E io il primo libro perché lei mi chiedeva: l’hai scritto in tedesco?). Io ho esordito in Germania, nell’ottantaquattro, e c’è questa voce che circola che io abbia scritto in tedesco. In realtà no, non sarei stato capace. Io ho scritto in germanese questi racconti, cioè con la lingua degli emigrati, poi è stato tradotto. Ovviamente ha perso molto nella traduzione, in tutte le traduzioni si perde moltissimo, però io l’ho scritto in questa lingua, il primo libro.

Intervento: E come si chiama questo libro?

Abate: …, ma non esiste più. (…)…È stato il mio primo libro di racconti.

Intervento incomprensibile

Abate: In Germania è uscito dalla ….che adesso è stata acquistata dalla…invece quando ho pubblicato io era indipendente, ed è questa vecchia e gloriosa casa editrice di sinistra, che negli anni Venti in Germania ha pubblicato grandissimi autori, e poi era stata ripresa negli anni Ottanta e nell’ottantaquattro – a ventinove anni io ho fatto questo libro di racconti….Adesso veniamo al punto: perché io ho cominciato a scrivere? Questo è centrale. E perché ho cominciato a scrivere proprio in Germania? Ho cominciato scrivere – ormai questa per me è una frase fatta, la ripeto mille volte però la sento molto – per denunciare la costrizione ad emigrare. Mi sembrava ingiusto, avevo una grande rabbia dentro di me, ingiusto che ci fossero delle persone costrette ad abbandonare la propria terra per andare altrove, perché nella propria terra non c‘era lavoro. E naturalmente io parlavo di situazioni che vivevo io, che avevo vissuto io sulla mia pelle, perché da quando avevo quattro anni mio padre lo vedevo una volta all’anno, per un mese all’anno. E quindi era una situazione difficile per un bambino. Io vivevo in un posto molto bello, immerso in una natura rigogliosa, non ero un bambino infelice, infatti in questo libro parlo della mia vita come bambino in un paese della Calabria, però dentro c’era questo dolore, c’era lo strazio dell’addio, perché mio padre all’improvviso arrivava e poi all’improvviso partiva e nemmeno mi salutava perché non voleva che io lo trattenessi, piangessi, eccetera. Allora io sono cresciuto un po’ con questa rabbia dentro, quindi ho concepito la scrittura, diciamolo pure, quasi come un atto politico, come un modo per incidere sulla realtà. E quindi scrivevo di temi sociali, dell’emigrazione, degli scontri tra le culture (sempre però rispettando tutte le culture, perché vanno rispettate tutte le culture), delle esperienze che vivevo io e delle esperienze che vivevano i germanesi. In qualche modo forse ho anche cercato di dare voce ai germanesi, che voce non avevano, a tutti questi germanesi.  E siccome vivevo ad Amburgo – allora, nei primi anni, ho vissuto sempre ad Amburgo – scrivevo solo di Amburgo, perché io scrivo solo dei posti che conosco; non concepisco quegli scrittori anche italiani che ti fanno il romanzo ambientato in America, sul serial killer americano, poi vedono la cartina di New York per copiare le vie, non lo so a che cosa serve questo. Allora, questa è stata la motivazione iniziale, e siccome avevo pubblicato dei racconti in riviste, in antologie, questo piccolo editore, …, se n’è accorto e mi ha chiesto di farne un libro. Naturalmente mi ha chiesto: “Lei ha altri racconti, ovviamente, nel cassetto, così facciamo il libro”. Era marzo, il libro doveva uscire a maggio, io ho detto di sì, ho fatto il contratto e poi ho scritto i racconti. E così è nato il mio primo libro di racconti. Però poi questi racconti in Italia non li voleva nessuno, perché in Italia, dovete sapere, si cerca disperatamente di rimuovere il tema dell’emigrazione. Gli italiani sono stati un popolo di emigranti, voi lo sapete che ci sono più italiani all’estero che italiani in Italia, soprattutto di origine italiana. Sono emigrati in meno di cent’anni venticinque milioni di italiani. Nel corso del Novecento, un milione di calabresi. Pensate che in Calabria vivono due milioni… Per non parlare del mio paese: millecinquecento abitanti, sono emigrati duemila. Non ci credete. Alcuni poi sono tornati, però nel corso degli ultimi vent’anni. A Pasqua sono andato giù al mio paese e ho avuto una notizia che mi ha sconvolto. Negli ultimi dieci anni al mio paese c’è stata una perdita del 32% della popolazione, infatti attualmente il mio paese è di ottocento anime. Quando ero bambino io erano millecinquecento. Quindi ha perso più del 50% della popolazione. Però anche a livello culturale l’Italia cerca di rimuovere questo fatto, soprattutto da quando gli immigrati stranieri sono arrivati in Italia. Come a dire: ma noi eravamo anche così, non può essere che noi eravamo anche così, come sono gli albanesi, come sono i marocchini. E in Italia a creato scandalo un libro recente, “L’Orda. Quando gli albanesi eravamo noi”, che dimostra che gli italiani hanno fatto le stesse cose che stanno facendo oggi gli immigrati. Mentre, voi lo sapete meglio di me, se davvero un popolo prende coscienza della sua storia, poi riesce a vivere e in qualche modo anche a risolvere i problemi dell’oggi: a vivere per esempio il problema dell’immigrazione in maniera diversa, non con tutte queste paure, con tutti questi timori, anche con tutto questo razzismo, a volte. Quindi bisognerebbe conoscere la propria storia, conoscere la propria memoria. E siccome nella nostra memoria c’è questo grande tema dell’immigrazione, del resto a livello sociologico, storico, si sa benissimo: l’emigrazione è stato definito il fenomeno sociale più importante del nostro popolo, proprio per la massa di gente che ha coinvolto. E purtroppo si cerca di rimuovere questa cosa. Io ho cominciato a scrivere proprio perché non vedevo, per esempio, dei libri di narrativa italiani che parlassero di questo. (io ve li posso contare veramente…) Sono pochissimi gli autori italiani che hanno affrontato il tema dell’emigrazione. Anche i grandi autori impegnati, Sciascia per esempio: Sciascia ha dedicato un paio di racconti all’emigrazione, uno però memorabile, uno bellissimo che è nella raccolta ………….(se aspettate ve lo dico). “Il lungo viaggio”. È del 1958, un racconto che parla di un gruppo di immigrati, che se uno lo legge oggi, e non dice che l’ha scritto Sciascia, sembrano immigranti di oggi. È una storia bellissima, perché parla di questi immigrati che partono dalla Sicilia e naturalmente pagano, come fanno gli albanesi, pagano una grossa somma agli scafisti dell’epoca, e fanno un lungo giro, un lungo viaggio – giorno e notte, giorno e notte, mare, solo mare – a un certo punto vengono sbarcati, perdono la cognizione del tempo, vengono sbarcati in un posto, sono tutti contenti di essere finalmente lontani dalla Sicilia, il viaggio è andato bene; e vedono in lontananza un uomo che torna dalla campagna con un asinello, poi vedono una piccola macchina, una Cinquecento (…). “Turuzzo, ma in America ci sono pure le macchine piccole!”, insomma a un certo punto scoprono che sono stati sbarcati in Sicilia, nemmeno tanto lontani dalla loro terra. E questa è una bellissima metafora, metafora del fallimento dell’emigrazione, che è un cerchio che si chiude in maniera spesso drammatica. E quindi è un racconto molto bello, che andrebbe letto nelle scuole, io lo sto proponendo da tempo.

Ecco, ho cominciato a scrivere, il primo libro in Italia l’ho pubblicato nel ’91. (Dicevo che) in Italia non volevano sentir parlare di racconti di emigrazione, (proprio) dicevano “è un tema che non vende, non piace, non c’entra niente con noi, non lo vogliamo”. Il primo libro mio che è uscito in Italia è “Il ballo tondo”, che è una storia ambientata in un piccolo paese della Calabria, in cui un bambino riscopre, soprattutto attraverso le testimonianze e i racconti del nonno, la storia mitica del suo popolo. Poi è la storia di una famiglia col padre che vive in Germania, insomma ci sono anche degli elementi autobiografici. Quel libro è andato poi molto bene, è stato anche tradotto in Germania, sempre dalla ….e allora ho cominciato a scrivere romanzi (a continuare a scrivere romanzi), sia sulla questione arbresh, sia sul tema dell’emigrazione. E con il tempo, ovviamente, non ho parlato soltanto più dei problemi di integrazione degli emigranti, dei problemi del razzismo, della difficoltà di apprendere una lingua nuova, insomma dei soliti problemi dell’emigrante: ho cominciato a vedere gli aspetti positivi dell’emigrazione. (Qui io) vi dico veramente una cosa a cui non crederete. È successo all’improvviso, una mattina ho sentito un clic (…) nella mia testa: ho trasformato tutto quello che era negativo dell’emigrazione, la palla al piede dell’emigrazione, che è qualcosa che ti frena, che ti fa piangere sulla tua situazione, che non ti fa crescere il più delle volte, l’ho trasformato in un qualcosa di positivo. Ho sentito questo clic che mi diceva: “Ma insomma Carmine, ma non è vero che tu sei sradicato come ti dicono gli altri e come piano piano ti stai convincendo”. Perché si dice che un emigrante è sradicato, è vero?. “Tu, Carmine, hai più radici, il contrario. Alle tue radici – arbresh, profonde, vive, (perché io non credo a quelli che dicono che hanno tagliato le radici, non hanno più radici, perché una persona senza radici, come un albero senza radici, non può vivere) – alle tue radici arbresh ne hai nuove, guardati. Guardati attorno e vedi che hai nuove radici. Magari sono radici volanti, non sono radici ben affondate nel terreno, ma sempre radici sono. Avete visto quanti alberi ci sono che hanno le radici non nella terra? Se andate a Reggio Calabria ci sono questi alberi enormi con le radici fuori: bellissimo, una bellissima metafora dell’uomo moderno, dell’uomo nuovo. Allora mi sono detto: non è vero che tu hai dimenticato la tua vita, come si dice; anzi! (a parte il fatto che vivendo fuori si ha più passione per la propria vita, no? Nello stesso tempo impari altre vite. Io ho imparato – male – il tedesco, con il tempo). E soprattutto non è vero che non hai nessun contatto culturale con la gente del posto: guardati attorno e vedi che tu vivi in questa cultura ma vivi anche nella tua cultura: tu vivi, come il titolo della conferenza, tra due mondi e in più mondi. E quindi bisogna trasformare quelle che possono essere considerate delle situazioni negative, delle esperienze che quasi ti frenano, trasformarle nell’aspetto positivo, vedere l’altra faccia della medaglia. Questa è un’esperienza che ha due facce. Non voglio (negare) dire che mio padre, io stesso, abbiamo avuto dei percorsi solo facili: abbiamo avuto alle spalle un percorso addirittura direi doloroso, per certi versi e in certi momenti. Però alla fine di questo percorso – e questo mi piacerebbe che lo capissero i vostri ragazzi di origine italiana, o stranieri, che avete voi come insegnanti – che dopo aver pagato davvero un pedaggio incredibile come noi o quelli prima di noi, che loro vivessero questa esperienza come un’esperienza di ricchezza. Ricchezza intendo dire soprattutto culturale. Quindi alle fine anche i miei stessi libri, le mie stesse storie, si sono trasformati. Per esempio, faccio un piccolo esempio. “Tra due mari” (…) Per esempio, “Tra due mari”, già nel titolo, tra due mondi vuol dire, tra la Germania e la Calabria, è la storia di un ragazzino tedesco, figlio di un tedesco (proprio …………………………era il vecchio cognome che avevo messo nella prima versione, però mi sembrava troppo duro, allora ho messo … perché mi interessava hans .. due acca, come Amburgo…),  e di una giovane del mio paese, della Calabria. Però questo libro non è ambientato in un paese arbresh, è ambientato in Calabria, in un paese inventato della Calabria. Questo ragazzo all’inizio va in Calabria malvolentieri, odia l’afa, il caldo, non vede l’ora di andare al mare, però i genitori lo costringono ogni estate ad andare in Calabria. Piano piano scopre delle storie: scopre per esempio che il nonno, che si chiama Giorgio Bellusci (?), è un sognatore, una persona che si è messa in testa di ricostruire un’antica locanda che era appartenuta alla sua famiglia, che si chiamava “Il fondaco del …”. Una locanda realmente esistita in Calabria, dove – e io ho trovato delle testimonianze, delle tracce letterarie – dove per esempio nell’Ottocento si era fermato a mangiare Alexandre Dumas, tra gli altri, ma anche stol……, amburghese. Cioè tanti grandi viaggiatori dell’Ottocento che poi, tornai nelle loro terre, scrivevano i reportages e poi parlavano del fondaco del …… Allora il ragazzo scopre che questo nonno è un sognatore; guardate che oggi ai ragazzi mancano i grandi sogni, le utopie, secondo me in Italia come in Germania. Però quando vedono che c’è qualcuno che le ha, e che sono utopie buone, soprattutto se è un familiare che ha queste utopie, allora cominciano anche loro a lavorare, ad aiutare per la realizzazione di queste utopie, almeno così me lo immagino io nel libro. Questo ragazzino che era praticamente un tedesco aiuta il nonno calabrese a ricostruire, partendo da un muro annerito, solo da un pezzo di muro annerito, il Fondaco del….Naturalmente ci troviamo in Calabria, non ad Amburgo, e quindi se uno si mette in testa, in certe zone della Calabria, di fare un investimento enorme, di ricostruire un albergo, probabilmente qualcuno passerà a chiedergli il pizzo. E così succede nel libro, però non vi voglio raccontare la storia, quello che conta è questo….(adesso io questo non lo volevo dire, però a me sembra che il Nord e il Sud si attraggano, il Nord Europa e il Sud Europa; è come se il Sud cercasse nel Nord quello che non ha e viceversa, il Nord cercasse nel Sud…). In questo libro c’è una grande amicizia tra un tedesco, fotografo, e questo nonno del ragazzino, che si sono conosciuti quando erano giovani. E io mentre scrivevo non mi rendevo conto: come mai è nata quest’amicizia? Perché uno scrittore a volte non si rende conto delle storie che sta scrivendo. Poi mi sono detto: sarà così, che davvero questi due vecchi rappresentano il Nord e il Sud e si attraggono, in qualche modo. Questo personaggio di questo giovane che scopre il Sud, e addirittura decide di vivere nel Sud, è un personaggio nuovo, un uomo nuovo, un ragazzo nuovo, che vivendo in più culture – lui è proprio il simbolo, perché è figlio di una coppia mista – dice a un certo punto: “io non voglio essere solo tedesco o solo italiano perché influenzato da mia madre”….. (interruzione nella cassetta). Che è come l’Italia, apparentemente, però è sempre una sola identità, composta, fatta di tanti pezzi di identità. Però questo secondo me è il discorso: cambiare tutto quello che ci è stato fatto vedere come negativo, in qualcosa di positivo, trasformare tutto questo. ( e adesso per…ho parlato anche troppo…).

Intervento: Possiamo anche sentire qualcosa del libro.

Abate: questa domanda mi era parso di sentirla…

Intervento: Posso fare una domanda?

Abate: Sì, facciamo qualche domanda. Poi la prossima volta che verrò vi parlerò della letteratura multiculturale, perché oggi non ce la facciamo. Allora, sentiamo la domanda.

Intervento: Il suo albanese, arberesh, è uguale a quello di oggi in Albania, cioè lei capisce gli albanesi che oggi vengono?

Abate: Io sì perché poi ho fatto due esami all’Università di albanese, in realtà l’arbresh è come, per esempio, l’italiano di Dante, e quindi se noi ci mettiamo a parlare come parlava Dante, oggi i bambini capiscono ma non tutto. Mentre poi le parole nuove, del mondo moderno, le nostre sono tutte italiane o italianizzate, quelle dell’Albania, invece – perché anche l’albanese ha subito delle influenze – hanno subito un’influenza turca. Io sono andato negli anni Ottanta in Albania e sentivo: “….”. Sapete cosa vuol dire? È turco, tutti i tedeschi lo sanno. Non avete a che fare coi turchi?  “…”, piano piano. E lo dicevano in Albania, vuol dire che l’Albania è stata cinque secoli sotto la dominazione ottomana, quindi l’influenza è stata enorme, più grande rispetto a quella che abbiamo avuto noi dalla cultura italiana. Poi un altro dato linguistico: questa è una lingua che non ha gli articoli, è come il latino. Ha le desinenze. Allora ha una struttura particolare. Se avesse avuto gli articoli probabilmente oggi, a distanza di cinque secoli, non parleremmo più l’arbresh. Però avendo le desinenze, tutte le parole nuove che inseriamo – non so, la parola macchina, …..diciamo – è italiano, però usiamo la desinenza. Per esempio, complemento oggetto: “Hai preso la macchina”: “…”. In è l’accusativo. E quindi non è più italiano, la macchina, è …., pur essendo al cento per cento di derivazione italiana.

Intervento: Possiamo leggerne un po’?

Abate: Devo leggere?

Intervento: Sì, grazie.

Abate: Da quale libro?

Intervento: ….Quello che ha in mano (?).

Abate: Allora, leggo solo l’inizio di “Tra due mari”. (Un po’ di concentrazione). Allora, a pagina nove per chi ha il libro. “Che ne sapevo di lui? Un giorno di luglio fu arrestato e sparì dalla mia vita per anni, senza che nessuno si degnasse di raccontarmi la sua storia. Ero un bambino. Quel poco che sapevo erano bugie, col tempo le dimenticai. A volte, però, se la nostalgia mi prendeva a tradimento durante il sonno, inseguivo l’eco di una voce lontana, e all’improvviso precipitavo nel vuoto della notte, fino a quando planavo sudato al suo (?) paese. Nella piazza, nei bar, sentivo levarsi il nome e cognome di lui come una folata di vento. Giorgio Bellusci! Ritrovavo il suo sguardo sgherroso (?), il calore delle sue mani enormi, e soprattutto il mio affetto per lui, perché un uomo come Giorgio Bellusci puoi dimenticarlo quanto vuoi, ma alla fine ti (?) rinasce prepotente più di prima. Ben arrivato, ….., mi diceva dandomi un bacio sulla fronte. E di nuovo spariva. Oltre il fondaco del …, in direzione del mare, non si vedono altro che colline argillose, boschi di lecci, e burroni imbottiti di rovi. Tutt’intorno, montagnole grinzose e secche, simili a sterco di vacca depositato qua e là. La strada che sale al paese di mia madre, pareva massacrata da un bombardamento aereo: buche profonde, disseminate a zig-zag lungo una serpentina zeppa di crepe. La nostra Volvo Station Wagon arrancava in salita, ….. Mio padre guidava ansioso, e sbuffava, forse soffriva più di me, però non diceva niente. Avevo resistito da Amburgo fino all’uscita dell’autostrada, per 2581 chilometri di noia e sofferenza, come un’ape in un bicchiere capovolto, a inseguire carovane di macchine sempre più veloci della nostra, e poi l’interminabile fila di oleandri in fiore. Ma quel tratto finale era il più vomitevole (nel senso che a volte mi faceva vomitare). Stavo arrivando per le vacanze lunghe e già volevo tornare indietro. Il paese è appoggiato come un ferro di cavallo su una collina tra due mari, lo Ionio e il Tirreno, ha un bel nome, Roccalba, ma io lo chiamavo con disprezzo Roccalda, per via della cappa afosa che lo schiaccia tutta l’estate senza pietà. Mia madre annunciava ogni due minuti: “Klaus, …..”. E ci indicava un cardo ancora fiorito, o i fichi….le susine …., o le melagrane già spaccate dal caldo, con l’entusiasmo di chi sta entrando in paradiso. Mio padre guardava in avanti come un naufrago, con la speranza di avvistare al più presto il cartello arrugginito col nome Roccalba. Riprendeva a sorridere solo quando poggiava il primo piede in paese, e non la smetteva più, col suo sorriso artificiale, per tutta la vacanza. La mamma, lei sì, era felice davvero: rivedeva i genitori, la sorella, gli amici, i vicoli, le …. con i maialini, la cicale sugli ulivi, le …dietro la chiesa, i garofani screziati sui balconi, le rondini nel cielo grande. “Hai mai visto un cielo così grande, …?”, mi chiedeva, pur sapendo che non le avrei risposto. “La notte si vedono tutte le stelle del firmamento, giù giù fino al mare, all’infinito”. E finalmente rivedeva il fondaco del…L’accompagnava il padre, Giorgio Bellusci, nella tarda mattinata. Loro due, soli nella calura, in mezzo alla campagna, a parlare con gusto dopo un anno, davanti ai resti dell’antica locanda di famiglia, un tempo la più famosa della Calabria, si vantava lei. “Sì, può darsi, ma oggi è una sputazzata nell’occhio, un muro di pietre in parte abbrustolite, che fa brutta mostra di sé tra roveti e cespugli di fico selvatico”. Aveva provato a smontarla una sera zio Bruno, marito di zia Elsa, senza un briciolo di tatto. In un lampo la mamma era diventata furiosa, e lo aveva colpito con una mitragliata di “Ignorante, deficiente, tamarro, che ne sai tu della storia del nostro fondaco? Tu sai solo mangiare”. Stavamo finendo di cenare. Giorgio Bellusci invece non si era scomposto, anzi, aveva sorriso divertito, poi, con uno sputo carico di semi d’anguria aveva puntato l’occhio destro e lo aveva centrato in pieno. “Ecco che cos’è una sputazzata nell’occhio”, aveva sentenziato infine. Tutti c’eravamo messi a ridere, pure zia Elsa e la figlia Teresa, tutti tranne zio Bruno, che aveva fissato il suocero con un occhio torvo e l’altro imbrattato di saliva e semi d’anguria. Tutti avevamo capito che i resti del fondaco del …andavano rispettati, come quelli di un morto della famiglia, e che presto Giorgio Bellusci li avrebbe fatti rinascere.”.

Questo è solo l’introduzione. Questo libro non è stato tradotto ancora in Germania, sono stati tradotti tutti i precedenti, questo no. Avete qualche domanda? (perché c‘era il direttore che era preoccupato per il tempo).

Intervento: Il suo nome è italiano, vero?

Abate: Sì.

Intervento: È sempre stato italiano?

Abate: Sì. Ma io sono italiano.

Intervento: Sì, ma lei ha detto che è venuto in Italia all’età di cinque anni.

Abate: No, cinque secoli fa.

Intervento: Allora lei è nato in Italia.

Abate: Sì, io sono uno scrittore italiano, evidentemente, perché scrivo in italiano, però la mia madrelingua è questa lingua di minoranza, (ma cinquecento anni fa). ….

Intervento: C’è qualche ragione per la quale i suoi genitori hanno scelto un nome italiano…?

Abate: No, i nomi propri sono tutti italiani, del resto anche i nomi albanesi, non è che siano molto diversi da quelli italiani. Poi questo è successo proprio all’inizio. Molti cognomi sono albanesi, per esempio da noi c’è il cognome Basta, un italiano non si sognerebbe mai di chiamarsi Basta, no? Basta era proprio il luogotenente di …..,che era l’eroe nazionale degli albanesi. Molti cognomi quindi sono davvero arbresh, antichi, e poi sono stati un po’ italianizzati. (I nomi, invece, fin dall’inizio), quelli che si chiamavano per esempio….l’hanno chiamato Giorgio, il nome italiano. Questo succede anche oggi, un po’. I cognomi sono rimasti.

Intervento: E Bellusci è un cognome albanese?

Abate: questo libro non è ambientato…è ambientato in Calabria, è stato definito un inno al Sud Italia. Però ho voluto lasciare un cognome e un nome – Giorgio è  molto diffuso tra gli arbresh – arbresh. Questo perché mi suonava meglio che in un altro modo. Suona bene Giorgio Bellusci, è vero? Bellucci è anche arbresh. Vi dico una cosa che è uno scoop: John Belushi, l’attore, americano, era albanese dell’Albania. Addirittura (il padre era…), lui parlava, tornava in Albania prima di morire. E quindi Bellusci è questo cognome…

Massimo Maracci: Posso fare una domanda sul suo – o tuo – rapporto personale con le lingue? Mi interrogavo sulla ragione per cui lei – o tu…

Abate: Tu

Maracci: … ti definisca scrittore italiano, scriva in italiano – certo, evidentemente c’è una ragione culturale più forte – e non ci siano delle interferenze.

Abate: Sono pieno. Io di questo non ho voluto parlare perché sennò poi pensano che siano difficili i libri e non li leggono. A parte in questo libro…in questo libro ci sono solo interferenze col tedesco. È chiaro che tutto questo discorso linguistico sulle mie lingue l’ho fatto per dire che io scrivo in italiano e ci mescolo, nel mio italiano, parole arbresh, addirittura frasi in arbresh, parole tedesche, parole italiane tedeschizzate, nell’ultimo libro francesismi, molte parole mediterranee, meridionali; che poi sono sempre parole molto antiche e io direi nobili, sono parole di origine araba, di origine greca, di origine spagnola, eccetera. E quindi io faccio questo lavoro; tutto quello che ho detto è per dire che io ho scelto l’italiano come lingua in cui scrivo, ma è chiaro che questo italiano non può essere standard come lo è per uno scrittore che non ha avuto la mia esperienza. È chiaro che, anche se non volessi, tutti questi termini si impiglierebbero comunque nella pagina, perché hanno a che fare con me e con i miei personaggi. Facciamo così: vi leggo, dopo, un capitolo di questo piccolo libro in cui parla – perché poi a me piace usare più voci narranti: nei miei libri è raro trovare uno solo che parla, uno dei pochi è questo, ma già anche qua ci sono due voci narranti – qua invece parla il padre e parla il figlio. Il padre parla di meno, il figlio parla di più.

(Intervento incomprensibile)

Abate: Questa è una bella domanda. Allora, appartiene alle lingue indoeuropee ma è autonomo, di un ramo autonomo, come il greco. Non dello stesso ramo del greco, però; non è né neolatina, né slava, né anglosassone, è proprio autonoma. Ma indoeuropea.

Intervento: Io volevo chiederti questo: come queste due attività (cioè quella dell’insegnamento si rapporta allo scrivere o viceversa), quella dell’insegnamento e quella dello scrivere si rapportano l’una all’altra. Che rapporto c’è tra queste attività.

Abate: Cioè, come si rapportano le due attività di insegnante e scrittore? Io direi che l’attività di insegnante mi fa perdere molto tempo…Era una battuta, una battutaccia. Dunque, le due attività, a vederle così, magari non c’entrano nulla. Però io per esempio ultimamente potrei vivere – ultimamente vuol dire da due o tre anni – come scrittore. Ho approdato al più grande editore italiano, Mondatori, insomma potrei vivere, magari per due anni, poi dovrei di nuovo trovarmi un lavoro. E allora, perché non ho lasciato l’insegnamento? A dire la verità da quest’anno faccio part-time, faccio metà ore. Voi sapete che noi in Italia insegniamo per diciotto ore la settimana? Io faccio nove ore la settimana…Lavoro tre giorni, tre mattine. Venite a lavorare in Italia…Così guadagnate millecinquecento euro, vediamo se vi piace. Un insegnante in Italia guadagna millecinquecento euro. Non vi piace più…(Non sono riuscito a finire la tua domanda, ma poi ne parleremo perché è fondamentale). Dicevo: io non riuscirei a fare lo scrittore se non insegnassi, cioè se non avessi un contatto con la realtà. Questo lo dico senza ombra di retorica. Cioè io ho avuto la possibilità di staccare: c’erano tempi in cui, in Italia, si poteva andare in pensione con venticinque anni di servizio. Io trentacinque anni potevo andare in pensione e prendere quattro soldi, però potevo andare. E non l‘ho fatto perché se tu non vedi i bambini la mattina, se non ti arrabbi con loro, se non ridi con loro, se non ti fanno ridere…Io stamattina ho fatto tre ore e ho fatto il viaggio molto più tranquillo: ho fatto il mio dovere, ho parlato con loro, e poi sono venuto qua e parlo con voi. Cioè, uno scrittore di che cosa parla, se vive nella sua torre d’avorio, come diciamo noi, e scrive le sue storie? Le storie non è che stanno solo nella tua testa; nella tua testa molto spesso stanno storie astratte. Le storie concrete, reali, stanno nell’aria, e tu quest’aria la devi respirare, devi andare nei luoghi in cui c’è gente, dove ci sono i colleghi con cui vai d’accordo, con cui tu arrabbi. Quindi, la scuola rappresenta per me il contatto con la realtà, con la società, e quindi io non rinuncerei mai. Vabbé, quando dovrò andare in pensione a sessantacinque anni, sì. Ma prima, no. Adesso ho trovato questa formula del part-time che mi consente non di scrivere di più, ma almeno di fare più giri. Oggi per esempio, se non avessi avuto il part-time, non sarei potuto venire qua: è giovedì, e gli insegnanti in Italia hanno un giorno libero la settimana. Invece io sono libero venerdì e sabato, per cui riesco a fare tutti questi bei giri. Allora, c’era la signora, prego.

Intervento: Tra questi vari paesi in cui si parla arbresh, c’è un contatto, ci sono delle relazioni, quindi in qualche modo si può parlare di una comunità? Questa è la prima domanda. E poi volevo sapere se gli albanesi che sono venuti in Italia nelle recenti immigrazioni vi hanno cercato.

Abate: Belle queste domande, tutte e due bellissime. Tra i paesi arbresh, fino a dieci anni fa (diciamo così), non c’erano contatti. C’erano contatti solo con i paesi proprio vicinissimi. Per esempio, nel crotonese ci sono tre paesi – sono a cinque chilometri di distanza –  allora è chiaro che tra di loro c’è contatto. Quando io ero ragazzo, non ero mai stato a San…… – che si trova a settanta chilometri di distanza – dove ci sono arbresh, in provincia di Cosenza. Non ne sentivo nemmeno l’esigenza; eravamo piuttosto separati. Adesso invece, per tanti motivi (guarda, io ci metto anche questi libri, perché …io stesso giro nei paesi arbresh, ho un po’ anche questa funzione di collante) si riesce – ovviamente con le nuove leggi di tutela delle minoranze, i giornali, le case editrici, eccetera – si riesce a stabilire un contatto anche con gli altri.

Intervento: Ma quindi solo da una decina d’anni circa. Ma com’è possibile che sia rimasto in questi paesi disseminati (?) lo stesso l’arbresh?

Abate: Infatti ( tra i vari)…Al mio paese si parla un arbresh con un accento diverso da questo San Demetrio Corona (?) . Non è che gli albanesi sono venuti in Italia dalla stessa città: erano centomila, sono venuti da tanti paesi, e quindi c’erano quelli del nord, quelli del centro, soprattutto quelli del sud. Con accenti diversi. Quindi è come se ci fossero davvero quasi cinquanta arbresh, lingue arbresh. Certo che ci capiamo tra di noi, perché tutti e due parliamo l’albanese antico, e tutti e due abbiamo aggiunto al nostro albanese antico le parole di questa lingua comune che è l’italiano. E allora ci capiamo tranquillamente. Con gli albanesi dell’Albania, lo dicevo prima, è più difficile, perché loro si sono sviluppati in un contesto storico e culturale completamente diverso. Quindi io ultimamente vedo un grande risveglio: quella che era stata data come una lingua che sicuramente prima o poi sarebbe morta, io credo che stia in qualche modo rinascendo. Più che un recupero, ovviamente, delle antiche parole che sono andate perse per sempre, c’è però un mantenimento. Soprattutto c’è una maggiore consapevolezza, cioè la gente si sente più consapevole di essere arbresh. Prima invece quasi non lo dicevamo.

Intervento: L’altra domanda: quando arrivano in Italia, vi cercano gli albanesi?

Abate: Ecco, la prima cosa che hanno fatto gli albanesi – è un po’ il tema del nuovo romanzo che sto scrivendo – sono ovviamente venuti nei nostri paesi. E cosa hanno trovato in questi paesi nostri? Disoccupazione. E allora sono tutti scappati, e sono andati nelle città del nord. Però all’inizio veramente loro sentivano… Perché in Albania, viceversa, mentre noi non parlavamo mai degli albanesi (io non ricordo mai che ho parlato del fatto che “di là ci sono i fratelli albanesi”, figurati, proprio mai); in Albania, invece, è stato, soprattutto sotto la dittatura di …Oxa, tenuto vivo il mito dell’albanesità. E quindi si parlava di noi. Per esempio noi, gli arbresh, abbiamo il più grande scrittore militante (?) della letteratura albanese, vissuto alla fine dell’Ottocento: era Girolamo Terava (?), che è un arbresh, nato proprio a San Demetrio Corona, questo apese di cui parlavo prima. E in Albania lo studiano come noi studiamo Dante. Non sto dicendo una fesseria. Perché alla fine dell’Ottocento c’era una rinascita degli arbresh, un po’ come oggi. Poi per tutto il Novecento c’è stata proprio una decadenza. In quel periodo molti scrivevano l’arbresh, anche: inventavano l’alfabeto. Quindi ci hanno cercati, però è chiaro che se noi siamo posti di emigrazione cosa ci facevano loro? C’è solo qualcuno che è rimasto: qualche famiglia, poi in qualche altro paese dove ci sono delle attività agricole sono rimasti in tanti; in un paese dove sono stato ci sono settanta albanesi. Però è un paese di mille abitanti.

Intervento: …nel tuo prossimo libro racconterai un incontro tra un albanese che arriva e un arbresh..

Abate: Va bene, verrà fatto! Allora, questa domanda linguistica è fondamentale. Io perché prima mi sono definito uno scrittore italiano di madrelingua arbresh? Perché scrivo in italiano però la mia madrelingua è diversa. Se tu hai una madrelingua diversa, quando scrivi in una lingua diversa, il tuo immaginario, il tuo modo di descrivere, il tuo ritmo, è diverso da quello di uno scrittore che cresce invece in quella lingua. Sull’”Espresso” di fine marzo, proprio nell’anticipazione a questo libro, per farmi un complimento la giornalista ha detto: “questi libri sono così belli che sembrano tradotti”. Perché c’è tutta una polemica in Italia, pare che l’italiano sia così standard, così corretto, e invece quelli tradotti almeno hanno più coloriture…cioè, è un paradosso, questo. Però nella mia lingua entrano anche parole completamente diverse. Posso leggere da questo libro, così vi convinco a non comprarlo più perché dite che è troppo difficile?

È il padre che parla al figlio, un padre che sta parlando al figlio. Pag. 59. (Vi leggo due minuti in più dell’altra volta. Spero che non vi addormentiate). Sono tutti e due davanti al fuoco, a un grande fuoco che si accende la notte di Natale. E si parlano. E il padre racconta una storia con una donna; non con la madre del ragazzo, con un’altra donna.“Hai presente il rimbombo di una schioppettata intra lu…? È un rumore che sale da tutti i … e sembra non finire mai. Così è stato quando l’ho vista la prima volta, anzi più forte, il doppio, il triplo. Non sentivo più le voci, solo questo rintrono prolungato dal cuore che mi rallegrava i timpani come una musica. Lavorava a una fioreria, lei, Stava mettendo a posto un mazzo di rose dentro una …di vetro. Le passo un biglietto con l’indirizzo del bureau per l’immigrazione. Lei lo legge e mi fissa con uno sguardo azzurro, stravolgente. ……………….., mi chiede curiosa, invece di indicarmi subito la strada. “Arbresh”, rispondo senza pensarci, come a volerle offrire un’informazione intima di me, che di solito con i forestieri veniva a galla dopo molto tempo o forse mai. Per tutti ero semplicemente un etrangero, o un italiano, o un meridionale, o un calabrese. “Arbresh? Che razza è mai questa? Lo sai tu, Gina?”. Chiede lei in italiano a una femmina che stava dietro la cassa. Allora io mi sciolgo, contento. “Siete italiane! Anch’io! Però vengo da un paese della Calabria dove si parla l’arbresh, l’albanese anticario”. “Ah!”, fa lei. “Ho capito”, dice la compagna, di nome Gina. “Ho un’amica siciliana che parla questo dialetto vostro, viene da un villaggio di nome Piana degli Albanesi, lo conosci?”. “Sì, faccio io……, lì parlano come noi , e pure in tanti paesi sparsi in tutta la bass’Italia. Però non è un dialetto, è una lingua”. Intanto la ragazza mi spiega chiaro la strada per il bureau che cercavo, e io la ringrazio, gentile più che posso. Esco, ma vorrei restare lì tutta al vita. E mentre vado in avanti cerco di ricordarmi la strada del ritorno; quella non si deve mai scordare,… altrimenti ti perdi in un bosco fitto e spinoso, ti senti…, se non hai uno sbocco di fuga alle tue spalle. Dunque arrivo a destinazione…” (adesso salto)  “la prima cosa che faccio, appena mi sistemo un poco, è la strada del ritorno verso la fioreria. Entro, saluto la ragazza, lei finge di non riconoscermi, ma è un po’ arrossita. Sembra una rosa; bella, vellutata, in carne giusta. Sorride alla sua compagna di lavoro. Ha denti sanizzi, labbra che vorresti subito baciare. Le chiedo di prepararmi un mazzo di fiori. “Che fiori?”, mi domanda. “Scegli tu. Voglio dei fiori belli, questo voglio”. E lei mi prepara un mazzo di rose rosse. “Immagino che sono per una ragazza”, dice. “Con le rose si fa sempre bella figura”. Pago, prendo le rose e dico: “Sono per te, mademoiselle”. E lei le riprende in mano, sorpresa, mentre l’amica sorride e le parla in francese per non farmi capire. La chiama Morena. Un nome che suona strano alle mie orecchie, però mi piaceva, perché era il suo nome, e di lei mi piaceva tutto, fin dall’inizio. Infine esco di corsa, per paura di un rifiuto. Sono soddisfatto di me, del primo passo. Vengo assunto in una fabbrichetta che faceva blocchi di cemento e si trovava in un cittadina chiamata…., vicino a Parigi. In tutto eravamo diciotto italiani, tre maroccani (?) e un algeriano. Dormivamo in una bella palazzina, con tante camerette e una cucina grande. Lavoravamo a coppie, e ogni undici giorni ci toccava di corvé. Facevamo la spesa, cucinavamo per tutti, preparavamo pure il caffè. Il venerdì si presentava il conto ai compagni, e chi doveva pagare pagava, chi doveva ricevere riceveva. Sul mangiare l’accordo era perfetto, come in una famiglia, forse un pelo in più. Nel lavoro, invece, ognuno cercava di rendere più degli altri compagni. La mattina, li sentivo alzarsi in punta di piedi, vestirsi fuori dalla stanza per non svegliare, così quando arrivavi sul lavoro mezz’ora dopo, quelli avevano un avantaggio di venti, trenta blocchi in più, ed era difficile recuperarli durante il giorno, anche se t’ammazzavi. Questa era l’unica invidia tra di noi. Un’invidia ……., lo ammetto. Un misto di ………e fame arretrata, fame di soldi che a casa tua avevi visto col binocolo. Comunque io non ho mai diviso i fiammiferi in due, per sparagnare. Ero giovane, sanizzo e innamorato, mi sono divertito come potevo, dopo che ho capito che si campa una sola volta e bisogna farlo a testa alta. Il tempo libero lo passavo a scialarmi con Morena. Mi zizzavo bene, con il… nuovo e la cravatta. Non volevo sfigurare davanti a lei. Di sabato andavamo a ballare, e domenica in giro per Parigi, nei bistrot all’aperto, lungo la Senna, o sulla torre Eiffel. Per una volta, pensa, ci siamo tolti lo sfizio di mangiare al ristorante di lusso, ed è stato gustoso, non tanto il mangiare, quanto il paesaggio, il contorno, l’orizzonte che ti allargava l’anima. I fine settimana a dormire da lei, che abitava sola in un appartamento di due stanze. Morena era una ragazza seria e indipendente, nata ….., dalla parti di Udine, in un paese dove fanno il presutto (?) migliore del nostro. Viveva in Francia fin da…..con i genitori prima e poi da sola. Parlava bene il francese, e me lo insegnava, soprattutto la pronuncia delle parole, che se le vedi scritte assomigliano all’italiano, però dalla bocca ti escono con una melodia più …..Insomma, lei mi aiutava, mi dava sicurità; ci siamo sposati che già era incinta da tre mesi. A dirla tutta, me l’aspettavo che usciva incinta, e pure lei: stavamo sempre a letto. La ….non l’avevamo cercata, ma prima o poi doveva capitare. Eravamo incoscienti, spaventati a parole, felici nei fatti. Abbiamo cambiato casa ed è nata Elisa, bella come la madre, lo stesso sguardo azzurro, forse un po’ più cupo, un po’ più inquieto. Però la carnagione scura e la fossettina al mento erano le mie. Siamo stati felici, due anni interi, con Elisa che cresceva, …e sveglia, felice come noi (lei?). Al paese non ci tornavo più, non ne avevo bisogno, pensavo, sbagliando. Mi stavo sbarrando la strada da solo senza motivo: volevo vivere in Francia per sempre, mi piaceva la Francia. E pure quel lavoro dei blocchi di cemento, perché non dovevi pensare a niente. Cioè, potevi pensare ai fatti tuoi. Il lavoro lo sbrigavano le mani, e le braccia, che andavano da sole. Mi piaceva soprattutto Parigi. Ma la vita, …, ci aspetta tutti al varco. Per questo è bene avere altre scappatoie, altrimenti prima o poi rischi di girare attorno a te stesso come uno…, non sai più cosa stai cercando, e ti senti smarrito, ….In  quel momento ti arrivano sulla testa piccozze (?) che non ti aspetti e che ti spaccano in due. Allora sei sfottuto. Voglio dire, senza farla troppo lunga: Morena è morta, all’improvviso: meningite fulminante. Nell’arco di una settimana era tutto finito: seppellita lei, la nostra vita felice, per sempre. Di colpo ero con l’acqua al gargarozzo (?), solo in un Paese straniero con una bambina di due anni e mezzo che aveva bisogno di coccole, capiva appena un po’ di francese e cercava la mamma in tutte le stanze: mammà, mammà, mammà: ogni momento, uno strazio. È venuta mia  madre a salvarmi. Lei, la tua futura nonna, una ….anziana, che non si era mai mossa da (..) arriva a Parigi e si prende cura della bambina mentre io lavoravo: le fa da madre, da padre, e da nonna, fino a quando mi dice: “…..”: “Ritorniamo al paese nostro. Sei giovane, …, devi rifarti una vita. Elisa è una ….di manco tre anni, ha bisogno di una famiglia vera”. E io le rispondo come un vecchio: “Chi mi vuole più? Sono vedovo, ho una figlia, e poi io penso sempre a Morena”. Avevo ventisei anni, parlavo in quel modo per scaramanzia. E mia madre mi dice quello che speravo di sentire: “…., tutti aspettano il tuo ritorno, chiedono di te: i tuoi amici, Francesca…”. “Francesca?”. “Sì, Francesca, non ti ha dimenticato, cosa credevi, io lo so, fidati”. In estate, parte mia madre con Elisa. Io resisto a Parigi fino alle .. .di novembre, poi ritorno a casa e trovo Elisa, che parla come noi, a malapena mi riconosce. È allegra, serena, non cerca più la mamma, ma vuole sempre andare in giro con la nonna. Nei giorni appresso, faccio giusto in tempo a seminare, preparo un po’ di legna per l’inverno, e visto che c’ero, porto una grossa radice di erica per il fuoco di natale. Infine metto una vita sopra alla mia vita in Francia, ma Parigi sgusciava fuori dalla pietra come un serpentello tentatore. Parigi non si lascia dimenticare facilmente, e nemmanco Morena, mai.”.

Questa è la voce del padre, il figlio parla un italiano più comprensibile, meno pieno di parole…qui ci sono queste parole che dicevi tu. Naturalmente, a me come scrittore, sinceramente, fare il lavoro che fa Camilleri, inserire tutti quei sicilianismi, quello non mi interessa. A me interessa che il lettore capisca tutto, e lo capisca soprattutto dal contesto. E quelle parole che inserisco lì non sono parole messe a caso. Sono parole evocative, cioè che mi evocano delle cose; è una prosa di conoscenza, non serve solo per il ritmo. Quindi potrei fare lo sperimentale e mettere in una pagina un quarto di arbresh, un quarto di tedesco, un quarto di italiano, però a me piace essere capito dal lettore senza rinunciare a questa particolarità. (Che facciamo adesso?). Non ho parlato per niente della …………, che è una storia d’amore tremenda (?). C’è una frase di uno scrittore irlandese che dice: “Tutte le storie sono storie d’amore”. Ed è vero, questo. Tutti i libri, se andate a vedere, gira gira, gratta, gratta, sono tutte storie d’amore. E ….c’entra la Germania, c’entra Colonia, e anche il mio lavoro da insegnante. Perché è la storia di un giovane che arriva in Germania, dove vive Claudia, che è una giornalista radiofonica, che è la tipica ragazza moderna che non vuole avere niente a che fare con il passato. (…) Però chiudo con questo. Si scontrano due mondi: lui, che vorrebbe recuperare il passato, ma non il passato in maniera, nostalgica, la parte buona del passato; e lei che, invece, vorrebbe fare tabula rasa del passato, cancellare tutto, per proiettare tutto verso il futuro. La domanda è: possiamo noi vivere il presente e il futuro senza la nostra memoria? Possiamo, certo che possiamo, ma forse viviamo in maniera più superficiale. Ecco perché mi interessa il recupero della memoria. C’è una frase bellissima di Elias Canetti, che dice: ”Lo scrittore è il custode della metamorfosi”. Non è il custode della memoria, badate bene, può sembrare un paradosso. È il custode della metamorfosi, che sta a significare: custode del nuovo, perché nella metamorfosi, nella trasformazione, c’è anche il vecchio. Ecco, e me la memoria mi interessa – per questo la recupero nei miei libri – per il presente: non mi frega niente del passato. Però mi interessa utilizzare quella memoria per vivere meglio al presente. Più che io, i miei personaggi: i miei personaggi fanno un recupero della memoria in questo senso, come diceva Elias Canetti. E su questa frase bellissima di Elias Canetti, se non avete altre domande, io chiuderei. (A meno che…Io ho tempo, possiamo anche andare in birreria, dopo; ma qua c’è qualcosa? Non c’è niente in questo paese. C’è una birreria qua?!……………). …

Intervento: L’ultima domanda, perché abbiamo letto di Parigi, dell’Algeria, eccetera. Siccome io insegno anche il francese, ho una domanda. Negli ultimi anni, la letteratura degli immigranti francesi in Francia è diventata un fatto importante. Lei, come scrittore, se paragoniamo questa letteratura (?) con quella in Italia, che cosa si può dire? Abate: Un parallelo tra la letteratura francese dell’emigrazione, e quella italiana? Io le confesso che è di questo che volevo parlare oggi. Cioè volevo parlare della letteratura dell’immigrazione. Perché questo è il mio tema. Siccome oggi non possiamo parlare più di questo, lo faremo un’altra volta. In Francia è a un livello nettamente superiore, proprio nettamente. Io ne conosco parecchi, da Tahar Ben Jalloun, per esempio, soprattutto all’inizio, perché adesso mi piace un po’di meno, ma i primi libri suoi erano bellissimi. Io adesso sono anche tradotto in Francia, vado spesso in Francia e ho conosciuto tanti scrittori giovani, stranieri che scrivono in francese. Che poi loro sono davvero francesi come sono io italiano, cioè padroneggiano…

Intervento: È per questo che mi interessa il parallelo.

Abate: Da noi, la letteratura dell’immigrazione è un fenomeno molto recente. È nata agli inizi degli anni Novanta, con dei libri – caso forse solo italiano – scritti a quattro mani, cioè due autori. Uno straniero e uno italiano: uno straniero che aveva la storia, e un giornalista italiano che la sapeva trascrivere. Allora sono nati così: “Io venditore di elefanti”, (…) e un giornalista dell’”Unità”, se volete il nome ve lo dico (era la mia relazione di trentacinque pagine, era questo che vi volevo dire……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

 

(non finisce)

 

cassetta n. 4

23/04/2004

(h.9.45)

 

(laura)

 

Udo Schmitt: intervento incomprensibile nella cassetta (?)

 

Massimo Maracci: “Maremma ieri e oggi: due culture a confronto”

 

M.M.: Vorrei ricapitolare alcuni aspetti che erano stati enunciati ieri nel corso della presentazione della Strada Dei Vini E Dei Sapori. I concetti che erano stati enunciati erano luogo, spazio e territorio. Per il luogo abbiamo detto che, in questo contesto e non in senso oggettivo, consideriamo una collocazione di una persona fisicamente sistemata in quella posizione con una relazione fisica con questa posizione in cui si trova. Il riferimento primo è quello dell’Etrusco, un po’ mitologico, che cammina sul cardo sapendo di camminare in quella direzione parallela all’asse a cui il sole gira attorno, secondo la prospettiva tolemaica. Poi abbiamo detto che secondo un certo sviluppo, fissando una data che è quella del 400 fiorentino il luogo viene teorizzato come spazio quando prende una definizione standard, cioè lo spazio diventa quella dimensione locale dove gli elementi intrinseci corrispondono a una certa organizzazione di misura. Lo spazio è, possiamo dire, una definizione del luogo secondo certe misure nella direzione della smaterializzazione del luogo che prende un valore capitalistico –si può usare questa parola perché in questo periodo il capitalismo c’è, ci sono anche le banche del 300—con un valore di intercambiabilità. Lo spazio lo posso cambiare. Lo spazio dato in quanto misura. Questo viene definito a Firenze, avevo fatto qualche accenno appunto alla prospettiva di Leonbattista Alberti, lo ritroviamo anche nell’atre e nella pittura, nell’architettura. Brunelleschi ha anche lui questa prospettiva scientifica; Giotto ha anche lui la prospettiva ma non è scientifica. La prospettiva su cosa si fonda? La prospettiva si fonda su questo aspetto di proiezione, cioè tutto ciò che lo spazio vasto si ritrova con misure in proporzione in un piano, come se alla realtà venisse sottratta una dimensione, la terza dimensione. Facendo un’altra metafora, che non è una metafora, la Torre di Babele crollata, schiacciata, diventa un labirinto, cioè un elemento dentro l’altro, non se ne esce, perché ci sono degli elementi dell’alto –in senso gerarchico–che diventano nel labirinto quelli del centro, cioè quelli più importanti vanno nel centro. Nello spazio invece ci si muove. Nella città etrusca chi percorre è collocato localmente per ogni dimensione fisica. Ciò che volevo dire è che la prospettiva si basa su questa relazione di proiezione. Questa è una citazione che ho trovato, sto citando un testo di Franco Farinelli, che è un semiologo e geografo dell’Istituto di Comunicazione di Bologna: la “pro-iezione” era la polvere che avrebbe trasformato in oro, quindi in una sorta di pietra filosofale. La proiezione è quel miracolo che rende in due dimensioni ciò che ha tre dimensioni. Lo spazio del cosiddetto paesaggio dunque è uno spazio artificiale, è uno spazio assolutamente culturale. Nelle belle colline toscane c’è certamente la natura, proprio la natura piegata brutalmente –forse è troppo forte—la natura piegata a un’idea. E’ culturale. Questo mi serve per spiegare la differenza che c’è tra il paesaggio del nord della Toscana e il paesaggio del sud della Toscana, della Maremma. Che cosa significa? Detta  proprio così brutalmente, la Maremma non è una zona pettinata e impomatata. La pomata e la brillantina, quelle che il nostro Presidente del Consiglio usa in abbondanza sulla sua folta, scarna capigliatura. Io devo stare zitto perché sono della stessa parrocchia in quanto a capigliatura. Diciamo che la Maremma non è impomatata, non è imbrillantinata, cioè si presenta a noi,  a noi che la vediamo come  paesaggio, come una terra, usando un iperbole, magnifica. Una magnificenza completamente diversa da quella Toscana delle colline di Firenze e anche di Siena. Un’altra definizione di questa lettura che voleva essere interculturale, con il preambolo che feci nell’introduzione, che intercultura per quanto mi riguarda è un termine indefinito, certamente si può applicare ma si rischia di non essere rigorosi, a parte, come abbiamo sentito dal discorso della Dottoressa Scagliarini, per ciò che concerne la linguistica: lì è proprio perfetto, calzante, definito anche dal punto di vista epistemologico. L’altra cosa che forse non ho sottolineato ieri parlando della VELINDIA, quando ho detto che il territorio viene suddiviso nello stesso modo e negli stessi termini come era la strutturazione della città, secondo linee ortogonali, quelle etrusche del Cardo e del Decumano… Ecco, quello che vorrei chiedere a voi, così sono sicuro di guadagnarmi la vostra attenzione, che cosa definirebbe una città, a questo punto? Cosa c’è di diverso tra la città e un villaggio, un piccolo paese, o meglio ancora tra la città e la campagna? Che cos’è che fa città? A parte il termine civitas, che ha la stessa radice di città. Certamente c’è il mercato che è un luogo centrale, il mercato è un luogo specifico, specializzato per quell’azione di vendita e di commercio. Quindi specializzazione degli spazi nella campagna, certo che un campo lo coltivo in un certo modo, ma anche nella città c’è specializzazione di spazi: le strade che sono pubbliche, e ancora, se posso suggerirlo, e i servizi che vengono messi in comune. ..Sono riflessioni, non è un discorso completo, come si avverte, non è un discorso ben attrezzato. Sono applicazioni di discorso su un ambito, che vede come elementi intercultura e Maremma….

L’altra qualificazione della città è servizi specializzati e spazi in comune. Questo richiede una fortissima organizzazione. Il fatto che città e civiltà abbiano la stessa etimologia, cioè siano la stessa parola, giustifica che il passaggio dalla Preistoria alla Storia… Qual è l’elemento che porta il passaggio… che si considera…definire Storia rispetto alla Preistoria? Ovviamente la scrittura. Oggi si considera anche la città, la città che impone la stanzialità. La popolazione stanziale si sviluppa, invece la popolazione nomade rimane molto semplice, la popolazione nomade ripete le stesse operazioni in luoghi diversi, cioè dopo un anno cambia e ricostituisce le stesse abitudini in luoghi diversi. Questo vale anche per gli Etruschi, gli Etruschi sono una civiltà stanziale, per esempio, non sono più pastori… Ecco, se ci sono questi elementi nella città, e se questi elementi vengono trasferiti nel paesaggio e nelle zone circostanti, anche le zone circostanti prendono definizioni non proprio come quelle della città ma analoghe a quelle della città. Cioè ogni località ha una sua importanza e una sua precisa vocazione, viene chiamata a quella…..

Ecco, questo sviluppo che c’è stato –adesso noi parliamo dell’Italia del nord e dell’Italia centrale perchè l’Italia del sud ha avuto sviluppi diversi; parlo soprattutto della Toscana–…questo sviluppo in Maremma, per ragioni storiche e geografiche è come sospeso, perché dopo la caduta dell’Impero Romano –questo è il motivo principale—nelle pianure si sono formate queste orribili, terrificanti paludi. Tutta la pianura della zona…(non si capisce, n.d.t.) era un’orribile pianura, un’orribile acquitrino dove prosperavano ovviamente le anofile, le zanzare che portano il plasmodio, e quindi la malaria. Quindi era una zona assolutamente poco salubre, anche nel senso che il fatto di essere una zona poco sana ha portato una considerazione nel corso del tempo fino alle bonifiche che sono state fatte nel periodo di Mussolini, …di essere stata considerata addirittura come una zona triste, “l’uccello che ci va perde la penna”, la canzone…”io c’ho perduto una persona cara”…”sia maledetta Maremma” “Maremma amara”…”Sia maledetta Maremma e chi l’ama”, cioè proprio una maledizione, una zona maledetta. Perché due culture a confronto? Perchè questa cattiva considerazione di questa zona ha portato negli ultimo 50 anni, dopo la distribuzione delle terre, a da una parte essere trascurata dal turismo e una preservazione di quel territorio. Allora, la Maremma era una zona di latifondi, quindi secondo i concetti enunciati precedentemente, il latifondo veniva lasciato e utilizzato in maniera non puntuale, e quindo il territorio ha mantenuto questo aspetto così selvaggio. Per Maremma si considera la provincia di Grosseto, che si sposta a nord fino a Cecina e a sud fino a Tarquinia, nel Lazio, nell’alto viterbese. Cecina è in provincia di Livorno. E’ la zona in Italia dove c’è minore concertazione di popolazione, non ci sono industrie, artigianato, agricoltura. C’è stata la riforma agraria negli anni 50, e i poderi sono iniziati negli anni 50. Quindi questo territorio ha cominciato a essere definito nei modi culturali del nostro territorio italiano nel senso agricolo, solo dagli anni 50. Alcune informazioni storiche: già 7000 anni nel Neolitico c’erano popolazioni che ci vivevano. E’ la zona dove si sviluppano i primi segni della civiltà etrusca. Pensate al nome Tarquinia, viene da Tarcon, che è questa divinià etrusca che darà poi il nome a Tarquinio Prisco, che è un re etrusco anche se è stato assunto tra i re di Roma, e Tarquinio il Superbo. La città più importante di questa zona è Vulci, è una città che poteva raggiungere fino a centomila abitanti, è nel nord di Viterbo, al confine proprio con la Toscana, e si considera che questa città, per la sua potenza, abbia impedito lo sviluppo degli altri centri minori, come Sovana, Poggiobuco, Saturnia; nel senso che c’è stato lo sviluppo di una sola grande città. Grosseto nel 1300 è arrivata al punto di avere, per la malaria, 100 persone, e Grosseto è il capoluogo della zone. La gente moriva di malaria nel Medioevo. Invece nel periodo etrusco e romano per via di questa definizone del territorio, per via di canali, di fossi che scaricano l’acqua… questa divisione che noi conosciamo per i Romani in centurie, la zona era floridissima, tanto florida come è florida oggi. C’è una specie di congiungimento, di bellezza di questa zona nel periodo etrusco e romano con la bellezza che ha riacquistato oggi per le ragioni che hanno determinato il disagio gravissimo in cui si è trovata per 2000 anni… meno, 1900-1950. C’era un aspetto interessante che avevo trovato: in alcuni studi archeologici di popolazioni nel periodo del medioevo che vivevano in rovine… anche lì c’è stato il periodo dell’incastellamento:  si sono costruiti i castelli, ovviamente, attorno all’anno 1000, poi una famiglia che si chiama Aldobrandeschi che possedeva circa 300 castelli nelle diverse zone era abbastanza potente… Nel periodo successivo, sempre con divaricazioni di numero di popolazione, …in alcuni periodi successivi, in alcune zone la gente viveva proprio nelle rovine. Hanno studiato che fossero mangiatori di carne, secondo analisi…, e che soffrissero di una certa anemia con un certo nome, che produce l’immunità rispetto alla malaria. E quindi c’era stata una specie di selezione –questo l’ho trovato su un libro di geografia– …una selezione naturale a questo flagello che era la malaria. Considerate che la malaria è scomparsa negli anni ’50 dopo le bonifiche e con aspersioni massicce di DDT. Oggi la malaria non esiste più, da più di 50 anni, ma era talmente grave, talmente potente che tutta la zona della pianura attorno a Grosseto in estate veniva abbandonata, anche le fonderie di Talamone, dove fondevano ferro cone gli Etruschi —voi sapete che gli Etruschi sono la civiltà del ferro che si è sviluppata per i commerci del ferro–…anche la fonderia di Talamone nel periodo estivo era chiusa, cioè la produzione era per otto mesi, quattro mesi chiusi. La strutture amministrative di Grosseto, che per certe ragioni storiche si è sviluppata, …anche Grosseto si trasferiva a Scansano, che è un paese sulla collina. In estate gli uffici pubblici di Grosseto chiudevano, andavano in collina. E chi rimaneva nelle paludi? O gente poverissima oppure peggio ancora, siccome nelle zone prosciugate delle paludi era possibile seminare, c’erano braccianti che venivano giù dalle zone anche dell’Amianta, che andavano a fare la cosiddetta estataura, andavano a tagliare il grano per un mese, il mese di giugno, e in quel periodo, per un mese, molti purtroppo si ammalavano di malaria. Alcuni morivano, altri sopravvivevano…

 

Perché non era distribuito il chimino? C’erano già i rimedi per la malaria… Non andando indietro tanto, ma già almeno dagli anni ’40, ’30.. .il chimino c’è.

 

M.M.: In questo periodo però già dagli anni ’30-’40… sono iniziate le bonifiche massicce, quindi già il problema cominciava a essere non risolto però…ecco negli anni ’30-’40 c’erano ancora i rimbombi di questa povertà orribile dei periodi precedenti.

 

Il chimino costava. La gente avrebbe dovuto comprare il chimino. …in Basilicata a bambini piccoli gridavano “chimì chimì” per avere il chimino, ma non ce l’avevano tutti.

 

M.M.: La situazione della miseria era tale e tanta… pensate che nel comune di Manciano, che è un paese florido, fino al 1915 non c’era l’acqua potabile. Bevevano l’acqua di una sorgente inquinata. Nel 1915 una bella fontana in paese… è arrivato un tubo dell’acquedotto dal Fiore –che è il fiume che porta dal monte Amiata giù nel nord di Viterbo—cioè… l’acquedotto l’hanno fatto nel 1915,  quindi fino a quel momento la gente bevevo l’acqua inquinata. C’era un’unica sorgente che riceveva i liquami delle concimazioni della collina sopra. La povertà era veramente indicibile, tanto che –questo però è un discorso marginale—in questa zona sud della Maremma, da Manciano fin giù nel viterbese, era una zona infestata dal briganti. Il fenomeno del brigantaggio c’era già dal 1600-1700, però in questo periodo viene considerato –stiamo parlando della seconda metà dell’800—quasi un fenomeno di ribellione sociale, nel senso che le condizioni di vita erano, senza iperboli, impossibili. Non era possibile vivere… anche perché poi ci fu una certa legge nel 1800…non ricordo la data, che tolse il diritto di fare legna, quindi le persone non potevano neanche più tagliare la legna, con tutte le funzioni che aveva la legna. Ci fu un’ulteriore sviluppo di brigantaggio. Naturalmente il brigante era… ci sono due teorie, una teoria un po’mitologica o mitica del brigante come Robin Hood, quindi buono, è vero che c’era una dimensione sociale che non permetteva molto, la ribellione oppure una vita terribile, e però siccome sono latifondi, erano Colonna, Corsini, della Gherardesca, un numero limitato, cinque, sei, sette latifondi importanti, questi brigandi davano protezione ai latifondisti e quindi erano foraggiati, prendevano soldi dai ricchi, nel senso che era una specie di connivenza, e questi latifondisti erano tutti tutti parlamentari, del parlamento, quindi c’è anche una specie di difficoltà a stanare i briganti. Poi si è riusciti perché credo nel 1900, proprio in quella data ci fu il famoso processo di Viterbo dove vennero condannati 300 briganti con operazioni di carabinieri durissime, poi diedero denaro alla popolazione, li beccarono tutti. Finito, chiuso il fenomeno del brigantaggio. E c’è che mette in relazione la fine del fenomeno del brigantaggio con l’inizio nel 1904 delle prime ribellioni dei contadini, dei braccianti. Le prime ribellioni si legavano anche al fatto che arrivavano le prime macchine…–c’erano già, esistevano già però compravano, prima non se ne preoccupavano–…le macchine trebbiatrici, per tagliare il grano. Allora i braccianti perdevano anche quell’unica fonte di sostentamento. Lì ci sono state le prime ribellioni, poi c’è stato il fascismo… il fascismo come sapete ha una dimensione nazionale sì, ma socialista, populista quindi anche certe regolamentazioni ci sono state, al di là proprio del fatto che…… le bonifiche sono state fatte proprio nel periodo fascista. Erano state iniziate prima da Leopoldo II di Lorena, alla fine del 700, poi con l’unità di Italia nel 1861 sono state sospese.

Sono stato abbastanza disordinato, saltando di palo in frasca, l’impressione che vorrei darvi è di una terra estremamente povera, estremamente trascurata, estremamente svilita, anche considerata una terra terrificante, con i briganti, la palude… il confine tra Toscana e Lazio… si percepisce, la differenza del paesaggio: com’è diverso il nord della toscana dal sud della Toscana, ancora ulteriormente diversa la parte della Maremma della Toscana dalla Maremma viterbese. Cioè, il paesaggio della Maremma viterbese è proprio aspro, asperrimo, proprio da duello rusticano nel canneto. Perché il territorio, che come dicevo ieri significa dominio, …il territorio del Papa era assolutamente trascurato, perché tutto il potere era centrato a Roma. Non c’era interesse per la periferia, che era una foresta infestata di briganti e asperrima, molto aspra… per noi magnifico, perché sono luoghi etruschi, quindi si trovano veramente i buchi dei tombaroli nei campi, poi ci sono zone tufacee, quindi questa bella pietra… alcuni scavi, tombe etrusche sono poi diventati ricoveri di pecore, sto parlando della Maremma viterbese. Questa è l’immagine di come appare la Maremma oggi, selvaggia, di vegetazione ricca e florida, scarsissima….. (non capisco, n.d.T.), piccoli centri, non c’è povertà, perché oggi ognuno –anche le famiglie che vivono nel paese—hanno il loro poderuccio: quindi hanno un po’ di vino, un po’ di olive… e quindi è una dimensione ancora molto serena, di una società giovanissima, gente che ha sofferto molto, ovviamente le nuove generazioni saranno diverse.

Per concludere, per quanto riguarda… vale il discorso che è valso ieri per i produttori della Strada dei Vini dei Sapori, oggi la Maremma è una zona di turismo prestigioso, di turismo di elite, frequentata da persone che hanno ristrutturato vecchie case, parti di antichi borghi. E’ una zona dove non c’è turismo di massa, e quindi non si è prostituita al turismo ancora, è ancora in una fase in cui se ne può percepire il suo valore profondo. Nello stesso modo la cucina, questa è una mia opinione, ha una certa innocenza ancora, una certa solidità di tradizione… Non ha ricevuto ancora, per fortuna,  molte contaminazione. I prodotti, poi questo ce lo spiegheranno meglio le persone che presenteranno i prodotti della Maremma, sono naturalmente il formaggio, il formaggio pecorino è una delle squisitezze della zona. Il formaggio cosa significa? Che ci sono le pecore, e questo cosa significa? Che non c’è stata la cosiddetta depecorizzazione. La depecorizzazione significa che la montagna, quando si smette di allevare le pecore e si coltiva la pianura, diventa meno importante della pianura e alla fine viene abbandonata la pastorizia come fenomeno produttivo massimo, resta come fenomeno produttivo marginale. Lì invece è il fenomeno produttivo agricolo massimo, quindi campi di erba medica per le pecore. Ecco, a questo punto forse posso non interrompere ma concludere…. Se avete qualche questione non da porre a me, ma qualche questione che possiamo porci… volentieri.

 

Noi apparteniamo a questa élite…e potremmo fare da turista di élite…

 

Certo, non so, io sono di una zona dell’Italia continentale, che è l’Emilia Romagna, il piacere della Maremma è una luce molto meridionale, un paesaggio…veramente sembra di essere in un sud antico… e c’è una preservazione magnifica.

 

Volevo chiedere per i prezzi: alberghi… visto che ci hai dato tanto materiale anche… Normalmente un turista oserebbe andare in questo turismo di elite con lo stipendio di un insegnante….?

 

Il problema è che ci sono proprio delle difformità. C’è un turismo di elite, quindi alberghi costosi, ma esistono ancora pensioni o agriturismo di qualità. Per gli agriturismo –ma questo non vale per la Maremma, vale per tutta l’Italia—attenzione che adesso più del 50% sono fasulli. Cioè non dico che vanno a comprare il cibo surgelato alla cooperativa sociale… ma quasi. Quindi va molto valutato, l’agriturismo. Ci sono proprio le due parti… perché c’è un’affluenza… per esempio, i romani vengono in Maremma. Capalbio era un paese dove l’intelligenzia politica italiana… la sinistra… oggi si sono trasferiti tutti in Sardegna…

 

Volevo dire una cosa: non so come la vede Lei, ma per esempio io vedo una lettura in cui ci sono ancora…. Questa presentazione che è stata causata da questa estrema povertà, da una serie di disavventure connesse con il territorio, in un certo senso è stato un fattore positivo di conservazione. C’è stato questo periodo dopo la bonifica, ecc…, che l’attività agricola… poi c’è stato il periodo delle miniere, laMaremma è una terra di miniera. Però nello stesso tempo questa presentazione che è arrivata fino a oggi, oggi è minacciata da alcune misure prese da vari Governi. Per esempio: quando sono state abbandonate le miniere, l’abbandono delle miniere è stato gestito dell’ENI. L’ENI ha praticamente chiuso queste miniere senza nessuna misura di protezione del territorio di isolamento di tutto il corpo minerario. Questo ha causato grandissimi inquinamenti dei corsi d’acqua che portano l’acqua ai paesi. Scarlino, per esempio: è un esempio tipico. Le terre rosse di Scarlino… di questa pioggia che passando da questo sottosuolo minerario ha scaricato nei fiumi che vanno ad approvvigionare tutti questi paesi delle scorie…. Mercurio, cinabro, sono quelle miniere che non erano redditizie e sono state chiuse. Per esempio il monte Amiata aveva la società monte Amiata che ha passato tutto quanto all’ENI, l’ENI ha chiuso… gli enti locali, i comuni stanno combattendo una battaglia contro l’ENI, ancora, per la bonifica di questi corsi d’acqua e delle vecchie miniere. E seconda cosa che minaccia questi territori è il progetto del Governo Berlusconi, del ministro dei trasporti Lunardi, di invece di potenziare e migliorare il percorso della via Aurelia, di fare un’autostrada costiera. In altre parole, quello che è stato preservato fino a oggi da questa situazione di isolamento della Maremma verrà probabilmente… è minacciato da queste misure che getteranno probabilmente questo territorio, che è uno dei pochi ancora realmente rimasto con una sua originarietà, con uno suo stretto legame con la sua tradizione, con la propria storia, verrà gettato probabilmente in pasto al turista di passaggio che scorrerà sulle autostrade, che farà un mordi e fuggi, e disgraziatamente queste sono le minacce del mondo di oggi nei confronti di questo paese. Non so come la vede Lei questa situazione, ma a me sembra un paradiso minacciato.

 

M.M.: Condivido pienamente il discorso, nel senso che l’autostrada è perfettamente inutile, perché dovrebbe scorrere, secondo il progetto, parallela all’Aurelia, che ha già quattro corsie. Invece il progetto della regione sarebbe quello di potenziare l’Aurelia e renderla autostrada. Addirittura il primo progetto era quello di far passare l’autostrada sulle colline…. Un altro esempio purtroppo sono le terme di Saturnia, che adesso sono in gestione alla figlia di un imprenditore milanese…. Convinta di lanciarle come terme… una cosa da Rimini, ecco, e quindi hanno scavato vasche orribili…. Purtroppo in alcuni periodi ci sono delle minacce….(non capisco, n.d.T.) Non c’è questa bella idea che abbiamo tutti che l’ambiente è preziosissimo. Pensare di perdere l’ambiente…

 

Poi si pensa per esempio, a Saturnia, io ricordo che da bambina andavo, c’erano le vasche…, mio nonno mi raccontava che hannos coperto le qualità terapeutiche delle terme di Saturnia perché i pastori portavano le pecore che avevano la scabbia, che è una malattia della pelle, le portavano a fare il bagno in questa sorgente, per cui notavano che le pecore guarivano, al chè si è capito che queste acque avevano proprietà benefiche, ed erano acque a cui si bagnavano tutti, si andava lì, era una tradizione, ormaidi secoli, che queste acque facevano bene, finchè sono state date in sfruttamento esclusivo a delle società e tolte all’uso generalizzato della popolazione. Cioè è uno sfruttamento di proprietà del territorio che è ha preso un certo indirizzo…

 

Ma gli ambientalisti in Italia esistono o è una cosa molto alla leggera?

 

Per esistere esistono, ma…

 

M.M.: Esistono, ma c’è proprio una disposizione verso l’ambiente comune degli italiani, per cui l’ambiente non è avvertito come valore…è fuori da casa propria.

 

Poi molti enti locali concepiscono lo sfruttamento dell’ambiente come un elemento di valorizzazione, nel senso che il fatto che si costruiscono tot seconde case magari usate per 3 settimane l’anno nel mese di agosto, che cementificano per sempre una costa irripetibile, per loro è un fattore di sviluppo perché dice “ma sì, porta lavoro”, ma è una visione  molto restrittiva, molto primitiva del concetto di sviluppo. Ma disgraziatamente molti enti locali ragionano in questa maniera. Ci sono degli illuminati, ma insomma non è la norma.

 

Maurizio Sonno, Presidente del Consorzio produttori Altra Maremma: “Presentazione delle produzioni alimentari tipiche della Maremma”

 

Abbiamo il piacere di avere con noi il Dottor Maurizio Sonno, Presidente del Consorzio Produttori Alta Maremma e il Direttore Tecnico dell’Agenzia di Viaggio del Consorzio Alta Maremma, la Dottoressa …..

……………..Cassetta disturbata, non si sente…………………………..

M.S.: Buongiorno a tutti, mi chiamo Maurizio Sonno e sono il Presidente del… (disturbato) …noi siamo nati come consorzio nel ’94 e ad oggi abbiamo 123 soci, che si dividono tra produttori e operatori di turismo. Il nostro consorzio ha una spiccata vocazione di carattere né marcatamente prodotti , né marcatamente turismo: territorio. Noi parliamo di territorio, nella sua integrità. All’interno del territorio noi cerchiamo di coniugare, promuovere e valorizzare tutto ciò che, secondo noi, il territorio in positivo offre. Quindi: prodotti, turismo, cultura. E quando parliamo di cultura…nelle varie sfaccettature: quindi ambiente, Etruschi, la cultura dei nostri pittori… e’ chiaro che noi vediamo il territorio in una veste globale. In Toscana queste cose, o in Maremma, non vi nego –anche se io sono orgoglioso di essere maremmano—non sono semplici, perché per noi l’individualismo è un concetto molto forte. E’ un concetto sul quale noi da sempre cerchiamo di lavorare. Il motivo ispiratore di questo consorzio è molto semplice, la nostra è un’economia fatta di microaziende, di piccoli produttori, di piccoli agriturismi. Da soli, nel panorama di carattere nazionale, sotto il profilo commerciale, lo stare da soli non ha senso, uno si perde in una marea di offerte in un mondo che assolutamente ha grandi sollecitazioni, sia sotto il profilo prodotti sia sotto il profilo turismo. Quindi con intelligenza, tra virgolette, speriamo di essere all’altezza di quello che ci proponiamo, cerchiamo di tenere insieme una zona e di promuoverla, e di fare azioni che vanno verso il concetto di etico. Un’azione molto forte che noi stiamo facendo nei confronti delle amministrazioni pubbliche e del sistema bancario, di un certo tipo di sistema bancario. Io sono presidente del Consorzio…. (disturbato)..però nella vita sono dirigente di banca……..(disturbato)…..Il concetto di turismo, dei prodotti e dell’associazionismo non è da commentare, oggetto di tavole rotonde…,bisogna stare in mezzo alla gente. Vorrei fare un preambolo, spero che non sia difficile o inutile, perché…..(disturbato)…il sistema bancario…(…) piccole strutture che nascono e scompaiono senza che nessuno se ne renda conto. Questo è il nostro motto ispiratore, e oggettivamente il nostro modello, …perchè di questo si tratta, un modello un po’ a tutto tondo, non vi nego che in molti ci chiedono di illustrare ciò che stiamo facendo. Qualche risultato sul territorio apprezzabile c’è. (disturbato)

….la Maremma…..fino a 50 anni fa..(…) era non popolata, non c’era nessun interesse di carattere economico, che ha fatto sì che…(…) Abbiamo un patrimonio di carattere……., molto concentrato sui comuni, da noi ci sono poche cose bellissime ma non abbiamo altri…(…) La nostra ricchezza oggi è quella di essere stati poveri ieri, noi abbiamo un territorio perfettamente integro, il rapporto con la natura è assolutamente prorompente…(…)..hanno questo contrasto tra quello che è il territorio e quello che è il nostro modo di vivere. Noi siamo un popolo di cacciatori, quindi per noi questa attività è una cosa importante, …però siamo i primi a tutelare l’ambiente, perchè conosciamo…(…) Abbiamo 2 categorie di prodotti importanti, già affermati…. Sui vini, sul concetto della Maremma, bisogna spendere qualche parola perché…(..)..è un po’ un eldorado perché è una zona in cui si trovano delle caratteristiche assolutamente positive, una zona poco piovosa e con delle stagioni, specialmente nell’agosto-settembre, periodo della raccolta, molto asciutto…(..) si prestano molto bene a fare dei vini importanti. E’ stata una zona che, nel momento in cui si è saturata l’area del Brunello, l’area del……, e del Chianti, si è saturata sotto il profilo economico, lì il concetto commerciale era ormai a dei valori irraggiungibili… parliamo di acquistare un ettaro di vigneto…(…).. quindi la Maremma, anche se da sempre ha avuto queste motivazioni, si è trovata…(…)..importanti case vinicole… perché quando hanno esaurito i loro territori si sono resi conto di questo cugino lì vicino, che era la Maremma e hanno inziato..(…) I risultati sin dell’inizio sono stati straordinari, (…..) Subito risultati ottimi (…). Il prodotto che io reputo più vero, più vivo della Maremma è l’olio. L’olio veramente rappresenta i maremmani e la cultura di fare agricoltura da noi….(…) Si fanno cose incredibili, si trapiantano questi olivi…(…) la cultura dell’olio si trasforma poi in tutto questo rito della raccolta, andare rapidamente al frantoio… Ecco nell’olio si sta seguendo quel concetto di qualità che fino a 10 anni fa non erano assolutamente stati valorizzati. La bontà dell’olio deriva essenzialmente da 2 concetti fondamentali, quello di raccogliere e  frangere le olive in un tempo più corto possibile, perché le lavorazioni all’interno delle strutture, nei frantoi, abbiano le temperature più basse possibili. Voglio portarvi un esempio, sia di quello che facciamo sul territorio, sia di quello che io magari faccio come banca. La mia vita è un tutt’uno, io non posso distinguere quando sono dirigente di banca e quando sono presidente di consorzio, ho la fortuna di lavorare in un istituto di credito che ha capito il mio messaggio e quindi sono un battitore libero. Allora sull’olio: 5 anni fa si lavoravano le olive a 70 gradi. (…)…..erano pochi, senza fragranza. Oggi si lavora a 32 gradi, quindi abbiamo men che dimezzato le temperature avendo delle rese e dei fruttati incredibili. Come banche e come territorio stiamo lavorando per portare in Maremma il Chianti, che lavorano a 25 gradi, quindi sotto il profilo tecnologico è una cosa incredibile. In più stiamo lavorando anche ai concetti di essiccazione di olio: i grassi, più stanno a contatto con l’ossigeno più si opacizzano. Allora per avere questi olii, che non sono soltanto buoni ma anche belli, stiamo portando in zona il Chianti sotto azoto: l’azoto è un gas inerte che a contatto con qualsiasi cosa lascia inalterato. Entro anche in queste divagazioni per farvi capire che la Maremma non è più un territorio dove non si agisce in maniera puntuale e anche intelligente. E’ chiaro che abbiamo queste grandi potenzialità produttive, e cerchiamo di sfruttare la tecnologia dove…(…). L’olio è uno di questi casi. L’azione sull’olio è un’azione congiunta, corale. …..le amministrazioni pubbliche che stanno facendo strutture a d.o.c. (…)…è una …piccolissima, molto tenace…, non se ne conosce altre in Europa. Quella è stata messa sotto tutela tramite una d.o.c. E’ chiaro che poi si lavora sulla tecnologia per avere questi prodotti che noi riteniamo oggettivamente di grande importanza. Un concetto, quando si parla di prodotti: non esiste un prodotto più buono e uno più cattivo. Si parla di prodotti chimici. I nostri oli hanno delle caratteristiche particolari. Ma in assoluto che parla di prodotti, chi si propone non deve mai dire il mio olio è più buono. Il nostro olio ha una tipicità. I nostri oli ad esempio sono molto buoni per quello che vi abbiamo proposto oggi: la bruschetta, i crudi come insalate, nella patata lessa.. il modo per percepirela fragranza di un olio è la patata lessa perché il caldo rimanda gli aromi. Questo è il metodo classico. I nostri non sono oli. Oggettivamente, salvo rare eccezioni, da crudo di pesce, da questa moda che c’è ora del sushi… assolutamente no. Hanno un sapore troppo forte, sono maremmani. L’olio come prodotto tipico storico. Il vino è venuto recentemente, anche se ormai ha conquistato tutti i riflettori della stampa. E poi abbiamo tutto il grande gruppo dei prodotti che arrivano dalla zootecnia. Innanzitutto l’attività casearia. Per l’attività casearia dobbiamo aprire un’altra grande parentesi. L’Italia, e la Maremma, e la Toscana, è stata una regione che anche con il non stare alle cose comunque si adegua sempre. Noi abbiamo avuto delle leggi sanitarie che sotto il profilo della zootecnia e della lavorazione del latte hanno massacrato quello che era la piccola produzione. Hanno azzerato tutto. Ciò che non è avvenuto in Francia, la Francia ha fatto finta di non vedere. Da noi purtroppo vedevano tutto e tutti. E quindi i piccoli caseifici sono stati azzerati. Abbiamo delle grosse strutture, la nostra è una produzione specifica sui pecorini, formaggi a latte cotto di pecora… (…)

…stanno rifiorendo molti piccoli caseifici, la legge differenzia quelle che sono le grandi strutture da quelle che sono le piccole strutture, e le differenzia in un concetto, che da noi è stata la matrice di questo appiattimento: il concetto di carattere ecologico. Alle grandi strutture si applicano leggi sulla regolamentazione molto ferree. Voi pensate che in Toscana le acque che escono dai caseifici sono talmente tanto purificate da essere categoria A, sono nella scala più bassa della potabilizzazione, sarebbero per noi anche potabili. Nelle piccole strutture con poche centinaia di pecore, quei …possono essere dati ai suini. Oltre alla grande produzione di strutture molto importanti, iniziamo ad avere i prodotti dei piccoli produttori e il ritorno di quello che era la storia dei nostri nonni. Il ritorno dei prodotti a latte crudo. Il latte non viene né pastorizzato né sterilizzato. Sono  prodotti con una fragranza assolutamente straordinaria, diversa. Suppongono però una sanità degli animali incredibile, quindi gli allevatori che fanno prodotti a latte crudo sono molto molto controllati sotto l’aspetto sanitario, se no le malattie potrebbero passare automaticamente all’uomo. Collegato al settore del latte è chiaro che c’è il settore delle carni. Il settore delle carni è sempre meno evidente. E’ chiaro che i prodotti che non possono essere facilmente trasportati sono meno conosciuti. E’ evidente che da noi però si trovano delle carni di allevamenti biologici…di altissimo (…). Una buona bistecca, che non sia fiorentina, ma un buon agnello… da qui deriva la grande tradizione della cucina maremmana. La cucina maremmana si rifà al trasformare i formaggi, ma principalmente è il regno delle carni cotte col pomodoro, dove la matrice sono queste carni assolutamente saporite perché gli animali sono…(..) Oltre i formaggi c’è tutto quello che riguarda il mondo dei suini, i suini allo stato libero. Specialmente in questo momento una razza che sta trovando grande diffusione da noi è la ci….svedese. recentemente sono stato in Spagna, ho avuto la curiosità di assaggiare il patanigra. Il patanigra non così conosciuto ma ce l’abbiamo anche in Maremma, questi maiali allevati allo stato brado (…) Vi abbiamo portato degli esempi..(…) Voi probabilmente ci sentirete il sapore, tra virgolette, delle nonne, delle zie, delle signore col grembiulone…. E poi i prodotti di carattere stagionale: una grande varietà di ortaggi, funghi. Voglio raccontare un aneddoto della Maremma. Per noi i funghi sono i porcini. Per noi i funghi sono…non so, quando io ho cambiato lavoro sono andato dal mio datore di lavoro gli ho detto “Guardi, io ho bisogno di un po’ di libertà, penso di poter dare grossi stimoli all’azienda, però sia chiaro: quando ci sono i funghi io non vengo al lavoro”. Questa è una condizione che io ho messo per contratto, di cui non mi vergogno. Noi abbiamo questa cultura qui. Noi abbiamo un contatto col bosco che è una venerazione. Per me il bosco è vita. Il bosco e l’acqua sono vita. (….)……. Farvi assaggiare qualcosa….(…) I dolci. Abbiamo però un dolce particolare, che è ..(…) è un dolce…(…). In Italia c’è stato un gruppo che ha  censito, che ha….. prodotti di altissima valenza di carattere gastronomico in Italia. Li ha censiti e, tramite un progetto del ministero dell’agricoltura che si chiama “presidi”, ha costituito intorno a questi prodotti una tutela, viene incentivata la vendita, vengono continuamente pubblicizzati… si fa sì che non si perda… (…) (…) è un dolce che è nato in un momento molto triste.

Parlare della Maremma  però, secondo me, è parlare del concetto di territorio. Nel momento in cui noi parliamo di prodotti dobbiamo necessariamente parlare di territorio. Da qui è nato il nostro consorzio. Noi siamo un consorzio dove la quantità maggiore di rappresentanti è operatori turistici e la quantità inferiore di (…). Questo perché l’unione europea …. Nelle loro leggi consentono che ci siano delle cose come quelle che noi stiamo facendo: se la rappresentanza maggiore è del turismo noi ci possiamo portar dentro un po’ di tutto. Il rapporto con  l’Unione Europea è un rapporto importante. Perché tramite l’Unione Europea…tanti fondi, possiamo spendere tutto in proporzione. Lo facciamo in maniera intelligente. In cocnetto turistico e tutti i prodotti da salvaguardare e da valorizzare. Il concetto turistico nella nostra zona….siamo molto orgogliosi del progetto che stiamo portando avanti. Nel materiale che vi abbiamo portato spero che si possa spettare non soltanto la qualità grafica ma comunque il calore, l’affetto che noi vogliamo portare fuori. Sono materiali tutti studiati dalle persone migliori che abbiamo in zona, se non ci siamo riusciti vuole dire che….  Comunque sono frutto di un lungo lavoro, sia nelle parti descrittive –cerchiamo di scrivere poco in maniera sintetica, sia nelle parti visive. L’immagine secondo me è la cosa che istintivamente ti porta subito alla comunicazione… (…) : la natura, la cucina… Sotto il profilo turistico è chiaro che noi cerchiamo di farvi avere dei prodotti che siano validi. Il problema delle nostre zone, come di altre zone di Italia ma soprattutto della Maremma, è che visitare la Maremma non è semplice. Uno resta affascinato dai percorsi stradali sempre pieni di verde, di fiori, ….una natura che è lì, che ti abbraccia, però nel momento in cui uno scende dalla macchina non sa come gestirla. Il concetto moderno del turismo è quello di vendere i pacchetti, cioè dare delle offerte per cui i turisti quando vanno lì possono apprezzare anche quegli aspetti che non si vedono dalla strada, e da qui il grosso impegno sull’immenso patrimonio archeologico. Cerchiamo di valorizzare questi aspetti. Il concetto degli Etruschi in Maremma: da noi ogni angolo è testimone del passaggio di questo popolo. (…) Le necropoli… (…) Loro costruivano le loro città soltanto sul lato sinistro dei fiumi… (…) Il concetto ecologico è importante: abbiamo grosse azioni nel settore dell’agriturismo, quindi cavalli, passeggiate, e ultimamente siamo andando anche sul settore più raffinato, sul settore delle mongolfiere, quindi turismo in mongolfiera. Io non l’ho provata personalmente ma dicono che è come andare in aliante, cioè una concezione del tempo e dello spazio assolutamente fuori dalla nostra portata intellettuale. E poi nel turismo anche in questo mondo dove tutto è proteso verso i prodotti, abbiamo una cosa in particolare di cui sono particolarmente fiero: le scuole di cucina. Gran parte delle nostre strutture oggi come oggi stanno iniziando a fare piccoli corsi di gastronomia. È chiaro che sono corsi di gastronomia maremmana, toscana, dove probabilmente imparerete a fare piatti tipo l’acquaforte… cioè a sfruttare questi ingredienti che non sono quantitativamente tanti ma si rifanno alle nostre culture di boscaioli… Ecco, di questa cosa sono molto fiero, perché secondo me anche questo è un modo più intelligente di fare cultura. Le nostre cuoche, che sono tutte donne che fino a un po’ di tempo fa facevano da mangiare ancora alle famiglie nobili, da noi c’è ancora la nobiltà… in questo momento sono affermate cuoche nei ristoranti e insegnano questa cultura che deriva da 30-40 anni fa. E poi percorsi gastronomici, ma questo si trova ormai  da tutte le parti, è un po’ inflazionato come settore, però in determinati mercati è ancora molto importante. Altre attività che noi facciamo: cerchiamo di riprendere il territorio come valore di tutti. Per noi il territorio è importante. (su questa cartina trovate tutti i sentieri disponibili sul nostro territorio).  Anche questo è un lavoro che è stato fatto da noi.

E’ evidente che dopo le cose che vi ho detto vi troverò il prossimo weekend giù da me! Nel territorio abbiamo cercato di rappresentare innanzitutto tutte quelle aziende che a livello volonteroso e come pioniere hanno abbracciato la fede di un consorzio, perché non è una questione di carattere economico ma una questione di carattere culturale molto elevato, che per i toscani non è assolutamente usuale.  Qui trovate tutte le strutture convenzionate però vi trovate anche tutto quello che sotto il profilo naturale e naturalistico potete trovare nel territorio. Non a caso la cartina dietro vi porta in maniera molto sintetica tutti gli eventi particolari che potete trovare. All’interno del nostro territorio poi abbiamo una cosa che è tipica da noi, ma molto importante: l’attività termale. Abbiamo un grosso stabilimento termale: le terme di Saturnia. Fortunatamente sempre più integrato col territorio, quindi non è più lo stabilimento termale che magari qualcuno di voi che ha conosciutola Toscana si immagina assolutamente d’elite, o comunque destinato a pochi. Nel pacco termale oggi come oggi, in virtù di questo grande lavoro di limatura continua sotto il concetto dell’ospitalità, possono divertirsi tutti, i servizi estetici sono di tutti… Sono concetti che dieci anni fa erano motivo di scontri furiosi: c’era il turismo dei ricchi e il turismi dei poveri, c’erano le piccole aziende che erano né carne né pesce. Noi abbiamo lavorato a questo concetto. Non vi nego che la battaglia da noi non sia finita e che i personalismi sono lì sempre pronti a rispuntare. Però è chiaro che in 10 anni di lavoro abbiamo fatto tanto. Io a questo punto mi fermerei per capire se ci sono domande da voi, se gli argomenti che ho trattato meritano un approfondimento. Io potrei parlare ancora per tanto tempo anche di quelle che sono le cose secondarie, però mi garberebbe fermarmi un attimo.

 

(…domande non comprensibili)

 

M.S.: La prima domanda: come si incentiva l’agricoltore. L’incentivazione dell’agricoltore, nell’asse agricoltore/ ente pubblico/ banca …noi cerchiamo di agevolarlo in più modi. Cerchiamo di fare una sintesi perché è un lavoro oggettivamente di team, di squadra. Noi lo stiamo facendo, stiamo creando tante squadre per tanti settori, quindi è un continuo scambio di informazioni e di persone. Noi lavoriamo molto a questo concetto di interscambio delle informazioni dalla base alla banca passando per gli enti pubblici. Come si agevolano questi fenomeni? Innanzitutto vengono agevolati non sotto il profilo delle tasse, perché le tasse per noi sono regole che devono essere rispettate per tutti, però si possono creare degli strumenti che agevolano questi agricoltori, per esempio quando gli agricoltori vogliono migliorare le proprie strutture produttive, quindi hanno bisogno di creare nuovi ambienti e roba del genere, noi sfruttiamo molto uno strumento che si chiama programmazione negoziata a patti territoriali. Cioè  sono degli strumenti a carattere amministrativo dove la domanda degli imprenditori viene fatta proprio dall’ente pubblica e quindi agevolata. L’ente pubblico poi si fa garante nel sistema delle banche. Io faccio parte del sistema delle banche, sono una persona che svolge questo ruolo nel sistema della mia banca e quindi sto con l’agricoltore nella fase iniziale,  contratto con l’amministrazione, quando la cosa va in porto andiamo dalla banca. Il mio modo di fare banca, il credo mio e della banca è quello che le banche devono stare sempre in mezzo al territorio, io sono una persona che in banca ho un ufficio ma non ci sto mai, sono raggiungibile solo al cellulare. E lo dico con sorriso, perché secondo me così si percepiscono quelle che sono le necessità. Un altro grande modo di agevolare l’agricoltura è tramite i grandi contributi comunitari. C’è un grande mondo di agevolazioni. Considerate che le nostre zone sono zone montane e quindi l’agricoltura deve essere vista sotto il profilo produttivo ma come presidio di territorio. Cioè il concetto dell’agricoltura per le nostre zone è un concetto sociale, perché non possiamo permettere al livello toscano che grandi aree oggettivamente depresse, con un reddito pro capite insufficiente alla sopravvivenza, si spopolino, con tutti i problemi che ne derivano. Il problema che voi vivete , che ci viene fatto vedere in maniera macroscopica sono i dissesti idrogeologici. Quando ci sono grandi piogge se non c’è un territorio presidiato succedono questi grandi disastri che derivano dalla mancanza dell’agricoltura. Questo è il primo motivo per cui si tengono le popolazioni strette alla montagna. E poi le piccole produzioni vengono valorizzate con manifestazioni come queste ma anche più importanti, andando a promuovere e a fare sì che ci sia sviluppo commerciale.

Sugli oli: è una grande domanda. Innanzitutto noi abbiamo oli tipici maremmani, comunque toscani. E quando dico tipico vuole dire essenzialmente con un sapore marcato, che non è piccante e non è l’odore di carciofo, però è un sapore marcato, spero per voi  gradevole, per noi assolutamente lo è. Però vengono venduti a dei prezzi accettabili, cioè non è la grande bottiglia. Gli oli che vi presentiamo oggi nell’agriturismo li trovate a 12 euro e bottiglia. Si trovano a 9 euro nella lattina. In Europa ci sono grandi quantitativi di produzione di olio, se pensiamo alla Spagna e al Portogallo sono dei grandi produttori assolutamente incredibili. Però loro hanno un concetto di produzione che non è il nostro concetto. Io non voglio criticare la loro strategia. Noi lavoriamo molto sulla qualità. L’unica ancora di salvataggio per noi è la qualità, e sulla qualità si imposta la società in questo momento, cioè non soltanto il produttore ma l’intero territorio lavora sul concetto di qualità. Nell’olio la qualità è data dall’acidità. Per essere un olio extravergine di oliva deve avere un’acidità, quindi una reazione chimica, inferiore all’1%. Noi vendiamo oli che hanno 0,15%, 0,10%, 0,20%. Non superano lo 0,25%, quindi un quarto dei limiti di legge. Gli oli spagnoli, per carità, io non sono qui per criticare nessuno, sono tutti intorno all’1% ma hanno enormi quantitativi di olio a 2,5-3% di acidità. Loro hanno il concetto ancora della quantità. Per noi è un concetto…che il giocoforza non può essere fatto. Lei mi riporta all’argomento che è stata la mia partenza: perché tutta la struttura sociale, perché le banche vogliono portare i frattori di tecnologia più avanzata possibile? Perché noi non possiamo produrre tanto, non abbiamo un sistema climatico che produce tanta energia, che sia foraggio che sia olive, per noi l’agricoltura è sempre di poche cose. Quelle poche cose necessariamente le dobbiamo valorizzare. Ci siamo resi conto che per valorizzare l’olio ci vogliono i produttori che sappiano fare il loro mestiere ma ci vogliono i trasformatori bravi, bravissimi, e la tecnologia, e quindi sotto il profilo pubblico ciò che non abbiamo fatto nel vino l’abbiamo fatto nell’olio. Le banche danno i soldi a tasso zero a queste persone che portano i frantoi di grande tecnologia. Io mi batto per quello.

 

Come si chiamano gli abitanti della Maremma? Maremmani?

 

M.S.: Maremmani.

 

Ci sono detti o proverbi che si riferiscono all’olio, in Maremma, forse?

 

M.M: Liscio come l’olio.

 

L’olio buono viene sempre a galla

 

M.S.: Il filo d’olio. Il filo d’olio lo trovate in tutte le nostre pietanze. Il filo d’olio, che poi si dice “la vi o la va”. Quando era il tempo che non c’era, quando si versava l’olio si doveva dire “la vi o la va”. Nel momento in cui finivano queste 3 parole insieme si doveva alzare la bottiglia.

 

Da cosa dipende l’acidità di un olio?

 

L’acidità di un olio dipende da un fattore di carattere produttivo. L’acidità è direttamente influita dai danni della mosca olearia. Nel momento in cui questa mosca depone l’ovino all’interno dell’oliva nasce una larva che sono proteine. E di fatto nel momento in cui si fa questa grande pasta c’è una grande quantità di proteine di carne dentro, che poi derivano da questi vermicelli. Quello è il rpimo fattore in assoluto. Per combattere questi fattori che non sono praticamente sotto il profilo chimico, oggi come oggi usiamo due metodi: uno che confonde i dissuasori, cioè abbiamo delle sostanze che fanno sì che le mosche femmine pensino di andare verso i maschi ma sono maschi chimici. Quindi non vengono fecondate. Il secondo sono delle trappole massive: mettiamo delle altre sostanze, che si chiamano ferormoni, ce le abbiamo tutti, sono delle sostanze di richiamo sessuale, vengono messe all’interno di contenitori e riproducono ferormoni maschili, e le femmine entrano e vengono intrappolate. Questi  sono i metodi che usiamo per far sì che non ci sia questo danno.

 

CASSETTA 5: CHIARA

(Ven.23/04)

(h. 15.00)

 

…cassette, è assolutamente proibito metterlo nei sacchi di nylon, cosa che veniva fatta fino a poco tempo fa. Il tempo che intercorre da quel momento alla frangitura. Tecnicamente per avere olii di grande fragranza, non dovrebbero intercorrere più di 6 ore, 8 ore. Prima si frangevano le olive anche a 72 ore, oggi si cerca di stare al di sotto di 12.

E poi il mantenimento. Il mantenimento dell’olio, oggi come oggi, assolutamente non viene fatto più negli orci e negli zidi , ma si parla di acciaio, tutto in temperatura controllata. Un fatto molto (se vi interessa parlare d’olio), un fatto molto classico, ma che determina un invecchiamento precoce dell’olio, è il congelamento: l’olio a 7 Gradi, 8 gradi si solidifica, c’è il passaggio di stato, quindi come l’acqua diventa ghiaccio, l’olio inizia praticamente a flocculare,  fa’ i grumi. In quel momento, l’olio perde la sua fragranza in quel momento. L’olio congelato quando si discongela è invecchiato per 3 volte. L’olio deve stare a 13 gradi, d’estate e inverno e sotto azoto. L’altro fattore di grande deperibilità dell’olio sono i raggi ultravioletti, non a caso, l’olio non va mai tenuto alla luce.

OGM:  dunque…io come formazione tecnica sono un agronomo. Ne parlavamo ieri con il direttore. Ecco, per fare grandi cose ci vogliono grandi persone,  tipo Lei, persone che ci mettono amore nel lavoro e quindi tutte le cose che io praticamente mi metto in testa, poi ci ho collaboratori, oggettivamente diversi, però tutti con , cioè o si lavora col cuore con me o nella nostra zona o fanno parte di un’altra categoria, quella è un’altra cosa. Allora OGM, OGM io do una risposta da agronomo, di formazione sono un agronomo. L’OGM secondo me è più una montatura di carattere internazionale; l’OGM ha un grosso problema secondo me che combatte le piccole produzioni perché fare coltivazioni OGM, vuol dire geneticamente modificate, che resistono o al freddo o a un patogeno o a un fungo o a qualche cosa, è appannaggio, e ci riescono soltanto le grandi multinazionali perché sono investimenti colossali. Le biotecnologie, l’OGM sono la base di tutta quella che è la farmacologia. L’OGM esiste da sempre e ci ha regalato grandi antibiotici , enzimi, cose; ecco, lì giustamente secondo me serve per la sanità pubblica. Cioè, il grano o il mais io non credo che siano poi dannosi alla salute; li rifiuto come persona perché tendono a monopolizzare il mercato. La nostra azione come consorzio è di opporsi alla globalizzazione, questo si; non perché la globalizzazione sotto il profilo mio abbia dei particolari concetti, ma è chiaro che il piccolo produttore rispetto alla globalizzazione è un elemento assolutamente perdente. quindi io non condivido l’OGM, nell’agricoltura per questo motivo etico, dal punto di vista mio e crea una sproporzione di carattere economico, non c’è difesa, allora  XXX la lotta all’OGM, però l’OGM nell’ agricoltura, viene dal settore farmacologico, secondo me non fa male all’organismo, non è stata mai dimostrata questa cosa..

In Toscana, tutto quello che è biologico, tutto quello che è prodotto tipico, è proibito OGM.

Va beh, una cosa, secondo me, se non ci sono altre domande, che.. non so se avete parlato un po’ della cultura toscana sotto il profilo di queste tematiche qui, cioè per esempio quello è un aspetto molto importante per noi: come nascono e come vengono applicate le leggi che poi gestiscono questi modelli. Per esempio, la Toscana, in questo momento ha, sul panorama italiano, non europeo, ma italiano, ha esasperato il concetto. Esasperato tra virgolette, ma per noi va bene, ha esasperato il concetto ambientale ed ecologico, cioè le leggi più rigorose in questo momento sul panorama italiano, cioè le leggi in Italia, a differenza di altri stati europei, ci sono le Leggi Quadro europee che vengono rimandate alle regioni e le regioni le applicano. Le regioni hanno facoltà, all’interno dei vari meccanismi di applicazione, di avere un’applicazione che diciamo può essere al massimo o al minimo e, chiaro, questo è consentito. La regione Toscana, sotto il concetto di ecologia e di ambiente, sta ormai da 10 anni applicando i massimi in tutte le situazioni, quindi ha proibito gli OGM, tutti i regolamenti che regolano il nostro lavoro come attività consortile hanno sempre l’aspetto di carattere ecologico-ambientale, e poi ci sono grandi, enormi investimenti comunque grandi parti del bilancio regionale viene dato a tutela di quello che si diceva prima, a tutela della montagna , delle piccole produzioni, dei piccoli turismi. Purtroppo, e questo lo dico, sono concetti per noi quotidiani, ma per gran parte della nostra regione sono assolutamente innovativi. Perché? Perché l’innovatività in questo tipo di lavoro sta nell’umiltà, cioè nel capire, nel lavorare con la gente; purtroppo la società, almeno da noi, si è stratificata: Chi fa banca fa banca, l’amministrazione pubblica fa l’amministratore, ecco . le leggi spingono perché questo accada, cioè noi, oggettivamente,  lo stiamo facendo perché probabilmente fa parte del nostro Dna, però non è un meccanismo così diffuso, cioè, c’è ancora resistenza, è chiaro che l’incentivo economico è un incentivo grosso, cioè, per ottenere certi contributi  devi fare questo e devi rispettare certe cose, ecco. Non vi nego che nel nostro lavoro, e spero che non vi sia sembrato solo poesia, noi troviamo un grosso partner nella regione Toscana che praticamente ci consente di avere una grossa mano, come sul concetto del bello dell’edilizia. La Toscana, sì, potrà essere deturpata ancora, è chiaro che il progresso porta a distruggere le cose, ma comunque tutto è assolutamente monitorato, cioè non accadrà mai più quello che è accaduto nel Lazio o in altre regioni del meridione dove l’abusivismo..sono fenomeni indubbiamente presenti, ma assolutamente controllati, veramente rigorosi. Da noi, nella nostra zona, il corpo di stato che ha più potere di tutti sono le guardie forestali, quindi veramente, al di là della polizia e dei carabinieri, chi fa il nostro mestiere di agricoltori a noi ci fa più paura la guardia forestale che non la guardia di finanza, che non i carabinieri, che non… quindi, veramente , hanno un potere incredibile. Considerate che qualsiasi cosa accada da noi , sotto il profilo ambientale, è penale, non è amministrativo, è penale; cioè, da noi, se uno casualmente per fare la strada butta giù quattro ceppaie di quercia, che ce ne abbiamo a centinaia di migliaia di ettari, va in tribunale davanti al giudice. Quindi , ci ha comunque la fedina penale macchiata e comunque ripristina la cosa, cioè, quindi però questa è tutela di tutti, sono leggi che in certi casi sono restrittive, però ben venga che ci siano, perché sennò la Maremma, ce la giochiamo.

Io spero di non avervi stancato, perché la mia immagino sia stata un’esposizione mista tra tanti settori che quello che io faccio tutti i giorni, però .

 

 

Angela Barwig, Università di Erlangen- Norimberga: “…La mia America e la sua…- La canzone d’autore italiana e il mito dell’America”

 

Prima di tutto, grazie per l’invito e per l’occasione di poter parlare della canzone d’autore italiana e oggi in modo particolare, della canzone e il mito dell’America. Quindi comincio con una breve introduzione: cos’è la canzone d’autore.

La canzone d’autore italiana nacque verso la fine degli anni ’50; l’anno 58 era decisivo  per la costituzione del nuovo genere per due eventi: il primo più importante ma poco noto fu la costituzione dei canta cronache, un movimento di critici , letterati, musici e ricercatori per l’innovazione della canzone italiana, ormai sofferente di uno sviluppo stereotipato caratterizzato da una stasi nei testi, nella musica, e nei contenuti e pure sottoposta ai cattivi gusti del puro consumo e ridotta ad essere pura ‘musica gastronomica’. Questo ‘Musica Gastronomica’ è un termine di Umberto Eco che usò in un famoso saggio del ’64 . Uno dei fondatori dice (cito): ‘La prima idea di canta cronache ci venne in mente perché eravamo sinceramente stufi e delusi della pessima qualità delle canzonette presentate al Festival di San Remo, dalla ripetitività dei loro testi – le rime amore-cuore- e dalla banalità delle loro musiche.’, dice Michele Straniero, uno dei fondatori dei canta cronache.

Nello stesso periodo, questo solo in parentesi, anche scrittori e intellettuali italiani, con posizioni culturali molto divergenti come Pier Paolo Pasolini da una parte, e Dario Fo, Italo Calvino, Umberto Eco dall’altra parte, erano interessati ad una rinnovazione della canzone.

Il secondo evento importante per la costituzione del nuovo genere è notissimo, invece, ed è anche del ’58. E questo fu la canzone atipica ‘Nel blu, dipinto di blu’, anche conosciuta con il titolo ‘Volare’ di Domenico Modugno che vinse al Festival di San Remo nel ’58, distinguendosi dalle solite canzonette per il testo, la musica e per l’interpretazione, cioè i tre elementi costitutivi per la canzone d’autore che si sarebbe sviluppata qualche anno dopo. Influenzati dalla chanson francese, e dal folk song americano, i primi cantautori cominciarono poco tempo dopo , nei primi anni ’60 , a scrivere e a interpretare le loro canzoni, molti di quelli cosiddetti classici, che incisero i primi dischi negli anni o nei primi anni ’70 come (alcuni nomi) Francesco Guccini, Francesco De Fragori, Roberto Secchioni, Lucio Dalla , Franco Battiato, o Paolo Conte sono presenti fino ad oggi, mentre altri due dei più importanti, cioè Fabrizio De Andrè  e Giorgio Gaber, sono morti. Sebbene nelle opere di tutti i cantautori ci siano delgi aspetti comuni o almeno simili, come per esempio la poeticità dei testi, l’impegno politico e sociale, temi preferiti come per esempio l’America, ogni cantautore ha una sua poetica inconfondibile e personale e puro uno stile di interpretazione originale. Allora, cos’è un cantautore? Riporto qui una definizione vecchia degli anni ’70: ‘ in senso strettamente tecnico, si definisce cantautore chiunque interpreti le composizioni che ha scritto  interamente o parzialmente’ ; ma nell’uso corrente il termine è applicato a quanti, tra cantanti e insieme autori, dedicano particolare attenzione ai testi dei brani che propongono. E Roberto Vecchioni, che è l’unico ad essere nello stesso tempo cantautore e teorico del genere letterario musicale teatrale, perchè lui insegna al DAMS di Torino, lui precisa: ‘La canzone d’autore assume  dalla tecnica poetica alcune figure retoriche , metafore, analogie, sinestesie ma ne rende più immediata e popolare l’interleggibilità e la fruizione, accorciando le distanze tra i due campi di lettura delle metafore, e delle allegorie. Essa, la canzone, elimina inoltre le componenti spaziali e temporali indefinite, collocando la storia , le emozioni, i sentimenti descritti in coordinate per lo più reali. Anche dove si fa ricorso all’immaginario, si tratta di un immaginario collettivo, ’già condiviso da chi ascolto e dunque facile a riconoscersi. Alcuni, come Franco Fortini, sostengono persino che la canzone d’autore sia la poesia vera e propria del nostri tempi. Cito Fortini; lui dice: ‘La canzone in particolare, sembra essere l’erede più diretta della poesia tradizionale; mentre mantiene da una parte l’uso della parola, in sequenze diverse, dall’altra sottolinea il suono, servendosi della musica come di un mezzo in più per evidenziare le immagini e costruire il ritmo, guadagnandoci sicuramente in efficacia e in  immediatezza, perdendoci talvolta in polivalenza e complessità di significati.’

Comunque sia, la canzone d’autore è senza dubbio un genere letterario, musicale e teatrale costituito da 3 elementi fondamentali, cioè testo, musica e interpretazione personale del cantautore con forte valore culturale, sociale e politico e quanto impegnato e soprattutto, secondo me , poetico.  In seguito vorrei dare un esempio di un tema fortemente presente nella canzone d’autore dagli inizi fino ad oggi. L’america e il suo mito, vengono rispecchiati non solo nella letteratura tradizionale o nel film, come si sa, come è ben noto, ma anche in campi diversi e in maniere molto differenti, secondo la poetica di ogni singolo cantautore nella canzone d’autore italiana.

 

Secondo punto. Alcune note sullo sviluppo del mito dell’America in Italia.

Il mito dell’America nacque come è ben noto, in Italia, a partire dagli anni ’30 e ’40, quando intellettuali e letterati cominciarono a scoprire la cultura e la letterature dell’oltreoceano, attraverso le proposte e le traduzioni di autori come Cesare Pavese, Elio Vittoriani, Mario Soldati, Fernanda Pivano e tanti altri per la maggior parte intellettuali antifascisti e spesso comunisti, l’ America diviene un simbolo affascinante delle diversità e un modello di cultura alternativa a quella del fascismo. Già subito dopo la guerra, gli stessi intellettuali critici che avevano introdotto l’immagine positiva, si mostrarono meno convinti dell’anti-modello del modello , rendendosi conto dell’ambiguità e delle contraddizioni della civiltà americana e il mito cambiò. Ora cito Cesare Pavese; Pavese dice verso il 1930: ‘Quando il fascismo sembrava essere la speranza del mondo, accadde ad alcuni giovani italiani, di scoprire nei suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato de mondo e insieme giovane e innocente. Per qualche anno, questi giovani lessero e tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto, che costrinse il regime a tollerare per salvare la faccia . A questo punto, la cultura americana divenne, per noi, qualcosa di molto serio e prezioso, divenne una sorta di grande laboratorio dove con altre libertà e altri mezzi, si perseguiva lo stesso compito di creare un gusto, uno stile, un mondo moderno che forse con minore immediatezza, ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano. Ci si accorse in quegli anni che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggior franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. Ora il tempo è mutato, e ogni cosa si può dirla, anzi è più o meno stata detta. Ad essere sinceri, insomma, ci pare che la cultura americana abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace furore che la metteva all’avanguardia del  nostro mondo intellettuale, e si può non notare che ciò coincide con la fine, o sospensione della sua lotta antifascista.’ (fine della citazione)

La revisione del modello americano, che Pavese constatò nel suo articolo  ‘Ieri e oggi’ , scritto per l’Unità nel ’47, è esemplare e tipico per dubbio e ambiguità con la quale vennero considerate l’America e le sue immagini dopo la fine del fascismo. Con gli anni, l’America dell’ante guerra , lontana, primitiva e intatta, l’America del sogno e più spesso per non letterati della speranza lavorativa acquistava più prosaiche e concrete dimensioni, tentava un modello di sviluppo, un termine di confronto reale. Gli stessi autori che avevano creato il mito, cominciarono ora a dubitarne, seguiti dalle giovani generazioni nate negli anni ’30 dopo e questi sono appunto i cantautori, schierati a sinistra, contrari al sistema economico e politico degli Usa, ma influenzati dallo spirito di Pavese e dell’Americana di Vittoriani e simpatie dalla cultura diversa dall’America che si diffuse prima attraverso i soldati americani e poi attraverso i mass-media anche nella vecchia Europa.

Una citazione di Stefano Pivato, uno storico che si è anche occupato della canzone d’autore, lui dice certamente a partire dalla seconda metà degli anni ’40, uno  dei miti più presenti nell’immaginario degli italiani è quello dell’America:  ‘Si tratta di un modello largamente presente nella cultura popolare e la cui costituzione contribuiscono principalmente  i prodotti della cultura di massa. Attraverso la ricezione post fascista degli altri scrittori, che avevano introdotto l’immagine americana da parte delle nuove generazioni, ma anche nel segno della guerra fredda, e della ricerca di alternative, spesso comuniste, contro il capitalismo americano, il mito dell’America non soltanto restò presente nel dopoguerra fino ad oggi, ma si sviluppò e variò continuamente, entrando anche nella cultura di massa, nella letteratura, nel film e , appunto, nella canzone.’

Grandiosa e potente, tutto e niente, il bene e il male, questa è una citazione che potete poi trovare sul foglio nella canzone per Silvia di Guccini, una solo per dirlo, anche nella canzone d’autore, l’america (e quando ora dico l’America, lo dico sempre in virgolette, ovviamente) spesso non è un paese concreto e reale, ma la proiezione di aspettative, sogni, utopie. Lo stesso tempo ammirata e criticata, in seguito vorrei dare alcuni esempi delle rappresentazioni dell’immagine dell’America nella canzone d’autore italiana tra gli anni ’60 e oggi  e il modo nel quale fu sottoposta a processi di trasformazione e alterazione, concentrandomi sull’eterogeneità del mito americano, dell’antagonismo tra identificazione e estraneità perchè c’è sempre questo bipolarismo nei cantautori.

 

Dunque. Primo Punto: canzone d’autore e letteratura. Americana

Appoggiandosi spessi in primo luogo alla cultura letteraria, i cantautori esordienti degli anni ’60, come Fabrizio De Andrè o Francesco Guccini, non solo erano influenzati dalla musica americana, soprattutto da Bob Dylan che diventò un nuovo mito vero e proprio e lo è fino ad oggi, ma anche da autori americani importanti per la storia e la letteratura sociale come Edgar Lee Masters, oppure rappresentanti dell’attuale Beat Generation degli anni ’50 e ’60. Non è un caso che una e delle canzoni d’autore più emblematica degli anni ’60, che espresse i sentimenti dei giovani già prima del ’68, citi i primi versi iniziali del poema della nuova poesia americana; quando Francesco Guccini mise all’inizio della sua canzone Dio è morto interpretata e portata al successo prima dai Nomadi e da Caterina Caselli , una variazione delle parole del famoso Howl di Ginsberg: ‘Ho visto la gente della mia età andare via’ (c’è anche sul foglio), Guccini rievocò così lo spirito di ribellione della sua generazione, opponendosi alla nostra stanca civiltà e ai miti eterni della patria, dell’eroe e così via. Al contrario del poema di Ginsberg, però, ‘Dio è morto’ è uno specchio generazionale che venne censurata dalla Rai,  ma trasmessa da Radio Vaticana e approvata dal Papa Paolo VI, finisce con ottimismo trasformando la morte nella resurrezione di un dio emblematico, con la minuscola, un dio laico, simbolo dell’autenticità , autenticità dice Guccini stesso. Passando dalla prima persona al noi collettivo, la canzone, la trincea di resistenza etnica, umana e civile rispetto all’immoralità politica dominante nel mondo e in Italia, termina con versi di speranza. Ora la ascoltiamo. (canzone Dio è morto). Una registrazione del ’79 , mi pare. L’esplicito riferimento alla letteratura americana del quale dio è morto è solo un esempio e caratteristico delle prime canzoni di Francesco Guccini, scritte spesso in origine per altri interpreti soprattutto per l’Equipe 84 e per i Nomadi e incise poi dallo stesso  Guccini nel suo primo album Folk Beat numero uno del ’67. Mentre in canzoni come  ‘Statale 17’ , una trasposizione emiliana (perché Guccini è di Bologna) del mito hipster, un blues, figlio bastardo, tratto della Route 66  di Kerouac che dalla Highway 61 di Dylan si notano i riferimenti alla letteratura contemporanea, come al romanzo ‘On the road’ di Kerouac, l’influenza della nuova canzone americana e del suo protagonista principale , Bob Dylan, soprattutto del suo album For your willing del ’63 , è evidente in tutto l’album di Guccini da canzoni come ‘Noi non ci saremo’, che ricorda ‘Mr Tambourine man’, fino a canzoni come ‘Auschwitz’, che è una delle canzoni più importanti di Guccini. Ancora più diretto e esplicito nel suo riferimento ad un autore americano è Fabrizio De Andrè, che concentrandosi sui temi dell’invidia e della scienza, adattò alcune poesie di Spoon River Anthology di Edgar Lee MAsters, dedicandole nel ’71, un intero concert album. Non al denaro, non all’amore, non al cielo. In questo album, uno degli esempi più significativi per il con concetto poetico di Fabrizio De Andrè, è cantare il destino dei diversi, degli emarginati e dimenticati e pure morti.

Il cantautore genovese fa parlare alcuni dei protagonisti  dell’antologia resa nota da Cesare Pavese negli anni ’30 e tradotta da Pivano, da Fernanda Pivano nel 1942 che .’dormono sulla collina’, dando voce ad un matto, ad un giudice, un blasfemo, un malato di cuore, un medico, un chimico , un ottico e infine al suonatore Jones. Scrive Fernanda Pivano, la cui traduzione aveva ispirato De Andrè. Cito : ‘La sua rilettura dell’Antologia di Spoon River aveva molto migliorato i versi di Masters, che pure nel momento in cui furono scritti avevano una carica eversiva straordinaria e avevano anche la durezza di quelli che scoprono gli argomenti  e i temi scottanti e restano fedeli ad un’infinita protesta fatta di tenerezza e insieme di spavento per la realtà della vita. Attraverso le epigrafi sepolcrali di un cimitero di un paese nordamericano, individui con nomi e cognomi nell’antologia di Lee Masters, diventati prototipi nell’album di De Andrè, i morti di De Andrè trasmettono un messaggio universale.’ Dice De Andrè: ‘Riscontrai nei personaggi qualche cosa di noi; mi parve che in quella collina popolata di morti si parlasse il linguaggio di una verità che i vivi non possono esprimere e che Lee Masters, con una lucidità insieme cronistica e profetica, avesse dato voce ai mille scheletri che la società d’allora, ma anche quella  di oggi , nasconde nei propri armadi.’ Con il suo adattamento a Lee Masters, De Andrè ricordò un’altra volta, con Canzoni Corsare e anticonformiste, l’importanza della coerenza e di un comportamento vero e autentico. Emblematici per l’idea della libertà e per l’identità del musicista, sono i versi del ‘Suonatore Jones’ che chiudono l’album. (ascolto canzone Il Suonatore Jones).

 

Il prossimo aspetto da approfondire è la traduzione delle canzoni, soprattutto quelle di Bob  Dylan, e Leonard Cohen. L’importanza dei songwriters nordamericani per la canzone d’autore italiana si rispecchia anche nell’impegno di molti cantautori italiani che tradussero i loro testi. Non è sorprendente che fossero soprattutto le canzoni di Dylan e Leonard Cohen ad essere tradotte in Italia dai cantautori dato che loro influenzarono anche fortemente lo sviluppo della canzone d’autore in Italia. Al contrario delle prime cover di scarso valore, superficiali e banalizzanti e ideologicamente distorte, con fini nettamente commerciali , le traduzioni dei cantautori principali riuscirono a raggiungere una simile qualità dei testi originali. Fra i cantautori italiani è principalmente Francesco De Gregari che traduce, fin dagli anni ’70, canzoni di Dylan, il quale ispirò, anche considerevolmente,  la sua opera .  Dalla collaborazione di De Gregori e De Andrè, che adattò con genialmente tante opere di altri artisti per le sue canzoni, e che tradusse soprattutto chansonniers francesi, come George Brassens, ma anche Dylan e Cohen per esempio, ???, nacque la traduzione di Desolation Road, in italiano Via della Povertà, uscita nell’album Canzoni di De Andrè nell’anno 74, nel quale si trova anche una traduzione di Susanne di Cohen, splendidamente interpretata da De Andrè. De Gregari proseguì il filone delle traduzioni di Dylan fino ad oggi;  negli ultimi decenni nacquero adattamenti notevoli, che furono come per esempio ‘I shall be released’ interpretati da De Gregori stesso, oppure da colleghi come Mimmo Lo Casciulli. Congeniale la traduzione di ‘If you see her, say hallo’ , ‘Non dirle che non è così’ nella versione di De Gregori, che nel 2003 fu pure inserita nella colonna sonora del film ‘Masquered?? And anonymus’ con Bob Dylan come protagonista. Pur cambiando singoli versi e parole e variando la metrica e il ritmo, mantiene il livello linguistico e stilistico e rispecchia fedelmente la malinconia della canzone di un amore perduto. Mimmo Lo Casciulli  pubblicò, nel ’98, un album che contiene, con poche eccezioni, solo le sue traduzioni e quelle di (?)‘The future: a series of dreams’ realizzate da De Gregori di canzoni di famosi songwriters americani. L’album Il Futuro, un riferimento all’omonima canzone di Leonard Cohen, è un esempio di traduzioni adeguate e riuscite che cercano di essere fedeli ai testi originali e di conservare il loro spirito.  L’album colloca adattamenti di canzoni ci Cohen , Dylan, Neil Young, David Byrne, Randy Newman o Tom Waits che diventano, in questo modo, un omaggio alla tradizione americana della nuova canzone. Le traduzioni di canzoni dei songwriters americani più significativi mostrano una ovvia preferenza dei cantautori italiani per i fondatori del genere, e nello stesso tempo per i più originali , innovativi e influenti  poeti-cantanti , al di sopra di tutti Dylan e Cohen, a cui anche Roberto Vecchioni dedicò una canzone con l’omonimo titolo , perché scritta in stile coheniano, la canzone si chiama appunto ‘Leonard Cohen’ . A questi cantautori americani che sono diventati ormai miti della canzone contemporanea, nonché considerati poeti e   ?? dell’altra America. La scelta di testi originali complessi e conosciuti da parte dei cantautori italiani, mostra che lo scopo delle loro traduzioni non è in primo luogo la notificazione di canzoni americane, ma un’appropriazione culturale, una assimilazione del diverso, una rilettura e una metabolizzazione, per proporre, nello stesso momento , una interpretazione della canzone originale e anche un confronto con il collega americano.

A questo punto ho pensato che non ha molto senso sentire una canzone, perché poi dovremmo sentire anche l’originale , quindi andiamo al prossimo punto, che sarebbe emigrazione e esperienza americana.

Pur essendo un posto immaginario, creato dai sogni, ma poco concreto, il mito dell’America fu anche nutrito da conoscenze reali del mondo americano. Spesso l’esperienza dell’emigrazione che fin dall’800 era fortemente presente nei canti sociali e popolari, che influenzarono anche la canzone d’autore, segnò notevolmente l’immagine dell’America, come anche nel caso di Guccini, il cui prozio, Enrico, detto zio Merigo, emigrò negli Stati Uniti per fare il minatore e tornando poi nel suo paese , Pavana. Già nell’infanzia, Guccini fu influenzato dalle impressioni dell’America attraverso le esperienze del prozio e della presenza di soldati americani dopo la liberazione, che si mescolarono poco a poco con la controcultura americana appena arrivata in Italia durante l’adolescenza e trasmessa soprattutto attraverso fumetti e film. Nella canzone AMERIGO, dedicata al prozio, del quale canta di essere stato il mio volto, il mio specchio, Guccini evoca i ricordi. Ora, ho la canzone, piuttosto lunga…di Guccini….

L’immagine piuttosto positiva dell’America cambiò per Guccini negli anni ’60 e soprattutto durante il suo primo viaggio reale negli Stati Uniti, nel ’70;  Cento Pennsylvania Ave, una canzone malinconica, quasi d’amore, e quindi tipica per Guccini, ricorda le delusioni private e politiche legate all’idea e alla realtà degli USA. Cito solo alcuni versi perché sarebbe troppo lungo ascoltare tutte le canzoni di Guccini; quindi  dice per esempio: ‘La strada della Pennsylvania Station sembrava attraversasse il continente come se non tornasse più all’indietro e andasse sempre avanti ad occidente, tra tombe, ferro, vetro, pianura, pali e  gente e indietro invece in fretta ci tornai, ma in certi miei momenti forse oziosi mi chiedo dove sei e cosa fai e come passi i tuoi giorni noiosi , io che non ti risposi, in questa casa mia , sai e non sai , e immagino tu  e lui, due americani sicuri e sani, un poco alla John Wayne , portare avanti miti kennediani e far scuola agli indiani , amore ecologia lassù nel Maine; e là a insegnare alla povera gente, per poco o niente, vita quasi pia, fingendo o non sapendo proprio niente di quello che può ancora far la CIA, santi per l’occidente per gli Usa e così sia. ’

Anche Francesco De Gregori dedicò al tema dell’emigrazione una serie di canzoni. La più famosa, Titanic, dall’omonimo album dell’82, non accenna soltanto la nota storia del naufragio che può essere letta come un’allegoria universale, ma narra anche il destino e le speranze degli emigranti italiani sul transatlantico. Come succede spesso nella sua opera, De Gregori si interessa, anche in Titanic, alla storia della povera gente, alle ‘ragazze di prima classe che per sposarsi si va in America’ e ai ‘ragazzi di terza classe che per non morire si va in America’. Nella sua narrazione che si svolge sempre con ironia e con simpatia, il sogno americano non si realizza, ma finisce prima dell’arrivo; il viaggio  va male anche per un fuochista il cui destino viene descritto minuziosamente nella canzone ‘L’abbigliamento di un fuochista ’ . Non è il naufragio però che viene narrato, ma la fatica della sua vita quotidiana. Il fuochista cui –cito – ‘rubano la vita quando li mettono a faticare’ è ‘un figlio già dimenticato che lavora nelle caldaie sotto al livello del mare’ ‘in questa nera nera nave che dicono che non può affondare’. Come si vede anche in canzoni come ‘Tutti salvi’dell’’85, oppure in ‘Natale di seconda mano’ del 2001, che parla dell’immigrazione in Italia, la direzione contraria , De Gregori si interessa soprattutto ai motivi e al destino degli emigranti e non tanto alla meta della migrazione. Il viaggio come esperienza esistenziale è più importante dell’america come punto d’arrivo. (…ascoltiamo titanic- come si chiama la canzone di De Gregori sul Natale? – Natale di seconda mano , dell’album Amore nel pomeriggio che è l’ultimo album di De Gregori e Titanic, anche se finisce male è una canzone molto allegra).

(Viene da Marconi…trasmissione della Radio, perché Marconi..)

Un altro aspetto è l’America come sogno, come avventura. L’America come meta dei sogni è metafora del sogno , spesso un luogo utopico e irreale, non legata ad una determinazione geografica, ma  un posto fantastico ‘da qualche parte tra la Via Emilia e il West’, un west che può essere immaginato tanto in giochi sui parchi delle Pianura Padana, quanto nella figura fantastica di Buffalo Bill, come mostrano gli omonimi album di Guccini e De Gregori che si chiamano appunto ‘Tra la via Emilia e il west’ e ‘Buffalo Bill’. Nella canzone ‘Anna e Marco’ di Lucio Dalla del ’78, per esempio, l’America è irraggiungibile e diventa il simbolo di una fuga impossibile per una giovane coppia di periferia. Dice, fra l’altro, “ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna, che li guarda, anche se ride, a vederla mette quasi paura”.

Per Roberto Vecchioni, invece, nella sua canzone, Alamo, del ’99, il luogo della battaglia storica e mitica del Texas del 1836, è rappresentazione di un rifugio privato e intimo, dove la coppia vive giorni felici, chiusa come in una fortezza. (Ascolto canzone Roberto Vecchioni – Alamo).

Negli anni ’70, accanto all’immagine del capitalismo e del consumismo americano, si sviluppò il mito dell’America anche come simbolo di libertà. L’America della controcultura e della contestazione, soprattutto quella della California, come nuova frontiera di un universo di libertario e trasgressivo. Due canzoni di Gianna Nannini sono sintomatiche per questo filone della canzone italiana, emerso dopo il ’68, che si concentrano sull’idea della libertà; nell’omonima canzone, l’America diventa una metafora per la libertà sessuale assoluta. Cito alcuni versi: ‘Fammi sognare, lei si morde la bocca e si sente l’America; fammi volare, lui allunga la mano e si tocca l’America ; fammi l’amore, forte sempre più forte, come fosse l’America ’. Mentre America si riferisce esplicitamente alla sessualità e all’autoerotismo per il quale l’America  è il sinonimo dell’emancipazione che permette lo scatenamento sessuale, la liberazione erotica, la canzone ‘California’ diventa il simbolo della libertà individuale e il sogno trasgressivo sul quale si concentra la speranza generazionale di scappare da una realtà repressiva. Nonostante il chiaro riferimento alle progettazioni di vita alternative che la California degli anni ’70 rappresentò, lo stato americano è più di un luogo geografico, o di un’immaginazione lontana, ma raffigura la possibilità o la realizzazione della libertà da parte della propria generazione. Simile a De Gregori, per il quale nella sua canzone ‘Atlantide’ , la California è un posto utopico dove si  possono ‘aspettare le nuvole’ , Gianna Nannini mette in rilievo le aspettative e i sogni generazionali nonché universali:  “siamo noi la California, siamo noi la libertà”. (Ascolto canzone)

 

Allora, siamo arrivati all’ultimo punto: critica e protesta.

Verso la fine degli anni ’60, soprattutto per la guerra del Vietnam e il ’68, l’atteggiamento verso gli Stati Uniti cominciò a cambiare radicalmente ; malgrado il loro appoggio a modelli della controcultura americana, come la libertà e la trasgressività che si svilupparono parallelamente, le giovani generazioni criticarono con insistenza il mondo e il sistema americano, i suoi lati oscuri e contestati come il capitalismo, il consumismo, l’imperialismo, la discriminazione delle minoranze, la pena di morte, per nominarne solo alcuni, sono fin da allora nel mirino della protesta che entrò anche nella canzone d’autore, l’America e i suoi miti divennero più ambigui che mai. Legata all’attualità, e motivata da un  caso concreto, cioè quello di Silvia Baraldini, considerata prigioniera politica negli Stati Uniti, è Canzone per Silvia del ’93, una delle canzoni di accusa contro gli USA più influenti; la canzone segnò, per Francesco Guccini, in modo definitivo la revisione del suo atteggiamento rispetto all’America, ormai trasformata in un anti-mito e vista con sempre più disprezzo. In Canzone per Silvia, che fece parte di ogni concerto di Guccini, fino al suo ritorno in Italia che avvenne , mi pare , nel  ’99, sì , nel ’99 la Baraldini tornò in Italia, Guccini riepiloga le ambiguità dell’America diventata oramai il simbolo dell’oppressione. (Ascolto Canzone)

Mentre la maggior parte delle canzoni critiche mette in discussione l’America dei nostri giorni, Fabrizio De Andrè decostruisce la storia americana, mettendo luce su alcuni dei suoi capitoli più oscuri. In Fiume Sand Creek dell’81, De Andrè, coerente al suo cantare il destino degli oppressi, racconta lo sterminio degli indiani , opponendosi ai miti della storia americane, alle leggendarie avventure del West. Non è un caso che De Andrè abbia messo un episodio della storia americana che narra, metaforicamente , le persecuzioni delle minoranze e rammenta così tutte le vittime della storia. Già nella canzone Rimini del ’78, il cantautore genovese aveva rammentato Cristoforo Colombo e la sua avventura che considerò –cito De Anrè- ‘l’inizio di un genocidio’, mettendo versi amari nella sua bocca. Cito alcuni versi da Rimini: “ per un triste re cattolico, le dice, ho inventato un regno, e lui lo ha macellato su una croce di legno ; e due errori ho commesso, due errori di saggezza, abortire l’America e poi guardarla con dolcezza, ma voi che siete uomini sotto il vento e le vele, non regalate terre promesse a chi non le mantiene”. Ora per finire, ho una piccola conclusione, ascoltiamo ..Fiume Sand Creek (Ascolto canzone)

Una piccola conclusione. Già nel 1972, Francesco Guccini cantò in Incontro una delle canzoni più significative dei ‘nostri miti morti ormai’, fra i quali, quelli americani erano fra i più influenti  per la sua generazione, restando importanti fino ad oggi. Anche se non a torto , Guccini parlò nello stesso album di un ‘vuoto mito americano di terza mano’; sognata,criticata e contestata, l’America come luogo della diversità culturale, modello di vita alternativa, terra di immigrazione, mondo dei sogni , metafora del west e dell’avventura, simbolo del capitalismo, paese ipocrita e prepotente, divenne così anche per la canzone d’autore italiana un punto di riferimento rilevante, nonché un mito multiforme e ambiguo. Grazie.

 

CASSETTA 6. ADRIANA

 

( le sottolineature sono delle varianti suggerite per alleggerire la forma, senza fare sostanziali cambiamenti lessicali e strutturali

Le parentesi suggeriscono di eliminare parole che in un contesto dialogico funzionano, ma che sono eliminabili nella scrittura senza molti danni)

 

Siri Nergaard: “Intercultura: tradurre la cultura italiana

 

Il titolo dell’intervento non ha nessuna pretesa di tradurre per voi la cultura italiana, cosa che sicuramente farete meglio di me. Di fatto è quello che fate nel vostro mestiere: insegnando l’italiano nelle scuole: siete dei traduttori della cultura italiana, mediatori della cultura e quindi traduttori. Già sentite che il modo in cui uso il concetto di traduzione è piuttosto vasto, partiremo dalle diverse definizioni che possiamo dare a questo concetto, riflettendo con voi intorno a questo concetto collegato all’idea di interculturalità, sperando che possa dare qualche  spunto di riflessione. Non si ha nemmeno la pretesa che sia qualcosa, per esempio, utilizzabile nella didattica in modo diretto, ma forse in modo più indiretto è una riflessione intorno a questo concetto, alla problematizzazione intorno a questo concetto legato all’interculturalità che può essere utile.

(Perché) Avendo come tema centrale o dominante di questo seminario l’interculturalità parlare di traduzione è perché la traduzione è uno dei luoghi in cui si svolge l’interculturalità, anzi il luogo dove si svolge l’interculturalità per definizione.

Non ci può essere traduzione senza interculturalità e viceversa. Ma vediamo anche qui che «interculturalità» può avere diverse sfumature, nel nostro contesto una sfumatura chiara e diretta è quella Italia-Germania, sfumature poi all’interno dell’italianità e degli aspetti sia linguistici che culturali.

In questa premessa c’è già l’idea che tradurre è molto più che sostituire una parola in una lingua con una parola in un’altra lingua. È molto più che trasferire meccanicamente un testo scritto da una lingua in un’altra lingua, cercando di trovare un equivalente.

L’equivalenza è un concetto che spesso è stato molto dominante in (alcuni, recenti?) studi sulla traduzione. Quando traduciamo dobbiamo produrre l’equivalenza e dagli studi più recenti sulla traduzione è diventato un concetto non solo discusso, ma addirittura discutibile.

Perché che cosa significa creare un’equivalenza? Forse quell’equivalenza a livello linguistico non ci può mai essere.

Invece potremmo dire che tradurre significa incontro fra testi. Non solo fra testi, ma anche fra culture, fra lingue e non soltanto due, ma possono essere coinvolte diverse lingue e diverse culture e quindi (sono) in ogni operazione di traduzione e interculturalità c’è un incontro tra due. È un confronto in cui due lingue e due culture si misurano e poi naturalmetne attraverso questo incontro emergono le differenze, le incommensurabilità, ma anche le vicinanze e le somiglianze.

È importante sottolineare quest’aspetto e non pensare che la traduzione sia un processo da qualcosa di fisso, che  ha nessun tipo di variabilità, che ha un significato fisso e identificabile, che dà a noi o noi andiamo a prendere e riceviamo, come se ci fosse a noi un arrivo quasi passivo, invece che uno scambio.

Insistere sull’incontro Cosa succede? Uno pensa che la lingua da cui andiamo a pescare rimanga una cosa fissa, (quella) definita, mentre noi riceviamo, ma nell’incontro c’è qualcosa che succede anche in noi. E nell’incontro c’è qualcosa che succede di ritorno. Forse l’effetto della traduzione  può avere un effetto di ritorno.

Solitamente non si pensa alla traduzione in questi termini, ma in termini di interculturalità arriviamo a pensare che ci sia un effetto di ritorno nell’effetto della traduzione. Il concetto di partenza è quindi questa interculturalità che è insita nella stessa traduzione e viceversa. Ed è quell’interculturalità che non può esserci senza traduzione che  è quel tramite che ci mette in contatto con la differenza,  con l’altro, con l’alterità e cioè con le culture e le lingue differenti.

Accennavo prima al fatto che non è sempre stato visto in questo modo. Di solito si  è parlato della traduzione come di un processo più meccanico e più diretto che  portava il traduttore ad essere uno schiavo- è una metafora frequentemente usata – del testo in questo lavoro disperato, nel cercare di produrre un testo equivalente cercando termini equivalenti.

Di più si è lavorato da quando gli studi sulla traduzione si sono staccati dalla linguistica, non sottovalutando l’aspetto della linguistica, gli studi  sulla linguistica ma pensando che la traduzione fosse qualcosa di più complesso, che non fosse soltanto una questione collocabile nell’aspetto linguistico interculturale.

Si pensa che la traduzione sia un processo di incontro fra testi, e anche qui «testi» viene usato in senso molto esteso, testi che sono prodotti ed espressioni culturali, quindi sono anche radicati fortemente nella cultura che li ha prodotti o nella quale sono prodotti.

In questo senso possiamo  dire che i testi sono culturalmente, (e) linguisticamente e temporalmente determinati e forse anche per questo (che) la produzione e l’incontro fra culture può essere così complicata, complessa e difficile perché non possiamo mai collocarci in quel tempo, in quel momento in quella situazione. I testi  sono prodotti nella cultura di partenza, portandoli nella nostra sono un’altra cosa per forza, perché sono determinati in modo diverso portandoli nella nostra situazione.

E lì arriva il momento difficile, ma anche affascinante, dove io credo che si possa riconoscere chi insegna un lingua, quel cercare di riconoscere la tipicità  storica, temporale, culturale e sociale di ciò che si cerca di trasmettere che sia una lingua, che sia un testo che si vuole tradurre eccetera, ma cercare  anche in qualche maniera di riuscire a mediare quel contenuto, quell’essenzialità, quella tipicità che si ritrova e riuscire a mediarla a trasportarla e inserirla nella propria cultura.

Anche a me è successo di insegnare la lingua straniera a stranieri e è proprio questo sforzo di riuscire  a inserirla e a mediare come dicevo all’inizio.

Non a caso in un (suo) recente libro di Eco, dedicato alla traduzione, il concetto chiave per definire la traduzione è quella della negoziazione, il negoziare si avvicina a quello che dicevo prima di mediare.

In questo concetto direi che c’è la presenza di due poli: per negoziare ci vogliono due entità, non puoi negoziare con te stesso, per dire. Il lavoro di traduzione, di portare una cultura dentro un’altra, la propria  è un dare e lasciare, un prendere e arrendersi ma riprendersi da un’altra parte, cioè come dicevo prima mediazione è anche negoziazione. Se accettiamo, se diamo per  non scontato ma per persa questa speranza  – che uno sempre potrebbe avere – di riuscire (nel) trasportare contenuti, culture o testi dentro la propria, se ci arrendiamo  all’impossibilità dell’equivalenza, se  accettiamo che questo – ahimè – non è possibile, forse dobbiamo pensare  che dobbiamo entrare in relazione e entrare in relazione comunicativa credo sia molto centrale  anche nel modo in cui all’interno di certi  studi, e poi vedremo, viene studiato al concetto di interculturalità.

C’è questa relazione che si stabilisce fra due o più culture nella quale, avendo accettato appunto che non possiamo neanche pretendere di creare un’equivalenza ma entriamo in relazione, quello che noi costruiamo è un’immagine  dell’altra cultura, una rappresentazione dell’altro testo nel nostro processo traduttivo. Non creiamo il testo o l’altra cultura, non lo ricostruiamo, ma ne creiamo un’immagine, ne costruiamo una rappresentazione. Questi concetti  sono arrivati all’interno degli studi sulla traduzione sempre di più attraverso l’incontro con gli studi culturali  cultural studies in senso generale dove sono molto centrali le pratiche culturali che rappresentano le altre attraverso delle immagini e attraverso delle rappresentazioni.

Questo per dire che non esiste o non c’è neanche la pretesa di ricostruire l’altro, di darne un’immagine perfetta che appunto non è immagine, ma è quasi l’altro. Qui c’è un’accettazione di questo ruolo, della rappresentazione, della costruzione di immagini.  E anche su quel concetto della costruzione di immagini ci ritorno verso la fine.

Se c’è qualcosa che non è chiaro  non è chiaro mentre parlo, io vado avanti ma vi prego di fermarmi se c’è qualcosa che non è chiaro o non vi convince. Perché potrebbe essere benissimo che ci sia qualcosa che non trovate assolutamente convincente e io sono qui anche per  cercare di convincervi ulteriormente, oppure accettare (anche) la vostra critica.

Dicevo prima che gli studi sulla traduzione in senso culturale sono diventati  una disciplina che ha una sua posizione a livello accademico, però è una disciplina piuttosto recente, nata intorno agli anni ’80. Gli studiosi dicono: noi esistiamo come vera disciplina, non  più sottodisciplina alla linguistica o alla letteratura comparata – e questo dagli anni ’80.

Dagli anni  ’80 esistono studiosi che si definiscono teorici della traduzione e molti di loro dicono  contemporaneamente che ha avuto luogo quasi immediatamente una svolta all’interno della loro disciplina allontanandosi molto dalla linguistica che definiscono una  svolta culturale, cultural turn dicono, all’interno della disciplina.

Dando per accreditato, stabilendo fortemente che ogni lavoro traduttivo, anche quello materiale  scritto di un testo, scritto in una lingua tradotto e scritto in un’altra lingua, è un’operazione  interculturale, non possiamo prescindere dal contesto culturale in cui è nato il testo, in cui era radicato il testo, non possiamo nemmeno prescindere dal contesto cultuale in cui tale testo viene inserito.

Ancora di più sottolineando il fatto che non è sufficiente per noi l’uso semplicemente del dizionario, ma c’è molto di più in quest’idea che tradurre significa comunicare a livello interculturale.

Uno di questi concetti è il riconoscimento di ciò  che noi e voi, lavorando e insegnando la lingua  avete a portata di mano ogni giorno, cioè della differenza profonda che c’è tra le lingue.

La differenza che c’è tra le lingue è tanto profonda che con i relativisti e i linguisti potremmo anche dire che forse le lingue sono talmente diverse perché pensiamo in un modo diverso, o pensiamo in un modo diverso perché le lingue sono così diverse. Sapete che in particolare quell’orientamento teorico e filosofico, riconosciuto come relativismo linguistico, era quello di alcuni antropologi (Sapir e Worf?) o linguisti antropologi che studiando delle lingue di popolazioni non ancora studiate, americani inizialmente,  (che) da Sapir e Worf  stabilirono questo dato che c’è un legame tra pensiero e lingua.

Io dico quello che dico perché penso in un’altra maniera  di quanto si pensi in un’altra cultura. Penso in un altro modo perché la lingua  mi obbliga a pensare in un altro modo.

Potremmo dichiararci relativisti o universalisti, che sarebbe l’opposto, dicendo: No, è pura superficie la differenza tra le lingue, in fondo i significati si incontrano su qualcosa di universale.

Io, come forse capite dalle mie parole, sono più incline ad un certo relativismo, anche se il relativismo ci porterebbe forse a riconoscere una certa intraducibilità. Perché se noi non pensiamo allo stesso modo, perché la nostra lingua ci vincola a pensare in altro modo e a parlare in un altro modo che non è solo la forma dell’espressione è diversa, cioè i suoni, ma anche i contenuti che stanno dietro a questi suoni sono diversi e il senso che diamo a questi suoni o a questi contenuti sono diversi, allora ci arrendiamo  e i significati non possono essere trasportati da un contesto a un altro.

Io, pur affermando che sono portata a una certa idea del relativismo linguistico, non dico però che la traduzione sia impossibile. Non trarrei la conclusione definitiva che allora ci arrendiamo e l’intraducibilità sia totale.

Credo però che in questo, quindi nell’interculturalità, nella differenza, e ovviamente come sapete nella riflessione filosofica, linguistica attuale, a partire dal post-strutturalismo, il concetto di differenza è molto centrale, credo che in questa differenza ci stia tutto il nostro interesse per la lingua dell’altro, per la cultura dell’altro.

Perché se non trovassimo questa cosa come una cosa intrigante, che c’è qualcosa che rimane e continua ad essere quasi inafferrabile nella differenza dell’altro, forse la nostra curiosità per imparare la lingua  dell’altro, per conoscere i testi dell’altro, non sarebbe così forte perché intanto forse saremmo soddisfatti delle nostre realtà che vediamo, pensando: Ma intanto è tutto uguale, è soltanto sulla superficie che è un po’ diverso.

Forse è perché avvertiamo, io spero, io credo, che c’è una differenza in più oltre la differenza evidente dei suoni e delle parole che ci porta a dover approfondire ancora, a dover conoscere quella lingua ancora, a dover andare in quel Paese ancora per capire ancora di più, com’è che dicono quella cosa, perché la fanno in quel modo, perché gli stili di vita sono così diversi.

È semplicemente perché siamo cresciuti in contesti culturali diversi o è perché c’è qualcos’altro di più profondo che magari è proprio quella che noi vorremmo cogliere per poi portarla dentro la nostra cultura, dentro ai nostri testi?

Questa rimane ed è quasi un tipo di riflessione un po’ diversa, ci avviciniamo a un tipo di riflessione quasi di ordine filosofico su cui forse non dobbiamo  soffermarci tanto. Ma è presente in qualche maniera, in qualche livello, non può che essere presente nel nostro riflettere sull’interculturalità e sulla traduzione quando dobbiamo scontrarci con l’intraducibilità non soltanto dei concetti e delle parole, ma anche delle forme di vita, degli stili di vita nell’interculturalità.

Per questi motivi, senza andare a prendere posizione su questa questione, quanto sia forte il legame tra pensiero e lingua, diversi teorici della traduzione dicono che l’incontro con l’altro non può che essere una certa manipolazione.

Noi pensiamo che la parola manipolazione abbia una certa connotazione negativa, ma qui non ha una connotazione negativa, è però un riconoscimento del fatto che noi traducendo un testo, incontrando una cultura, una lingua differente non possiamo evitare di manipolarla proprio per mediare, per negoziare, proprio per portarlo (il testo?) dentro la nostra cultura.

Quindi la questione diventa sempre di più: Ma quanto portarlo dentro la mia cultura?

Quanto devo, nell’interculturalità all’interno della società – questo è ovviamente presente -, quanto devo pretendere che lo straniero ospite nel nostro Paese si debba avvicinare a noi o quanto siamo noi che dobbiamo avvicinarci a lui?

Quanto dobbiamo pretendere che il testo si adegui a noi, alle nostre cose familiari, aspettative, oppure invece quanto siamo noi che dobbiamo accettare che ci sia manipolazione?

La manipolazione del testo è inevitabile, in qualche maniera ci deve essere, ma molta riflessione è intorno a quanta manipolazione si possa permettere.

Molti hanno voluto cercare di evitare di stabilire quanto la traduzione debba essere in un modo o nell’altro, quanto debba essere un avvicinamento a noi o il contrario, perché si rischia di stabilire delle regole che poi non sono mai utilizzabili o non possono mai essere seguite oltre a una situazione unica, specifica, di quel testo che abbiamo davanti o quella situazione di interculturalità. Ma difficilmente eventuali regole possono essere generalizzabili alle situazioni plurali o a tutte le situazioni.

Quindi molti tendono a cercare di evitare di stabilire la traduzione perfetta è così.

Intanto la traduzione perfetta non esiste e non è sicuramente in un modo perché – come sappiamo (che le traduzioni,) ed è anche in questo è un’altra dimostrazione che la traduzione è in qualche modo una manipolazione -,  esiste il fatto che noi traduciamo sempre in modi diversi in momenti storici, culturali diversi in cui ci troviamo.

È noto il fenomeno delle ritraduzioni, dei  nuovi modi di incontrare l’altro, di percepire l’altro.

Noi percepiamo gli stranieri in un altro modo perché certi stranieri sono già da molto tempo presenti nella nostra cultura o noi abbiamo visitato la cultura dell’altro tante volte, per cui lo conosciamo di più e lo percepiamo in un modo diverso, oppure noi traduciamo i testi oggi in modo diverso da come traducevamo quel testo degli anni ’40 dieci anni fa. Difatti sono molto comuni o frequenti le ritraduzioni, o l’esigenza che si sente all’interno di una cultura: Ormai questa traduzione non ci soddisfa più, è invecchiata, non è più quel modo in cui vogliamo leggere il testo di partenza, lo vogliamo ritradurre, lo vogliamo adeguare ai nostri gusti di oggi, alla lingua di oggi,  -spesso può essere una modernizzazione ovviamente -.

Adeguamento alla lingua che è in contunua evoluzione, quindi vogliamo adeguare i testi alla lingua di oggi, ma anche perché interpretiamo i testi specialmente i classici, li leggiamo, li interpretiamo, la critica è cambiata rispetto ai testi, quindi li leggiamo in maniera diversa da come li leggevamo dieci, venti, trenta, quarant’anni fa e quindi nasce quest’esigenza di rinnovare le traduzioni e cambiarle.

Dicevo che volevo anche affrontare la questione della traduzione o ricordare che all’interno dell’interculturalità ci sono riflessioni più che altro nell’ambito antropologico interessanti.

C’è stata una certa svolta all’interno degli studi dell’antropologia in cui gli antropologi hanno un po’ messo in discussione il proprio ruolo, l’antropologo che va nel Paese dell’altro, lo esamina, lo studia, se lo fa raccontare da un mediatore, da un informatore.

È una discussione: che tipo di operazione è quella che facciamo?

Alcuni studiosi, alcuni antropologi come (tala la sad?) James Clifford è molto famoso, Markus eccetera, (che) hanno riflettuto proprio sul ruolo dell’antropologo proprio in termini traduttivi, usando ovviamente in questo caso la traduzione in senso un po’ più metaforico.

Quello che noi facciamo andando in Paesi lontani, stranieri con culture molto molto diverse dalle nostre è un’operazione di traduzione culturale.

Ritorna di nuovo il ruolo o il concetto del mediatore. Loro interpretano e fanno proprio il discorso, la vita dell’altro e la traducono a noi in modo che diventi per noi comprensibile.

Anche nell’antropologia ripensata in questi termini, anche se noi non pratichiamo l’antropologia, suggerimenti interessanti si possono trovare, ci possono essere.

Oppure, dicevo prima, c’è un’attinenza, o presenza o stimolo forte ricevuto dagli studi culturali – e studi culturali che ospitano anche quella critica sempre più forte, sempre più presente o emergente che è quella della critica post- coloniale-. Cioè i critici e gli scrittori di provenienza post-coloniale l’emblema tanto per intenderci è sempre Simon Rash? che scrive in inglese ma che è biculturale se non di più. Anzi l’esempio di Rash è anche interessante perché lui ha riflettuto molto su questo ruolo di scrivere nella lingua del colonizzatore poi e di questo ruolo che spesso hanno gli scrittori o le persone di provenienza post-coloniale come l’altro scrittore molto famoso (Tarven Gelun?) del Marocco che scrive i suoi testi in francese. Simon Rash dice di se stesso I am a translation man. Queste figure, queste persone che sono di per sé soggettivamente tradotte, si traducono, e sono esseri umani tradotti.

Credo che quell’interculturalità, che loro vivono sulla loro pelle, sia ovviamente un modo più conflittuale di quanto possa essere il bilinguismo o la multiculturalità nostra, di noi occidentali, ma forse non così lontana da come la possiamo vivere noi.

E uno dei critici più importanti del post-colonialismo (Omiebda Baba?) parla anche lui di traduzione culturale e dice che la traduzione culturale ha sempre luogo negli spazi TRA, non sta né di qua né di là, ed è credo che sia quello che facciamo anche noi e facciate anche voi, non si entra mai completamente nell’uno o nell’altro, si trasporta una cultura nell’altra, ma facendolo non si sta né da una parte né dall’altra, concetto diffuso è in between his?, cioè stando tra le culture, negli interstizi, tra, in mezzo.

E questa figura che dicevo (Omiebda Baba?) dice che la traduzione culturale è un luogo di creatività nuova che crea un altro spazio, lui parla addirittura di un terzo spazio.

Infatti credo che insegnando una lingua, cercando di far incontrare due o più lingue non si porta né di qua né di là e forse lì c’è qualcosa di creativo, di nuovo, di diverso che ha luogo in quello spazio dell’incontro TRA, o questo terzo spazio, uno potrebbe anche dire che si apre un terzo spazio che è quello dell’incontro, grazie all’incontro che ha luogo.

TRA, INTER, che è quello dell’interculturalità che avete scelto come termine per questo seminario. Ma questa interculturalità, questo incontrarsi, questo portare da una parte all’altra che cosa comporta?

È inevitabilmente una manipolazione dicono molti, altri dicono che questa manipolazione  non può che essere un’operazione etnocentrica, termine tra l’altro preso in prestito di nuovo dall’antropologia. Cioè non può che essere un far assomigliare a sé, un portare a sé, un’appropriazione, potremmo dire.

Traducendo un testo, – non so quanti di voi m’immagino abbiano fatto anche esperienza di traduzione, qualcuno ha tradotto dei testi forse, è molto comune “tu che sai l’italiano, mi traduci per favore questo testo” –  qualcuno si scontra con la difficoltà seppure rispetto  a testi banali in sé, ma questa difficoltà è sempre presente e appunto questa difficoltà ha a che fare  con: dove facciamo incontrare queste due culture?

È un’operazione etnocentrica,- uno potrebbe interrogarsi -? È un’operazione che pretende o richiede un’appropriazione del testo dell’altro in modo tale che diventi veramente proprio?

Su questo forse si potrebbe discutere e si potrebbero ricevere dei suggerimenti molto molto stimolanti da una riflessione a voi familiare nata nel vostro Paese, la Germania più che altro, durante il periodo del Romanticismo.

I testi in questo senso più stimolanti, più interessanti che oggi vengono ripresi sono scritti da –scusatemi per la pronuncia dei nomi – da Schleiermann o da Ungott? che anche lui traduceva molto, o da Goethe o dai fratelli Schlegel? – specialmente uno dei due fratelli traduceva molto – era un periodo in cui Ingermann? si traduceva molto. Sono cose che sapete meglio di me. Tra l’altro la traduzione ha avuto fin dalla tradizione di Lutero un ruolo molto particolare e significativo in Germania. Una riflessione particolarmente ricca in Germania è sulla traduzione e che cosa fa una traduzione con una lingua, trasformandola ed evolvendola, facendola incontrare con le altre culture. E questo concetto intorno all’etnocentrismo eventuale della traduzione studiosi di oggi prendono spunto in particolare da Schleiermann perché in un suo saggio del 1813 diceva: “Ci si potrebbe domandare: il traduttore dovrebbe portare il lettore verso lo scrittore del testo originale o deve portare lo scrittore e il testo originale verso il lettore?”

Questo lo diceva già Schleiermann dicendo: “L’unica versione o l’unico modo che io riconosco utile e sensata è quello di portare verso il testo di partenza, di portare verso lo straniero, verso l’estraneo, verso l’estraneità o verso la stranezza o verso la differenza.”

E quindi sarebbe un modo per combattere quell’eventuale etnocentrismo che potrebbe essere insito in ogni operazione della traduzione. Cioè quel contro che è appropriarsi e invece cercare di portare il lettore verso l’aspetto straniero.

Uno dice: Come faccio? Anche perché è molto diffuso – come traduzione nel nostro mondo occidentale – che le traduzioni debbano essere assolutamente fruibili in una bella lingua che è la nostra. Coiè se io devo leggere una traduzione italiana devo leggerla in un bell’italiano. Se io devo tradurre un testo dall’italiano in tedesco io lo devo però poter leggere in un bel tedesco, in un buon tedesco, non devo sentire l’eco dell’italiano.

E questa è la convinzione diffusa anche a partire dalle case editrici. Le case editrici richiedono testi i più leggibili possibile i più fruibili possibile, i più tedeschi possibile o i più italiani possibile nella lingua in cui vengono tradotti.

Si potrebbe addirittura (?) – e alcuni oggi lo fanno parlando addirittura di etica della traduzione, etica dell’interculturalità, etica quindi dell’incontro con l’altro – e forse sarebbe giusto non sempre appropriarsi, far assomigliare tutto a noi, a quello che ci è già familiare, ma invece fare uno sforzo per andare verso quello che è differente.

Ed era quello a cui facevo accenno prima che è forse quella cosa inafferrabile e differente che ci stuzzica, che ci intriga, che potrebbe essere appunto questa differenza che potrebbe essere interessante cercare di afferrare, di trovare, di individuare in qualche maniera.

E forse nell’insegnare una lingua straniera a stranieri – a tedeschi nel nostro caso – uno dei sensi è proprio quello di aprire a questa diversità a non appiattire, a far vedere che è tutto uguale, in fondo tutto è simile a noi.

Credo perché in quel senso non avrebbe più significato imparare le lingue se non per motivi pratici e non avrebbe più senso neanche tradurre i testi perché tanto li potremmo aver scritti anche noi. Umbo ? diceva anche che se non traduciamo proprio per portare nella nostra lingua ciò che altrimenti non avremmo non ha senso, perché è proprio quello il vero senso della traduzione, portare dentro nella nostra lingua qualcosa che appartiene all’estraneità, incontrare l’estraneità. Sì, è difficile, però come problematizzazione, come discussione credo che possa essere interessante in modo più o meno diretto averlo in mente.

Ovviamente non è facile, i testi e le situazioni decideranno anche per noi quando possiamo fare una scelta di un tipo o di un altro. Ma credo che sicuramente aver riflettuto e problematizzato su questo ruolo che ci viene dato nel tradurre le culture, nel tradurre le lingue, sia utile, sia sano per noi quando ci troviamo  a tradurre o a insegnare la lingua dell’altro.

E anche riconoscendo questo ruolo della traduzione – come dicevo anche prima facendo riferimento a Lutero, alla sua traduzione della Bibbia  in tedesco che è forse l’esempio più emblematico, ma in generale molta riflessione  di questo tipo che cerchiamo di sviluppare –  è un grande riconoscimento della forza che la traduzione ha nei processi interculturali.

Cioè le traduzioni che di solito non ottengono grande riconoscimento, sono considerate un lavoro secondario e mal pagato, non sono come la grande creatività: è secondario riuscire a tradurre i testi e farli funzionare in un’altra lingua.

Credo che quello che abbiamo brevemente visto sia un riconoscimento della forza come pratica culturale che può aver la traduzione qui in senso lato, di trasformare le culture, di sedimentare nuovi stili letterari, ma anche culturali, stili di vita.

Le traduzioni hanno una forza interculturale di creatività culturale, grazie all’interculturalità, che spesso non gli è riconosciuta.

Ma credo che sia importante ricordarlo perché quanto è collegato con l’insegnamento della lingua. L’insegnamento della lingua in Italia viene spesso considerata come una cosa quasi secondaria, indispensabile per arrivare poi a studiare letteratura.

Invece è (poi) la prima e ultima chiave per riuscire a far incontrare le culture, a creare questi scambi, questi incontri.

Prima appunto dicevo – mi avvio a qualche conclusione- non possiamo che riconoscere che tradurre significa costruire un’immagine dell’altro testo. Non può essere mai l’altro testo. Dobbiamo riconoscere che è un altro testo, un nuovo testo quello che facciamo.

(interruzione cambio cassetta)

– La rappresentazione dell’Italia in Germania io non la conosco, ma mi è capitato di invece di studiare per esempio la rappresentazione della Norvegia in Italia –

La rappresentazione che abbiamo per esempio della letteratura di un Paese è rappresentato per esempio nel vostro caso in Germania, dalle traduzioni che arrivano dall’Italia in tedesco.

Quali sono i testi che vengono tradotti? Ovviamente non tutti.

C’è una selezione chiara di testi che vengono tradotti di solito abbastanza  funzionali a quell’immagine, a quell’idea, a quella rappresentazione che nel Paese di arrivo vuole costruire del paese di partenza, della cultura di partenza.

Qual è quell’immagine? Spessissimo parte da o si basa su stereotipi, idee un po’ stereotipiche, perché cerchiamo sempre di semplificare un po’ le nostre vite, perché non possiamo conoscere tutto, quindi  andiamo un po’ per categorie, categorie che si basano più o meno anche su stereotipi. Se andiamo a vedere nell’arco di tempo dal dopoguerra fino a oggi o dagli anni ’60 fino ad oggi quali sono i testi di letteratura italiana che sono stati tradotti in Germania? Come sono stati tradotti questi testi?  Come sono pubblicati? Sono pubblicati con delle presentazioni, delle introduzioni che li collocano letterariamente? C’è un genere che prevale sull’altro? Eccetera.

Esistono studi interessanti fatti da alcuni studiosi per esempio sulla rappresentazione della letteratura giapponese fatta in America. Questo è un riferimento concreto che vi faccio, che conosco, che ho letto recentemente. Uno studioso americano di origine italiana che si chiama Lorence? Venuti è andato a vedere nel secondo dopoguerra quali sono le traduzioni che sono arrivate in americano e di conseguenza quasi in tutto il mondo occidentale perché, almeno negli anni ’50, ’60, ’70, le traduzioni giapponesi passavano dall’inglese o appunto dalle traduzioni e dalle pubblicazioni americane, quali erano i testi che venivano pubblicati.

Essendo postbellica, postguerra, postconflitto forse la selezione era di un certo tipo: essendo una cultura lontana per altri versi questa scelta veniva fatta da accademici, perché erano loro gli unici che conoscevano il giapponese, che avevano contatti con alcune case editrici americane, andavano a selezionare alcuni testi che riflettevano una certa immagine che loro volevano dare del Giappone, che erano – guarda caso – testi che evocavano tutti insieme un’idea del Giappone come qualcosa di un po’ misterioso, silenzioso, vago, quell’idea dell’Oriente giapponese che spesso molti di noi abbiamo.

Non si considerava così  per esempio tutta la letteratura umoristica che c’era, non si consideravano molti altri aspetti e altri generi letterari e quell’idea che noi in Occidente abbiamo avuto almeno in Italia fino a Kitchen di Banana Yoshimoto: era una certa letteratura ( Kawabata?) più che altro che è stata tradotta in tutte le lingue europee, quella magia che appunto a noi andava bene che era l’immagine che volevamo costruire di quel Paese.

E qui abbiamo un altro esempio  di una traduzione culturale, di una traduzione interculturale e di quanto le nostre conoscenze di un’altra cultura siano anche basate su cosa viene filtrato, di cosa passa attraverso il nostro filtro. Voi avete modo di controllarlo, conoscendo meglio la cultura italiana rispetto a  quella che arriva a voi in versione tedesca e spesso forse dite: Ma perché traducono questo testo qua, quando c’è questo e quest’altro che sono più importanti? Questo squilibrio  in sé interessante come prodotto culturale è quale immagine rappresentiamo, diamo della cultura – nel vostro caso italiana – per esempio attraverso le traduzioni letterarie, ma anche in altri prodotti culturali e non soltanto quelli della letteratura.

Dicevo che mi avviavo alla conclusione. E l’ultimo concetto che volevo lanciare a proposito dell’interculturalità, ma è anche all’interno del concetto di nazione.

Il concetto di nazione è un altro concetto che sta diventando sempre più problematico, abbiamo a che fare con l’Europa, l’allargamento, quali sono i confini culturali, forse non combaciano più con quelli nazionali, anche perché all’interno dei confini nazionali troviamo più culture, troviamo l’interculturalità, la multiculturalità. Voi la conoscete da molti anni, in Italia la si conosce da molto meno.

Un altro concetto in traduzione, in antropologia, in studi culturali, in studi interculturali che diventa molto centrale in questo contesto culturale è quello dell’ibridità, ibridismo ibridità culturali e linguistiche. Cioè la compresenza di più lingue contemporaneamente come scrittori di madre lingua che scrivono nella lingua dell’altra (cultura), o figli di immigrati che scrivono invece nella lingua ma che hanno conoscenze della lingua (originaria) , cioè un miscuglio di culture e lingue  e quindi di diversi livelli di ibridità  e quindi ruolo di traduzione a vari livelli alla Simon Rashti? è un altro concetto su cui si potrebbe riflettere in questi tempi di interculturalità, di multiculturalismo e di globalizzazione.

 

Domanda incomprensibile (trascrizione parziale laddove udibile)

Ha un esempio di qualche parola italiana che sia intraducibile? Ha trovato delle parole o delle espressioni?

Risposta

A me è capitato di tradurre in norvegese, ovviamente. Adesso non lo faccio più: sono troppo da una parte e non riesco a stare in mezzo che forse è il ruolo. O forse bisogna stare più da quella parte, che è la parte del norvegese. Io vivo in Italia da troppi anni e quindi non riesco più a tradurre in norvegese. Perché c’è l’eco dell’italiano che è così forte che per me è ovvio che si debba dire in quel modo lì, e quindi è tutto intraducibile per me.

Nel senso che è talmente ovvio il modo in cui si dice in italiano che io porto anche la sintassi italiana in  norvegese e il risultato è un norvegese aulico. Perché il norvegese assomiglia di più all’inglese, ci vogliono frasi più brevi, più sintetiche, più concrete. E quindi queste frasi molto più retoricamente sontuose italiane non funzionano – non vogliamo più pragmatismo -. Quindi alla fine trovo moltissime difficoltà, non mi viene in mente una parola, ma ce ne sono moltissime. Come un altro vostro connazionale Walther Benjamin quando scrive sulla traduzione fa l’esempio più banale, più semplice «pane», Brot. Quanto il significato è diverso nelle diverse lingue? Lui poi parla delle lingue europee. Quanto è diversa per noi l’idea del pane. In effetti anche l’uso del pane è completamente diverso. Quando un italiano parla del pane non ne parla nei termini in cui ne parla un tedesco o ne parla un norvegese. A quel livello è tutto intraducibile. Se andiamo a livello connotativo, associazioni, allusioni, intertestualità. Ci sarebbero molti altri esempi di intraducibilità chiara e netta e io credo assolutamente che non bisogni dimenticare che ci sono delle cose intraducibili. Però delle cose intraducibili – qualcuno diceva e secondo me questo è un altro concetto, un’idea interessante – l’intraducibilità è una riserva per le traduzioni future. Quello che non riusciamo a tradurre oggi, forse riusciamo a tradurlo domani. Nel senso che l’incontro tra le culture, la globalizzazione, l’incontro e le conoscenze dell’altro Oggi per esempio futon? non abbiamo bisogno di tradurlo, prima bisognava scrivere note di questo tipo per spiegare cos’era futon?, e oggi ci dormiamo tutti, globalizzazione. In quel senso lì possiamo dire ciò che non riusciamo a tradurre oggi, forse lo traduciamo domani. O forse quello che traduciamo oggi, non lo tradurremo più domani, perché con le evoluzioni ci possono essere nuove intraducibilità.

 

Domanda incomprensibile

Un altro esempio sarebbe forse la traduzione della parola «neve» dalla lingua … perché quella parola ha ..cento connotazioni diverse.

Risposta

Come mi si dice- perché io non conosco l’arabo – la parola «cammello» può essere cammello in trenta modi diversi, quindi in modo più complesso. A proposito di questo un altro linguista famoso russo Roman Jakobson dice: Le lingue differiscono non tanto per quello che possono dire, ma per quello che devono dire. Anche in questo è vicino a quello che dicevamo prima: le lingue si evolvono e creano moltissimi concetti per quello di cui hanno bisogno.

Ma non significa che non lo possano avere volendo, magari incontrandosi nell’interculturalità, nella traduzione. In Italia per esempio la parola «privacy»o, privatezza dieci o quindici anni fa in Italia nessuno ne parlava, oggi è diventata la tutela della privatezza in tutti i modi da quando ci sono i nostri dati che circolano dappertutto. Questo concetto è forse un esempio di qualcosa che sta per entrare nella nostra lingua: oggi privatezza non suona ancora bene, quindi oggi parliamo della legge sulla privacy, ma forse chissà tra dieci anni – come diceva Jakobson – lo potremmo usare perché entra in maniera talmente forte nella nostra lingua perché ne abbiamo bisogno e allora, forse, parleremo di privatezza.

 

Domanda incomprensibile

Come succede per il femminile: quando non c’è una professione femminile il giudice/la giudice, l’avvocato/l’avvocatessa, ma poi che si dice l’architetta, la ministra, la sindaca? Quando poi diventa necessario usarle anche se ministra è un po’ dispregiativo…

 

Questo è un ottimo esempio di quest’evoluzione della lingua che suona male ministra. Chissà tra dieci anni diremo tutti ministra.

 

Così presidentessa si intende presidentessa dell’associazione di San Vincenzo piuttosto che presidentessa del Camera o del Senato. … così per avvocata.

 

Domanda incomprensibile

Volevo chiedere … qual è l’immagine della Norvegia …

Risposta

Io ho fatto un piccolo studio e direi che l’idea è sicuramente di selezionare testi dove il solitario in mezzo alla natura è abbastanza presente che corrisponde all’idea – del resto presente nella nostra letteratura – di un autore che forse conoscete anche in Germania ??? la figura principale in molti testi suoi è il vagabondo che si trova molto meglio nella natura che in mezzo alle persone. C’è un altro aspetto interessante che recentemente in Italia esiste dalla fine degli anni ’80 una casa editrice che si chiama Iperbolia, il nome lo dice, orientato solo ed esclusivamente alla traduzione di testi nordici. Inizialmente provenienti dai Paesi nordici (cioè Norvegia, Finlandia Svezia e Danimarca e Islanda)  successivamente si è aperta anche all’Olanda e al Belgio. Lì c’è un intento molto chiaro di rappresentare un’identità culturale. Il titolo della casa editrice, tutte le illustrazioni evocano la natura nordica, nei testi viene rappresentata la nordicità, anche discutibile. Qual è questa nordicità? È quella nordicità che quella casa editrice costruisce dicendo qui vi presento il nord o è molto altro che invece non passa attraverso quel filtro. È una costruzione discutibile, ma anche molto accettabile, non è che non si possa fare.

..

Certo credo che comunque sia molto importante riconoscere che è una rappresentazione, è una selezione, è una scelta ben definita con le sue ideologie. Come dicevo, manipolazione è anche una questione ideologica, non che sia qualcosa di negativo, ma che ci sia dell’ideologia dietro scelte di questo tipo non c’è dubbio.

 

Domanda incomprensibile

Una domanda che riguarda questa scelta, questa selezione ….

Risposta

Non glielo posso dire io. Sono l’ultima persona che può rispondere a questo purtroppo perché non conosco il tedesco. Altre persone vi possono sicuramente  rispondere.

 

Domanda incomprensibile

Che io sappia …. Però penso che ci sia anche una vicinanza geografica e culturale … e prevalgano …posso immaginare che questo discorso della selezione possa diventare più incisivo quanto più ….Fra Italia e Germani prevalgono interessi commerciali delle case editrici che promuovo più quello che questo … Ho l’impressione però in generale che si traducano più autori italiani in tedesco che …

Risposta

Dicevo che non posso rispondervi, ma mi viene in mente che a questo corso di questo master in editoria, per futuri redattori delle case editrici, loro fanno alla fine del corso  uno studio , una ricerca e una di queste ragazze aveva fatto un’analisi di qualche traduzione fatta dal tedesco in italiano, sottolineando questo fatto che alla fine, rispetto a molti altri Paesi europei, di letteratura tedesca in italiano viene tradotto molto poco, la percentuale rispetto al francese o allo spagnolo è piuttosto ridotta. E analizzava questo contratto – che è anche un altro aspetto interessante – che c’è tra  l’Italia e la Germania, una specie di ente per la promozione della letteratura tedesca in Italia, che ha come condizione per sovvenzionare, per finanziare almeno parzialmente le pubblicazioni, le traduzioni in Italia, quella di creare un’immagine positiva della Germania rispetto alla questione della seconda Guerra Mondiale. Quindi testi un po’ alternativi che creino o diano un’impressione positiva, non buonista, ma buona della Germania in Italia. Però alla fine della ricerca veniva fuori che era seguita anche molto scarsamente dalle case editrici, che invece loro potrebbero ricevere dei soldi, finanziamenti per le traduzioni, ma molto malseguita in Italia. E quindi alla fine l’immagine non era così ricca, così densa come avrebbe potuto essere, come si sarebbe supposto che fosse. E invece è molto ricca la ricettività tedesca di letteratura italiana, ma quello perché i tedeschi sono molti – anche gli italiani – però i tedeschi leggono molto e molto più degli italiani e quindi è possibile tradurre più testi in tedesco, perché vengono pubblicati e vengono comprati, vengono letti.

 

Domanda incomprensibile

… C’è una rivista che si chiama italienische Wirtschaft, pubblicata a livello universitario …

Nessuno risponde

 

Domanda incomprensibile

La collega ci ha spiegato in modo molto convincente che le espressioni di una lingua sono sempre radicate e analizzate anche … nella cultura di questo Paese. E ricordo che il filosofo Schopenauer una volta ha preso l’espressione inglese per definire anche un po’ la mentalità inglese, per definire questa serenità degli anglosassoni ha preso questa espressione …… non come il tedesco geniess, ma gode se stesso. Esistono delle espressioni italiane che pars pro toto possono fare da simbolo per la cultura italiana, per la mentalità. Sarebbe molto utile per noi sentire qualche esempio, se ce lo potrebbe fornire le sarei molto grata.

 

Risposta

Questa rassegnazione rispetto alle difficoltà “Pazienza”. È una questione un po’ rischiosa. Se io individuo un’espressione e dico: questa rappresenta tutta l’Italia. La realtà è sempre più complessa di così. “Pazienza” sì, va bene, ma rischiamo di cadere negli stereotipi. Ci sono  cose che io credo vadano sempre contestualizzate. Se lei legge un testo magari con i suoi ragazzi, all’interno del testo trova delle espressioni: Ecco, questa può essere una cosa tipica. Però in quel testo, in quella situazione. Io credo che debba essere contestualizzato, perché se uno quasi a caso pensa – io penso che sia un po’ un’illusione – di aver trovato qualcosa che possa in sè per tutto e per tutti definire  l’italianità, l’italiano alla fine sarebbe una banalità totale. È questo alla fine un po’ il rischio. Si possono trovare per l’inglese e la cultura nordica quelle espressioni per esempio ???  Ah, è l’esempio che fate sempre. Che forse è difficile trovare un’equivalente in italiano. Però non possiamo dire che loro sono ??? perché tutto diventa ….

 

Domanda incomprensibile

Comunque voglio dire che per quanto riguarda l’intraducibilità ci sono tutti i suffissi alterativi italiani che sono intraducibili. Uno dei più  …. Buona, abbastanza buona … che non è un’impresa facile. Il problema più grosso, tanto per dirne una, perché c’è tanta intraducibilità in una direzione come nell’altra perché l’ottica dell’interculturalità è una condizione… Poi riprendiamo il discorso che una donna è bella .. non in ogni situazione…

 

Quell’esempio di Gadda …

 

Domanda incomprensibile

Tutto questo sistema estremamente prolifico in italiano, specialmente in certe aree …quanto è intraducibile … Questo libro che è rimasto senza essere trodotto per un po’ di tempo o con traduzioni insoddisfacenti, perché c’era questa …

Risposta

Si potrebbe partire da Gadda come l’esempio emblematico di quei testi che gli italiani considerano come un loro testo che gli altri non possono tradurre. Eppure in francese è stato tradotto e loro sono felicissimi della traduzione. Questa è un’altra cosa che è interessante e noi dobbiamo accettare: che loro del nostro testo che noi consideriamo intraducibile fanno qualcos’altro, fanno un’altra cosa e non diventerà mai quello che per noi questo testo rappresentava, è vera. Però loro conoscono Gadda, un Gadda, il loro Gadda, che forse non è il Gadda degli italiani però è qualcosa di più  che è semplicemente passato.

 

Domanda incomprensibile

Io direi che in questo caso non si tratta più di traduzione, piuttosto di interpretazione e riadattamento di testi. Dipende un po’ da … dei testi. Se si parla di poesia la cosa che …., per esempio. Per il documentario iniziamo ad avere la traduzione automatica .. Per la poesia non è possibile. Io mi ricordo testi di poesia inglese che si cerca invano … in lingua straniera per il fatto che non sono veramente traducibili, neanche adattabili, per i tedeschi che forse voi non li conoscete …. Avete visto una traduzione italiana? Quasi quasi non è possibile. …..Hanno tradotto certe cose …. In Francia non è possibile fare certe cose. Ci sono veramente dei limiti della traduzione.

Risposta

I limiti ci sono eppure si traduce.

 

 

Domanda incomprensibile

…Negoziazione e io penso alla commercializzazione.

 

 

Alla luce di quello che stiamo discutendo …. … alla traduzione per anni e anni e ancora oggi  esiste – alcuni di noi avranno fatto gli esami di stato di italiano facendo un pezzo di traduzione in italiano. – Questo testo è una misura di una coscienza linguistica, che non ha niente a che fare con la funzione traduttiva. Perciò per secoli la traduzione è stata un sistema di misura della competenza linguistica. Oggi finalmente questo concetto è cambiato, difatti finalmente  … in lingua straniera. Mi domando è possibile insegnare la traduzione alla luce …. Faccio dei corsi di traduzione che era necessario fare e mi trovo sempre di fronte a questo .. E’ possibile insegnare la traduzione o …?

Risposta

Io sono molto felice di insegnare la teoria della traduzione e non la traduzione per questo motivo. Non devo neanche pretendere di dire: Io vi insegno. Io vi insegno cosa dicono gli altri. è qualcosa di più spero. Io vi insegno quello che io penso che sia utile per futuri traduttori. Mi è capitato di tradurre o di insegnare in corsi che sono diventati abbastanza diffusi almeno in Italia: corsi di perfezionamento di traduzione per esempio letteraria, quella ovviamente considerata la più complessa, la più complicata. Quello che dico io è: Non pretendo di insegnarvi niente, ma credo che una problematizzazione è di andare oltre – questo suona meglio, questo è più bello, questo funziona meglio, ma a che prezzo, perché suona meglio, con quale effetto, con quale funzione avrà questo testo se io scelgo questo o quest’altro -. Questo è quello a cui mi limito io.

Chi invece insegna traduzione credo che insista molto sul fatto che è esperienza, esperienza e esperienza, traduce moltissimo con la consulenza di esperti che hanno già alle spalle l’esperienza di traduzioni su traduzioni e discutono, problematizzano la questione sul testo concreto – che è quello che io non faccio, magari poi analizziamo in classe traduzioni e confrontiamo traduzioni ed è molto utile vedere che effetti creano le diverse scelte, che tipo di effetto testuale viene fuori nell’una e nell’altra, confrontandole, per il fatto che le traduzioni invecchiano spesso si ha la possibilità di confrontare nel caso di testi importanti esiste spessissimo più di una traduzione. Io diffido abbastanza di chi pretende: Traducete così e non fate così. Perché quello che funziona in un testo non funziona più nell’altro. Ovviamente bisogna conoscere benissimo la lingua di partenza e la lingua di arrivo, sono cose scontate, attraverso moltissima pratica. E la discussione di quello che si fa è l’analisi di traduzioni già fatte.

 

Sa per caso se ci sono scrittori italiani che vivono e scrivono un testo bilingue?

Risposta

Di italiani non ne ho esempio. Beckett è il riferimento di uno scrittore che scriveva in inglese e traduceva in francese e viceversa. Ci sono autori che si sono autotradotti, però quella autotraduzione diventa una nuova scrittura, anche perché loro se lo possono permettere. E lì ritorniamo sulla questione del relativismo: se io scrivo prima in norvegese – io non sono una scrittrice, però nel mio banale scrivere – se io prima scrivo in norvegese poi mi devo tradurre in italiano, io scrivo un’altra cosa in italiano, perché non riesco a tradurmi e così faceva un po’anche Beckett quando si autotraduceva .

Chi si traduce in un altro modo sono quegli scrittori che abbiamo nominato prima, ???? come funzione interiore, scrivono in una lingua che non gli appartiene come madre lingua, è un altro tipo di autotraduzione. Di scrittori italiani io purtroppo non ho informazioni di questo tipo di autotraduzione.

Discussione in platea incomprensibile

Ha scritto in portoghese e poi si è tradotto in italiano ed è stato lui stesso a tradursi (Tabucchi?)

No, è stato tradotto in portoghese da un traduttore.

 

Forse esistono tutti e due, Uno l’ha tradotto lui e un altro l’ha fatto tradurre.

 

Domanda incomprensibile

Dal discorso della dottoressa (Scardellini?) sembra che il problema di insegnare a tradurre dovrebbe negli stessi termini porsi per insegnare a insegnare.  (…) Nel senso che per insegnare non so se qualcuno possa pretendere di insegnare a insegnare, Si insegnano le tecniche, ma non si insegna lo stile. E lo stesso  forse potrebbe valere (nell’ambito ?) della traduzione. Le tecniche o gli strumenti già individuati dal punto di vista applicativo probabilmente sussistono.

Risposta

Se si distingue tra si insegna una certa tecnica e non lo stile certamente sì.

 

Lo stile praticamente … Quel traduttore …Infatti noi sappiamo quanto siano diverse le traduzioni …. Mi sembra veramente un questione interessantissima…. Noi insegnanti non insegnamo nulla: apriamo delle porte e poi sono loro che …. Più la direzione che l’oggetto, però.

 

Risposta

Portando avanti il parallelismo il traduttore apre le porte poi la vera interpretazione la deve fare poi il lettore.

 

 

(CASSETTA 7: venerdì 23 aprile- sera) BALLETTA O VALLETTA?!

 

(h 18.30: Felice Balletta, Università di Nancy: “I colori del giallo: tendenze attuali del romanzo poliziesco italiano“)

 

……Allora cominciamo. Intanto volevo dirvi che il certificato di partecipazione vi sarà inviato per posta al rientro. Siamo lieti questa sera di avere qui con noi il dottor Felice Balletta, che è lettore di tedesco all’università di Nancy e che è, diciamo così, un esperto di letteratura italiana contemporanea, in particolare si occupa dello sviluppo del romanzo poliziesco in Italia, e si soffermerà questa sera in particolare sul gruppo tredici (?), quindi su Loriano Macchiavelli, Carlo Lucarelli e Marcello Fois. Non rubo altro tempo perché so che siete…. Do subito la parola al dottor Balletta.

 

Felice Balletta:

…breve introduzione. Grazie anche per l’invito, e grazie anche a voi di resistere ancora un po’, un’ oretta, e di partecipare a questa specie di digestivo letterario alla fine della serata. Magari cominciamo con le fotocopie: tre-quattro pagine con una bibliografia critica un po’ in generale, non solo sul giallo italiano, ma un po’ sulla storia del giallo in generale. …ciò che vi interessa. Segue anche un elenco dei titoli pubblicati da Loriano Macchiavelli, Marcello Fois e Carlo Lucarelli. (Trovato?). Alla fine trovate anche la postfazione di Luigi Bernardi che si trova alla fine della ristampa di “Fiori alla memoria” di Loriano Macchiavelli, una postfazione che mi sembra anche molto interessante da vari punti (di vista). La detective story certamente non è nata in Italia e il genere giallo, tutto sommato, è approdato in Italia piuttosto tardi, quando il classico romanzo, racconto poliziesco, erano già all’apice del loro successo, ma anche all’alba di una trasformazione che dalla seconda guerra mondiale in poi, sotto la spinta di modelli statunitensi e parzialmente anche francesi, e alla ricerca di maggiore verosimiglianza del racconto, ha trasformato il detective in poliziotto che agisce con un supporto istituzionale. Ma una tradizione letteraria esiste anche in Italia, benché sia una tradizione piuttosto nascosta; non perché ne manchino esempi eminenti -ce ne sono parecchi, da Gadda in poi – ma perché la critica non se ne occupava in quanto narrativa gialla, se non marginalmente. Resta incomprensibile la resistenza di tanta critica italiana nell’accettare la categoria “giallo” senza pregiudizi, in modo neutro, che non implichi una distinzione e contrapposizione tra letteratura alta e forme narrative popolari, cioè considerate basse. Ma anche chi si è occupato in specifico della narrativa poliziesca sembra a volte riproporre questa visione polarizzata. Tutto questo ha creato un duplice problema: da un lato, davanti al fenomeno della rinascita del romanzo italiano negli scorsi decenni, non è stato (dato?) spazio sufficiente alla questione, fondamentale soprattutto negli anni Novanta, della proliferazione del giallo e dei prestiti delle sue strutture e tecniche narrative in romanzi che non sono polizieschi. In secondo luogo è mancato un dibattito approfondito sulle caratteristiche della nuova generazione di giallisti e sulle ragioni della loro scelta di questo tipo di narrativa. Il giallo viene usato oggi come strumento che garantisce l’attenzione, l’interesse del lettore, ma anche come veicolo privilegiato per indagini diverse: storiche, sociali, esistenziali, eccetera, e per una ricerca di identità nella complessa e frammentata realtà contemporanea. E’ un ritorno alla narratività che riesce a catturare, nelle sue trame complesse, la diversità e pluralità del reale e può contare su due secoli di tradizione letteraria sua propria con cui giocare, con rimandi intertestuali ironici. Pensate, per esempio, all’ispettore probabilmente più famoso (…) negli ultimi anni, cioè Salvatore Montalbano di Camilleri, che spesso legge libri gialli di Simenon o Vazquez Montalbàn, già lì avete questo collegamento: Montalbano, Montalbàn. Non è un caso che si possa parlare di giallo post moderno in Italia, se si pensa che una delle opere che ha reso possibile la rinascita del romanzo in Italia negli anni Ottanta è appunto un giallo, e uno dei romanzi post moderni per eccellenza: cioè, “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Insomma ci sono anche nel giallo contemporaneo italiano numerosi elementi tipici del post moderno in letteratura. Comunque sia, l’Italia degli ultimi due decenni ha visto un crescente interesse nei confronti della letteratura poliziesca, una tendenza che vedete un po’ dappertutto, anche in Germania, in Francia, eccetera, che viene pubblicata al difuori delle collane tradizionalmente dedicate al giallo o al noir. Questo interesse è ovvio in scrittori che non si specializzano in questo genere e che sono considerati unanimemente dalla critica come letterati, e non artigiani della scrittura. Antonio Tabucchi, per esempio, che ha frequentato spesso questo genere parlando dell’importanza di “Un filo dell’orizzonte” come precedente, dal punto di vista narrativo, di “Sostiene Pereira”, ammetteva, segue (?) una citazione, “per la prima volta in quel momento mi sono confrontato con una letteratura interrogativa, quella gialla, che io amo molto, sia nella sua forma più popolare, i gialli che escono settimanalmente, che in quella di alto livello letterario, come potrebbero essere i gialli scritti da Sciascia o Durrenmatt. Ho poi utilizzato questo modello anche in Pereira, che in fondo è un romanzo giallo con la struttura di una storia poliziesca, modellata secondo un riferimento a un’ autorità, secondo quel motivo di ricerca e di interrogazione che è caratteristico della letteratuta poliziesca”. Fine della citazione. Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto in Italia una straordinaria rinascita del romanzo e delle forme narrative tradizionali, con intrecci ben definiti, gusto per la descrizione del personaggio, attenzione al dialogo che, sotto l”influsso del cinema e della televisione, è diventato più vicino al parlato e ha perso quell’eccesso intellettualizzante che rendeva i dialoghi nella narrativa italiana a volte troppo astratti e remoti. Su questa struttura si innesta il ritrovato gusto del narrare e la riscoperta di generi tradizionali che, in un’ottica post moderna, vengono citati e rivisitati con passione, ironia, e un ritrovato gusto di raccontare delle storie ma in modo nuovo e con prospettive diverse, in cui il tempo narrativo è scomposto. Basta vedere, per esempio, Loriano Macchiavelli oppure Francesco Guccini, di cui avete già sentito parlare oggi pomeriggio, in libri come per esempio “Macaronì” o “I misteri della Vigata Ottocentesca” (?), che tutti conoscete, credo, di Camilleri, in cui proliferano intrecci che si innestano sulla trama principale, si aggrovigliano polifonie di voci narranti, come per esempio nei romanzi “Almost Blue” di Lucarelli o “Sempre caro” di Marcello Fois. E infine ci troviamo di fronte al caos di lingue, culture e tradizioni diverse, e tutte presenti contemporaneamente. Anche qui potremmo fare un riferimento alla relazione che avevamo sentito prima, Andrea Camilleri ne è sicuramente l’esempio più ovvio, è sicuramente un autore molto difficile da tradurre anche. Devo ammettere che io non conosco la traduzione tedesca, ma quella francese, e qui mi viene in mente una cosa interessante, comunque. La traduzione del primo libro, del primo romanzo di Andrea Camilleri, lì c’è scritto “traduction par” e poi segue il nome, dal secondo romanzo in poi c’è scritto “traduction proposée (?) par”, quindi si ritira già un po’, potrebbe spiegare o magari illustrare un po’ ciò che abbiamo detto prima (ma questo solo tra parentesi). Il titolo della mia relazione, “Tutti i colori del giallo”, lo devo a Luca Grovi, che ha pubblicato persino due libri sul giallo nel giro di tre anni: “”Delitti di casa nostra. Una storia del giallo italiano”, pubblicato nel Duemila, e “Tutti i colori del giallo. Il giallo italiano da De Marchi a Scerbanenco (?) a Camilleri”, pubblicato nel Duemiladue. Il titolo originale del secondo saggio, “Tutti i colori del giallo”, l’ho modificato un po’ perché mi sembrava impossibile fare un riassunto anche approssimativo di un genere letterario talmente vasto e variato come quello giallo in meno di un’ora. Vorrei concentrarmi perciò su alcuni aspetti, tendenze e nomi importanti, sperando che questa breve riflessione su certi tipi di scrittura gialla contemporanea vi possa essere magari anche utile nell’ambito dell’insegnamento scolastico. Nell’immaginario popolare Bologna sembra un’isola privilegiata, una Bologna grassa, dotta, rossa, ma rossa di un rosso sangue, sembra. Bologna è diventata l’epicentro del giallo italiano, che monopolizza da anni, insieme alla Regione circostante, i massimi riconoscimenti italiani nel campo della letteratura poliziesca e viene per questa ragione proclamata anche Capitale del giallo italiano. A Bologna si trova anche il cosiddetto “Gruppo Tredici”, e questo gruppo non è una scuola letteraria, è piuttosto una specie di associazione, ma neanche, perché è un gruppo che non ha statuto ufficiale né cariche. Gli scrittori che l’hanno fondato sono tutti giallisti di Bologna, ma pubblicano per molte differenti case editrici e si dedicano a generi diversi, dal noir al poliziesco storico, attraverso il mistery classico, il giallo umoristico, il hard boiled tradizionale, il nero metropolitano, eccetera. Gli autori che hanno fondato il gruppo sono, in ordine strettamente alfabetico, Pino Cacucci, Massimo Carloni, Nicola Cicoli, Daniela Comastri Montanari, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli, (trovate tutti questi titoli sull’elenco), Loris Marzaduri (?), Gianni Materazzo, Sandro Toni (?). Ai dieci fondatori si sono aggiunti i disegnatori Claudio Lanzoni e …….(?) e via via molti altri autori quali Eraldo Baldini (?), Giampiero Rigosi eccetera. Punto di partenza geografico ma anche letterario è Bologna, una città che subisce, se vogliamo prestar fede agli autori del gruppo tredici, già da qualche tempo mutazioni fondamentali. Loriano Macchiavelli, che dopo aver ucciso con grande costernazione del pubblico il suo Sarti Antonio, l’ha fatto ritornare nel romanzo “La ghironda dagli occhi azzurri” del Novantaquattro. E’ una Bologna popolare, quella in cui si muove il sergente Sarti, goloso di caffé e sofferente di colite, molto diversa da quella danarosa e chic di Luca Marotta, il pigro e sornione avvocato uscito dalla penna di Gianni Materazzo. Per incontrare i personaggi di Carlo Lucarelli occorre muoversi, invece, su due direttrici diverse: quella della Bologna nera, sotterranea, violenta, di (?) armata” e di “Nikita”, che culmina nel serial killer di “Almost Blue”, e quella degli anni difficili del fascismo. Qui, oltre a “Indagine non autorizzata”, del ’93, dove si parla di un delitto avvenuto in una villa della Riviera romagnola prossima alla residenza del Duce, troviamo la serie del commissario De Luca che, nato (?) con l’Ovra, continua ostinatamente a fare il suo mestiere di poliziotto durante la Resistenza, il governo provvisorio e il successivo trionfo democristiano, indifferente ai cambi di regime e di bandiera. Per ritrovare gli eroi di Daniela Comastri Montanari, appassionata lettrice di classici greci e latini e di saggi storici e archeologici e per questo privilegiamo (?) il giallo storico di ambientazione latina, occorre invece regredire più a lungo nel tempo talvolta addirittura di due millenni, fino all’epoca dell’impero romano. Publio Aurelio Stazio è un senatore epicureo che si muove nei meandri intricati di una Roma del primo secolo, popolata di politici corrotti, speculatori edilizi, matrone disinvolte e professionisti senza scrupoli.

 

Intervento: Primo secolo?

 

Balletta: Primo secolo, sì. (..) Congiure e scandali vi sono di casa, e naturalmente il delitto. Il detective in toga non può avvalersi, ovviamente, delle impronte digitali, degli esami al microscopio, delle moderne autopsie, ma deve contare sul suo fiuto. D’altra parte, gli assassini non hanno dalla loro né rivoltelle, né mitra, ma uccidono a mani nude, col veleno come in “….” o “In corpore sano”, mediante il classico pugnale di “Mors tua” e di “Cui prodest?”, e naturalmente col gladio in “sfis (?) ultima dea” (?). Tutti questi libri, tranne “Cui prodest”, sono stati pubblicati nel ’99. Chi preferisce invece tempi più vicini ai nostri può rivolgersi a due romanzi polizieschi della stessa autrice, ambientati nella Bologna del passato: “La campana dell’arciprete, del ’96, e “Il panno di mastro Gervaso” del ’97. Dal pugnale alle bombe, ci si arriva con Marcello Fois, che malgrado la sua dichiarata sardità ha fatto da lungo tempo il nido sotto le due torri, e dal cuore della città traccia il filo sanguinante degli attentati autonomisti nella sua isola nei romanzi “Ferro recente”, di cui vi parlerò, e “Meglio morti”. Ma la Bologna gialla non si accontenta di spaziare dalla Roma antica alla ribelle Sardegna. Allunga i suoi tentacoli addirittura oltre oceano e arriva in Messico con Pino Cacucci, di “Outland rock”, “Punti di fuga”, “Demasiado corazòn”, e di “Puerto escondido”, di cui Gabriele Salvatores ci ha dato una versione cinematografica di grande successo, sempre nel ’92. A prescindere dal vigile urbano Lorenzo Marzaduri coi suoi neri metropolitani, dal matematico Nicola Cicoli, dall’esperto di cinema Sandro Toni (?) e dal poliziotto-scrittore Maurizio Matrone (?) della Questura di Bologna, autore di “Fiato di sbirro” o “Erba alta”, ne fanno parte infine giovani scrittori come Giampiero Rigosi, conosciuto per “Notturno bus” o Eraldo Baldini che ha pubblicato tra l’altro “Bambine”, “L’uccisore”, “L’estate strana”, “Faccia di sale”, o “Gotico rurale”. Ma non solo la città è fertile di delitti: l’intera Regione emiliana la segue a ruota. A Bernardino di Lugo (?) abita Loris Rambelli, che forse conoscete, che ha confermato una vocazione già evidente quando ha firmato “La storia del poliziesco nostrano” assieme a Renzo Cremante, docente dell’Università di Bologna e codirettore della rivista “Delitti in carta”, oggi considerato uno dei maggiori esperti italiani del settore. In quel di Reggio vivono invece Massimo Carloni e Mario Colaretti (?); il primo è l’autore di tutta una serie di saggi importanti, tra cui “Indagine sul giallo italiano”, dell’84, e “L’Italia in giallo. Geografia e storia del giallo italiano contemporaneo”, del ’94. Il secondo, medico scrittore, ha pubblicato già alcuni gialli come, per esempio, “Dietro la luce”, che ha vinto il Premio Tedeschi nel ’92. A metà strada, poi, abita Valerio Massimo Manfredi, già famoso autore di romanzi storici, che scrive libri di mistero ispirati all’antichità, come “L’oracolo” o “Il faraone delle sabbie”. A Bologna, invece, si svolge da anni il “Police festival” cinematografico, che assegna anche il premio “Fedeli” all’autore che meglio ha descritto nel romanzo la figura del poliziotto. E sempre a Bologna, dove agisce l’”Associazione scrittori” (?) di cui fanno parte molti giallisti, viene anche edita “Delitti in carta”, la prima rivista dedicata totalmente alla letteratura poliziesca italiana. Vedete già, siccome una limitazione tematica sarà indispensabile, preferirei concentrarmi in seguito sulle biografie e qualche romanzo scelto di Loriano Macchiavelli, Carlo Lucarelli e Marcello Fois, sottolineando l’aspetto storico dei testi. Loriano Macchiavelli dev’essere considerato uno dei maggiori esponenti della detective story made in Italy. Nato a Vergato, Bologna, nel ’34, prima di diventare autore di gialli Loriano Macchiavelli ha frequentato l’ambiente teatrale come organizzatore, come attore, e infine come autore. Sue opere teatrali sono state rappresentate da varie compagnie italiane. Dal 1974 si è dedicato al genere poliziesco e ha pubblicato numerosi romanzi diventando uno degli autori italiani più conosciuti e più letti. Il ’74 è anche l’anno in cui ha vinto, con il romanzo “Fiori alla memoria”, il premio “Grangiallo città di Cattolica” (?). A Pieve del Pino, un paese dell’Appennino tosco-emiliano, si sta erigendo un monumento ai caduti partigiani, ma un incendio doloso distrugge parte del cantiere. Dell’indagine viene incaricato Antonio Sarti, colitico sergente della Questura bolognese. Subito gli avvenimenti precipitano: malgrado la sorveglianza, sul monumento appare non solo una scritta inneggiante alla destra, ma viene trovato il cadavere di un giovane del paese. Sembra che si tratti di un delitto a sfondo politico, di un attentato dei fascisti, ma se è veramente così questo non ve lo dico, e questo vale anche un po’ per tutti gli altri libri, perché un giallo di cui si conosce la fine mi sembra una sciocchezza leggerlo, no? Forse avete già intuito che i libri di Macchiavelli presentano una Bologna attuale e viva, ben lontana dalla solita vecchia iconografia, e anticipano drammaticamente le mutazioni successive della città. Inoltre Macchiavelli ha creato un personaggio molto particolare, Sarti Antonio, che ha fatto la storia del giallo italiano. Bolognese come il suo creatore, amante del caffè, non esattamente una cima, Sarti Antonio dipende molto dall’aiuto che gli fornisce Rosas. In un certo senso è proprio Rosas, ex-sessantottino, nullafacente, il protagonista principale perché è lui che fornisce sempre le indicazioni per risolvere i casi. Sarti Antonio è entrato anche nel fumetto, con una serie di avventure tratte dai romanzi, ed è diventato anche un personaggio cinematografico e televisivo. Dal romanzo “Passato, presente e chissà”, del ’78, è stato tratto lo sceneggiato televisivo per Raidue, “Sarti Antonio brigadiere”, in quattro puntate, che è andato in onda nell’aprile dello stesso anno. Più o meno dieci anni dopo, Raidue ha prodotto una serie di tredici telefilm tratta dai suoi romanzi e racconti, i cui esterni sono stati girati interamente a Bologna e dintorni. La serie ha per titolo “L’ispettore Sarti, un poliziotto, una città”, ed è andata in onda su Raidue nel ’91. La serie televisiva di Sarti Antonio è proseguita sempre su Raidue con una coproduzione italo-tedesca di sei film, ancora tratta dai romanzi di Macchiavelli e andata in onda nell’aprile-maggio del ’94. Assieme a Marcello Fois e Carlo Lucarelli, Macchiavelli ha fondato, come vi ho già detto, il gruppo Tredici, e con Renzo Cremante ha fondato e dirige la rivista “Delitti in carta”; che si occupa esclusivamente di poliziesco italiano. Pubblica con i maggiori editori italiani e collabora con numerosi quotidiani e periodici. Suoi gialli sono stati tradotti anche all’estero. Macchiavelli, che ha vinto vari premi letterari, ha anche pubblicato due romanzi con lo pseudonimo di …………(?) e qualche anno fa ha intrapreso un’interessante e proficua collaborazione con Francesco Guccini, per “Macaronì”, del ’97, “Un disco dei platters”, del ’98, e per “Questo sangue che impasta la terra”, del 2001. “Macaronì”, il primo romanzo della trilogia scritta assieme a Guccini, racconta l’investigazione di Benedetto Santovito, un maresciallo antifascista venendo (?) dal sud e per questo trasferito nell’Appennino tosco-emiliano, freddissimo e povero, dove una mattina viene trovato il corpo di un paesano, un vecchio emigrato ritornato dalla Francia, steso in mezzo alla neve. Nel romanzo “Un disco dei Platters”, invece, il maresciallo Santovito torna dopo vent’anni nel tranquillo borgo appenninico che però trova completamente cambiato: la locanda è scomparsa, ora c’è il bar con il juke box, e si vedono i primi villeggianti. Anche il maresciallo è cambiato, e decide di prendersi una vacanza, spinto dai ricordi. Con lui arrivano una giovane insegnante e un misterioso turista tedesco, ma proprio allora il borgo tranquillo si risveglia: un ragazzo salta su una mina, un altro scompare ed è poi trovato morto, e le vecchie donne del paese ricordano le leggende della Borda, la strega delle acque, e i tesori misteriosi (quindi c’è tutta questa trama particolare). In “Questo sangue che impasta la terra”, due avvenimenti irrompono nella vita da pensionato dell’ex maresciallo Benedetto Santovito: nottetempo, un giovane in tuta mimetica viene scaricato, morente, da una jeep davanti all’ospedale di una paese dell’Appennino, e poco dopo una giovane studentessa, figlia di un’amica del commissario, scompare misteriosamente. Forse i due avvenimenti sono collegati, e così Santovito per conto suo comincia ad indagare nella Bologna dei primi anni Settanta.

Passiamo a Carlo Lucarelli. Carlo Lucarelli è nato nel 1960 a Parma, ma vive nelle vicinanze di Bologna. Affermato scrittore di letteratura gialla e noir, Lucarelli sa mescolare sapientemente i generi tra loro, ottenendo risultati sorprendenti. Il suo percorso narrativo va dai racconti brevi, sparsi nelle varie antologie del gruppo Tredici di cui fa parte, alla trilogia giallo-storica con il commissario De Luca, pubblicata dalla Sellerio, a tutta una serie di romanzi ambientati nella Regione emiliana d’oggi. “Carta bianca”, del ’90, è il primo romanzo che compone la trilogia del commissario De Luca. Il libro è nato da una tesi di laurea sulla polizia della repubblica di Salò. “Carta bianca” è un giallo che si interroga sul ruolo della polizia nell’epoca dei totalitarismi, cioè un giallo “a pretesto”, tra virgolette, in cui il fascismo è pretesto per la trama poliziesca e per quella caratteristica interrogazione morale in cui il giallo confluisce. In effetti la trama si svolge nel mese di aprile del ’45, cioè negli ultimi giorni della Repubblica di Salò, sullo sfondo del mondo dei gerarchi fascisti, del traffico finanziario-spionistico tra il regime e i nazisti, e della corruzione di una classe dirigente dai giorni contati. Con “L’estate torbida”, del ’91, Carlo Lucarelli ha scritto il secondo romanzo giallo, in cui lo scrittore ha tratto dalla storia della polizia repubblichina, non tanto un singolo caso misterioso, quanto un’atmosfera torbida, un’atmosfera di disillusione. Nell’ estate torbida seguente al tracollo del fascismo, De Luca, uomo onesto e laico in un mondo di corruzione e di ideologie, funzionario fedele al dovere, viene richiamato ufficiosamente ad indagare, si occupa di una strage dai misteriosi moventi. E “Via delle oche”, infine, del ’96, l’ultimo romanzo della trilogia, si riferisce ad una strada rinomata a Bologna. Prima della legge Merlin, vi erano le cosiddette case chiuse. Tra nercoledì 14 aprile del 1948, e giovedì 15 luglio 1948, cioè un pugno di mesi che include svolte decisive, come le elezioni del ’48 e l’attentato a Togliatti, un’inchiesta di polizia si svolge, che muove da un delitto in un casinò, a cui seguono alcuni omicidi disparati, apparentemente indipendenti. Il commissario De Luca coglie la verità del delitto, ma solo nell’attimo in cui la ragione dello Stato e della storia viene ad inghiottirla (?). E “L’isola dell’angelo caduto” è l’ultimo libro di Carlo Lucarelli di cui vorrei parlarvi. “L’isola dell’angelo caduto”, del ’99, è il titolo di un altro libro in cui Lucarelli tematizza il ventennio fascista. Nel gennaio 1925 viene trovato il cadavere di una camicia nera suuna spiaggia isolata di un’isola di confino. Il giovane commissario, che dirige la Questura del luogo, è un liberale alla Gobetti. Le indagini si complicano perché portano alla luce i vizi nascosti dell’isola e del regime, e si tingono, in aggiunta, di magico, perché coinvolgono personaggi misteriosi giunti nel luogo da chissà dove. Lucarelli, che ha vinto i più prestigiosi premi della letteratura poliziesca, tra cui il premio “Mistery” con “Via delle oche”, nel ’96, sembra essere sempre in movimento da un capo all’altro dell’Italia, senza contare le presenze estere, anche in Germania, come ambasciatore di giallo italiano. Partecipa volentieri, sembra almeno, a quante più manifestazioni e incontri letterari può, soprattutto se dedicati alla letteratura gialla e noir. Ho avuto modo di conoscerlo l’anno scorso in occasione del “Salon du livre” a Parigi, è un personaggio molto molto affascinante, anche simpatico. Quasi tutti i suoi romanzi sono stati tradotti e pubblicati in numerose lingue. Lucarelli, che fa parte dell’”Associazione scrittori” di Bologna, è docente di scrittura creativa alla scuola “Holden” di Alessandro Baricco a Torino, e nel carcere “Due palazzi” di Padova, ma è anche curatore della rivista telematica “Incubatoio sedici” (?). Insieme a Luigi Bernardi, l’autore della postfazione che ho distribuito, cura la selezione noir della collana “Stile libero” della Einaudi, nella quale sono inseriti i suoi romanzi “Il giorno del lupo”, “Almost blue” e “Guernica”. Inoltre Carlo Lucarelli ha condotto per la Rai il programma televisivo “Mistero in blu”, che forse conoscete, successivamente intitolato “Blu notte”. Ogni puntata Lucarelli narra di un caso insoluto di omicidio come fosse un giallo. Da un suo racconto, “La tenda nera”, è stato tratto uno scenegggiato televisivo con Luca Barbareschi, e dal suo romanzo “Almost blue” Alex Infascelli ha tratto un film. Ed anche il suo libro “Lupo mannaro” è diventato un film di Antonio Ribaldi, sempre nel duemila, con sceneggiatura sua e di Laura Paolucci (?). Lucarelli scrive anche sceneggiature di fumetti e soggetti per videoclip, l’ultimo per Vasco Rossi ha avuto la regia di Roman Polansky (?), e canta talvolta con il gruppo post-punk o punk “Progetto K” (?).

L’ultimo autore che vorrei presentarvi è Marcello Fois, forse un po’ meno conosciuto. Marcello Fois…

 

Maracci: partecipò a un seminario loro due anni fa.

 

Balletta: Ah, quindi lo conoscete.

 

Maracci: Sì sì.

 

Balletta: Accidenti! (…interventi incomprensili) Allora, Marcello Fois, nato in Sardegna nel ’60, fa parte della nuova leva degli autori italiani di gialli di qualità. Nel 1980 si trasferisce per motivi di studio a Bologna, dove si laurea in italianistica nell’86. La sua carriera di autore inizia nel ’92, quando vince il premio Calvino per “Picta”; è il primo di diversi premi che ha vinto nel frattempo per i suoi romanzi, che sono principalmente ambientati in Sardegna, ma anche a Bologna e a Roma. Nello stesso anno, cioè nel ’92, pubblica per “Granata press”, “Ferro recente”, che riscuote numerosi consensi e che viene ripubblicato dalla Einaudi nel ’99. Seguono: “Falso gotico nuorese”, “Meglio morti”, “Il silenzio abitato delle case”, “Gente del libro”, “Nulla” e “Sceol” (?), nel giro di pochi anni. “Ferro recente”, per esempio, racconta un delitto improvviso, apparentemente inspiegabile e inspiegabilmente feroce. Due ragazzi vengono aggrediti e massacrati mentre fanno benzina a un self service sulla statale per Nuoro, e poi visibilmente composti di fronte alla loro Alfa targata Bologna. Segue tutta una serie di avvenimenti intrecciati, risonanze e collegamenti che vanno dagli anni Ottanta ai nostri giorni, dall’Emilia alla Sardegna, da storie di terrorismo a storie di sangue, di passione, di follia. C’è sotto, a rimbombare cupo e nascosto, uno di quei misteri pericolosi di una terra sarda antica, muta e tagliente appunto come il ferro, che solo autori che la conoscono, e la amano e la odiano come Marcello Fois, riescono a raccontare. “Ferro recente” è un romanzo che l’autore stesso definisce – segue una citazione – “Il racconto di un posto, il tentativo di stabilire fino a che punto può resistere una cultura millenaria di fronte alle malìe della modernità. Una storia di terrorismo in Sardegna, a Nuoro, una storia di generazioni confuse o forse troppo coscienti rispetto a una crisi irreversibile. Una storia di ritardi e di eccessi”. (fine della citazione). Un anno dopo la pubblicazione di “Ferro recente”, Marcello Fois torna a raccontare una Sardegna dura, contraddittoria e ricca di storie antiche, nel suo romanzo “Meglio morti”. E’ la storia di un corpo di una bambina ritrovato in un bosco durante una battuta di caccia, è la storia di una donna finita in carcere per aver assassinato a martellate il marito, una storia di appalti truccati nel Nuorese e di un mistero inquietante che in qualche modo sembra legare le tre vicende. Il titolo del romanzo “Sceol”, pubblicato nel ’97, invece, recita un versetto della Bibbia: “Lo Sceol, il regno dei morti, si commuove per te aspettando il tuo arrivo. Egli risveglia per te le ombre..” eccetera. Il protagonista di questo giallo si chiama Ruben Massei (?), è un ispettore della squadra mobile di Roma, ha cinquanta anni ed è ebreo. Poliziotto attento e metodico, di dichiarate simpatie progressiste, Massei ha parecchi conti aperti con se stesso, con un vissuto lacerato, ambivalente e contraddittorio, mai pienamente accettato e mai pienamente respinto. Così, quando un omicidio lo catapulta nel cuore di un intrigo all’ombra della comunità ebraica, per Massei venirne a capo significa non soltanto scovare il colpevole, ma anche e soprattutto affrontare i nodi irrisolti della sua vita e della sua anima. Diventa un’investigazione dolente e pericolosa, percorsa dal filo rosso della storia privata e quella collettiva, sospesa tra gli orrori del passato e le ambiguità dei nostri giorni, fino alla scoperta finale dove l’assassino avrà un volto, un nome, e anche un movente. Il ’98, l’anno della pubblicazione del romanzo “Sempre caro”, significa un’altra tappa importantissima nella carriera di Marcello Fois. La trama si svolge a Barbaccia (?), un paese sardo della fine dell’Ottocento. Il protagonista è l’avvocato Bustianu (?), un uomo che è a metà fra la tradizione e la modernità, in un tempo in cui non c’erano il telefono, i fax e i computer, né si conosceva l’uso delle impronte digitali. In un mondo dove l’annesione a una nazione moderna, cioè l’Italia appena nata, era spesso sentita, forse non sempre senza ragione, come una prevaricazione. Pure il linguaggio è giocato sulla particolarità bilingue della terra che ambienta “Sempre caro”: linguaggio che però non è italiano sardizzato né sardo italianizzato, ma, come spiega Fois in un’intervista, “L’espressione della libertà di un bilingue che nega l’autorità assoluta di una delle due lingue e ha il coraggio di disobbedire a entrambe”. Il successo di “Sempre caro”, che vince il Premio Scerbanenco (?) e il Premio “….” (?), apre anche la strada alla carriera all’estero: viene pubblicato dapprima in Francia e poi in Spagna, Portogallo, Germania, Olanda e anche in Inghilterra. “Sangue dal cielo”, del ’99, è la seconda avventura dell’avvocato Bustianu (?), che deve occuparsi di nuovo di un caso difficile da risolvere, che porterà l’avvocato-poeta a confrontarsi soprattutto con se stesso, con le sue debolezze, ma anche con le sue certezze. E non gli dà tregua una pioggia insistente e testarda che cesserà solo quando l’indagine verrà conclusa. Dopo “Sempre caro”, Marcello Fois costruisce un nuovo affascinante romanzo, come suggerisce Manuel Vazquez Montalbàn nella prefazione. Cito: “E’ la riconferma di questo sorpredente investigatore, sommerso dal rapporto tra natura e delitto”. “Gap”, pubblicato nel ’99, è l’ultimo romanzo che vorrei presentarvi. E’ la storia di un incontro tra generazioni, in un luogo anonimo della pianura padana, dominato dalla nebbia, cioè una specie di non-luogo. Fois cerca di ricostruire un pezzo di storia breve, di cinquanta anni, in un flusso continuo, dall’orrore della guerra partigiana all’orrore delle stragi del sabato sera. Ma “Gap” è soprattutto un tentativo di capire in quale punto del percorso si è perso il filo della memoria. Tre ragazzi di ieri, Tunin (?), Salvatore, Ersilia, che si preparano a un’azione partigiana un sabato notte nella nebbia del ’45; tre ragazzi di oggi, Gino, Sonia, Rossella, che tornano da una discoteca in Riviera in un sabato notte di nebbia del ’95. Affascinante, molto affascinante, il concetto della nebbia come catalizzatore della memoria. La sua scrittura tratta essenzialmente intrecci noir, in modo diverso dal solito. Cioè, le sue storie, catturate (?)) per suspence e originalità, vengono trattate con una sensibilità inconsueta per questo genere. Con altre parole, la scrittura di Fois tratta i classici temi del giallo e del noir senza dimenticare la politica, la cultura, e l’aspetto sociale. In “Gap”, per esempio, ha cristallizzato l’abisso tra i problemi e le responsabilità di due diversi gruppi di ventenni: il primo combatte la Resistenza (per la Resistenza?), mentre l’altro vive tra le macchine veloci, droghe e discoteche. L’origine del gap tra queste due generazioni è, secondo Fois, proprio l’assenza di memoria. Marcello Fois lavora come scrittore……..

(pausa nella cassetta)

 

…di giovani scrittori. I racconti e i libri di Marcello Fois sono apparsi in importanti antologie ed è tradotto (sono tradotti?) all’estero. Lavora con i più importanti quotidiani e periodici nazionali e anche alla realizzazione dei film che saranno tratti da “Sempre caro” e “Ferro recente”. Arriviamo alla fine. La presenza della Storia, cioè la storia quella con la esse maiuscola, è tipica del giallo-denuncia italiano, e anch’essa giocata su piani diversi. Storia ufficiale vicino a quella che non lo è, ma illumina le menzogne della prima o aiuta a chiarirne i meccanismi senza dare risposte univoche del suo sviluppo, ma creando ipotesi e diversioni che mettono l’accento sul dubbio e sulla riscrittura nelle versioni ufficiali degli eventi. Carlo Lucarelli nella serie del commissario De Luca, per esempio, gioca su un triplice livello di tensione, cioè quella esterna, che caratterizza gli eventi storici stessi, quella personale del protagonista, e quella del mistero da risolvere, costruendo una sottile quanto oppressiva atmosfera di dubbio sull’interpretazione di fascismo, di Resistenza, di comunismo e dei loro eroi. Se volete, non ho parlato di Andrea Camilleri anche perché non mi piace molto (?). Anche Andrea Camilleri mette al centro…

 

Intervento: (incomprensibile)

 

Balletta: No no. Camilleri mette al centro di tante sue storie Ottocentesche le reticenze e menzogne della storia ufficiale, questo è evidente. Ma questa centralità della storia, in un’ottica critica e giocata su un tono lontano da quell’impegno politico e sociale troppo scoperto che la narrativa gialla italiana aveva fatto suo negli anni Settanta, in cui la denuncia aveva intenti didascalici ed era spesso sorretta dall’ideologia marxista. Nei gialli storici di Lucarelli, di Fois, di Macchiavelli e soprattutto di Camilleri, l’accento è posto sulla problematicità del giudizio storico. Spesso nel testo ci sono date precise o inserzioni di articoli di giornale per dare maggior realismo, come una sorta di romanzo-documento, ma anche perché si è capito che la storia va indagata con gli stessi mezzi di un’indagine gialla. E’ un puzzle in cui ogni dettaglio va scrutinato (scrutato?) attentamente ed è anche immagine della realtà frammentaria che ci circonda. Se la pagina scritta è uno specchio che aiuta a riflettere attraverso la riproduzione del disordine contraddittorio della realtà contemporanea e delle certezze epistemologiche dell’esperienza moderna, lo strumento migliore per questa analisi è proprio il giallo, grazie al suo rigore logico, vero o presunto che sia. Vi ringrazio.

 

Intervento: Ci sono domande?

 

Intervento (a): Io ho letto “Almost blue”, e il commissario non è un uomo, è una donna, no? Si chiama Grazia.

 

Balletta: Si chiama Grazia, sì.

 

Intervento (a): Ci sono altri romanzi …dove Grazia fa parte del…

 

Balletta: Sì, ce ne sono due.

 

Intervento (a): Come si chiamano?

 

Balletta: Cercherò. Vediamo se lo trovo…Allora, “Lupo mannaro”, mi sa, e anche “Febbre gialla”. Magari qui mi viene in mente una cosa, perché “Febbre gialla”, per esempio, è un libro scritto per i giovani, quindi un giallo che si indirizza ai giovani; e anche “Il trillo del Diavolo” fa parte un po’ di queste storie sullo sfondo del Ventennio dell’epoca fascista, e potrebbe essere magari interessante anche per voi come insegnanti perché è abbastanza breve, quindi anche per quanto riguarda la quantità di pagine ma anche il livello lingustico potrebbe essere interessante per i vostri studenti.

 

Intervento (a): Come si chiama il libro?

 

Balletta: “Il trillo del Diavolo”.

 

Intervento (a): Secondo Lei è un fenomeno unico (di) inventare una donna come commissario, nei gialli italiani, o succede spesso?

 

Balletta: No, non succede spesso.

 

Intervento (a): E’ un caso unico?

 

Balletta: Caso unico… Penso…

 

Intervento (b): Ci sono tanti giudici, in Italia…

 

Balletta: Sì, sì, avvocati, eccetera, questo però è un altro percorso. Almeno come, diciamo, parte della Polizia o dei Carabinieri, sicuramente è una cosa piuttosto eccezionale, questo è vero.

 

Intervento (b): Però ……nei filmati. Nei filmati televisivi le donne…

 

Balletta: Sì sì.

 

Intervento (b): Il filmato televisivo (?) perfino esagera, è quasi sempre una donna…

 

Balletta: Si può anche giocare un po’ sui clichés…

 

Intervento (b): E’ una pura ipocrisia (………………..)

 

Balletta: Ma secondo me dipende anche, diciamo, dalle strutture. Cioè, nel momento in cui abbiamo un poliziotto, o un carabiniere, forse è anche una questione di realtà, non so. Ma è vero: insomma, le donne che troviamo nell’ambito di queste investigazioni non hanno niente di femminile, se vuole. Cioè, fanno la parte dell’uomo. Anche questo è un po’ strano.

 

Intervento (c): Sì ma è così (?). Sono semplicemente più fotogeniche.

 

Balletta: Se facciamo il paragone tra… sì.

 

Intervento (c): incomprensibile.

 

Balletta: Ci arriviamo, credo. Credo che questa sia ancora la prima tappa, forse, ma credo che ci arriviamo, sì.

 

Intervento (a): (…) vedono più televisione gli uomini o le donne?

 

Balletta: Mah, non saprei. Non credo che ci sia differenza.

 

Intervento (a): …..forse più le donne, secondo me.

 

Balletta: No, non credo, non so.

 

Intervento (d): moderatrice?: …….. ci sono diversi stimoli interessanti nell’intervento che abbiamo ascoltato. Pongo (?) a un esperto di gialli un giallo da risolvere. C’è un autrice di gialli, che vive a Venezia e che qui in Germania e in molti altri paesi, forse anche in Francia, è notissima, Donna ……., credo in inglese (?), lei è americana, e si fa tradurre in tutte le lingue, ha espressamente vietato che si traduca in italiano. Lei ne sa qualcosa? Lo sa perché l’ha intervistata, vero?

 

Balletta: Sì, perché ho fatto un intervista con lei, quindi vi raccomando la lettura dello zibaldone dell’anno……..

 

Intervento (D): Lei ha detto che non vuole essere riconosciuta a Venezia. Vuole essere tranquilla, fare la spesa…

 

Balletta: Va beh, se è per questo basta aprire le pagine gialle eh…..l’elenco telefonico, trovate il nome, trovate l’indirizzo, trovate il numero di telefono.

 

Intervento (d): E’ paradossale, perché…..e qua (?) nessuno la conosceva, una situazione paradossale, proprio.

 

Balletta: Lei, come dice lei, questa è la spiegazione che lei mi aveva dato: non vuole essere riconosciuta, quindi non so… effettivamente è così, un anno dopo l’intervista l’ho incontrata ancora una volta a Venezia, e siccome io ero un po’ ignorante del posto lei mi aveva aspettato proprio al centro, al Rialto, e quindi era chiaro, cioè, questi cento metri, dal Rialto fino al bar, si capiva subito chi veniva dalla Germania: tutti a bisbigliare, “Ah, ma sarà mica lei…”, quindi non so se fa parte un po’ di queste strategie…

 

Intervento (d): gli italiani la ignoravano!

 

Balletta: Perché non la conoscevano. Ma non so, forse fa anche parte di questo mito che si sta un autocreando, non so. Ma forse è veramente così, che ci sono dei motivi piuttosto pratici. D’altro lato,non ci sta mai, è sempre in giro, quindi…

 

Intervento (D): E’ sempre in giro a fare bagni di folla, …..a Monaco si picchiavano (?) per andarla ad ascoltare, quindi sta sempre in giro comunque a farsi massacrare dalle folle…

 

Balletta: Ma credo che la situazione è cambiata già un po’.

Intervento (D): La conoscono?

 

Balletta: La conoscono, ma il momento di gloria è passato. Anche lì, questo potrebbe essere un esempio molto interessante, anche per quanto riguarda ciò che abbiamo sentito oggi, oggi pomeriggio. L’Italia che ci si presenta tramite questi libri, che sicuramente ha un influsso enorme anche sugli stereotipi, sui pregiudizi, viene creata da un’americana. Anche questo secondo me fa parte…

(intervento incomprensibile)

 

Balletta: Questo successo, secondo me, si spiega anche dal (col) fatto che lei scrive ciò che noi pensiamo dell’Italia. (Quindi io)…. che noi tedeschi aspettiamo. (Quindi ci sono)…lei mi piace come persona e anche i libri mi piacciono, ma ci sono comunque cose che non mi piacciono, ad esempio mi chiedo se il vice-questore deve essere per forza un meridionale, se a Mestre non ci sono dei pigri, quindi qui gioca anche un po’ un gioco un po’ pericoloso, secondo me, coi clichés. Ma tutto sommato, insomma…

 

Intervento (e?): Secondo me è questo il motivo per cui non vuole essere pubblicata in Italia, perché qualsiasi italiano che legge questi romanzi…

 

Balletta: Farsi massacrare..

 

Intervento (E): ..sono falsi, sono falsi e infatti li detesto. Non li sopporto, questi romanzi. Mentre invece c’è una inglese, credo, che si chiama Magdalene ….., che scrive su un commissario… a Firenze, anche ci sono degli stereotipi ma sono più sottili. Ma è strana questa cosa, cioè questa inglese che scrive di un commissario anche lui meridionale…..no, è dei carabinieri, non è commissario…..meridionale, anche lì ci sono degli stereotipi, però è scritta in maniera un po’ più sottile. …….Non so se è tradotta (?)

 

Balletta: Sì, dalla….

 

Intervento (e): In italiano.

 

Balletta: Ah, in italiano? Non credo. Forse sarà per gli stessi motivi…

 

Intervento: ………..sono tradotti in tedesco, tutti oppure molti…

 

Balletta: La maggior parte. In questo momento c’è questo fenomeno di riscoprire i vecchi giallisti degli anni Cinquanta e Sessanta. Ha cominciato un po’ con Scerbanenco, De Angelis, per esempio, cioè c’è tutta una miriade di autori che è stata riscoperta. Anche i minori, direi. Anche questo è un fenomeno molto interessante, prima non c’era niente, adesso ci sono pure quelli che io preferirei non ristampare. Ma è così.

 

Intervento (e?): Ma questa proliferazione dei gialli, per esempio in Germania ci sono questi gialli (………incomprensibile)……..Cioè, ogni città ha il suo giallista. Ma c’è una causa, io mi domando, per questa proliferazione immensa dei gialli?

 

Balletta: Sì.

 

(interventi incomprensibili)

 

Balletta: La Svezia sicuramente in questo momento vive del mercato-gialli.

 

Intervento (f?): Io ho letto una raccolta di racconti dei giovani cannibali. Fanno anche parte del genere giallo o……..

 

Balletta: Questo è un altro fenomeno. C’è, diciamo, una tendenza letteraria che ha avuto un certo successo soltanto negli anni Novanta, una giovane generazione di scrittori che, è vero, cioè un gruppo, cioè non è un gruppo, già qui comincia il problema: che non possiamo parlare di un gruppo, no? Ci sono parecchi autori che hanno pubblicato più o meno nello stesso momento…

 

Intervento (F): Un volume con diversi racconti, no?

 

Balletta: Ecco, ma poi è cominciato tutto questo dibattito dei cannibali, poi si sono creati i vegetariani, come contrapposizione, insomma tutto un altro dibattito, direi. Ciò che collega queste due tendenze è la descrizione esplicita della violenza, i giovani cannibali giocano proprio con questo aspetto, quel violento (?), che è stato influenzato molto dal film “Pulp fiction” di Quentin Tarantino. Quindi un problema di definizione, perché cosa significa un giallo? Un morto non basta per fare di un libro un giallo. Quindi ci vogliono parecchi elementi piuttosto fissi, rigidi, perché un libro diventi un giallo, quindi non basta solo un po’ di sangue. Ci sono testi dove, diciamo, questi generi si avvicinano, ma no.

 

Intervento (F): Quello che mi ha disturbato un pochino è che ci sono descrizioni veramente crudeli (?).

 

Balletta: No, ma questa è l’idea, proprio è voluto, di mettere in evidenza questa brutalità, anche.

 

Intervento incomprensibile.

 

Balletta: I più conosciuti, direi: Ammaniti, Nove…

 

Intervento (F): Non ho capito, ma io ho avuto l’impressione che Lucarelli…..Però Lucarellli l’hanno messo insieme agli altri, e in quel periodo gli ha fatto comodo, non ha obiettato nulla.

 

Balletta: Sì, ma anche qui credo che ci sono altri aspetti che dobbiamo prendere in considerazione. Sempre il mercato, quindi. D’altro dobbiamo anche dire che per esempio questo fenomeno dei giovani cannibali ha aiutato molto all’uno o all’altro che normalmente….

 

Intervento: …Ha poco successo

 

Balletta: E che non ha niente a che fare con questo filone. Per esempio, io penso alla Campo, Rosanna Campo, tutti hanno parlato della Campo che non ha assolutamente niente a che fare con i giovani cannibali, ma le faceva comodo perché c’era questo periodo, gli anni Novanta, in cui potevi vendere tutto con l’etichetta di “giovani cannibali”. Ma già adesso si vede che saranno pochissimi a sopravvivere, pochi pochi. Brizzi per esempio, ma non molti credo.

 

Intervento (Moderatrice): Va bene, allora se non ci sono altre domande, altri interventi, vi auguro buona serata e ci vediamo domani alle nove.

 

 

(CASSETTA 8 -Rusconi 1. Sabato 24 aprile- mattina)

 

(Gian Enrico Rusconi, Università di Torino: “Italia Germania Europa”)

 

(…)

Rusconi: Mentre Germania e Italia sono stati i promotori principali dell’Unione, non per idealismo, ma per egoismo, perché erano i due paesi che avevano più bisogno dell’Europa, no? E poi siccome non posso fare una storia lunghissima, sono arrivato agli anni Novanta in cui – e qui c’è anche un po’ la mia biografia – il rapporto si è rasserenato, ma oggi i rapporti……sono un politologo ma non voglio fare politica. Oggi i rapporti politici tra Germania e Italia sono freddissimi. I due governi non si capiscono. Ma non soltanto i vertici, ….che Berlusconi e Schroeder, ma proprio le due classi politiche. Questo mi dispiace comunque non ne voglio parlare. Ma mai i rapporti sono stati così freddi. Naturalmente, ipocritamente cortesi, no? Nel senso che sta iniziando un terzo ciclo. Io ho due cicli: il primo, della guerre, tremendo; il secondo dell’europeizzazione, quindi della pacificazione, e il terzo che è quello che sta iniziando adesso. Questo è un po’ il grande quadro. E io insisterò un po’ più sul primo, non perché il secondo non sia importante, c’è un po’ di eccesso di retorica sull’Europa, perché il problema oggi è che abbiamo troppe aspettative sull’Europa. Vabbè, lasciamo perdere, poi caso mai parliamo di queste cose. Invece voglio parlarvi un po’ più del primo, cioè le radici degli stereotipi. E incomincerò con una data forse per voi sorprendente ma non so, che è il 1866, non so se vi dice qualcosa questa data. Il 1866, secondo la mitologia italiana è la terza guerra di indipendenza e secondo la mitologia Bismarkiana è…..Allora, questa storia comincia con due battaglie diversissime: …………o …come diciamo noi, in cui la Germania Bismarkiana inizia la sua fase di autoaffermazione con una grande vittoria militare. Custoza in Italia è la prima battaglia del regno unito che finisce male. Custoza è una specie di stigma, non so se voi conoscete…. Esiste tutta una letteratura su Custoza, cioè la grande frustrazione italiana, di una battaglia sconfitta e comincia qui il malinteso “gli italiani non si battono”, tutta la retorica negativa della frustrazione. E va avanti questa storia, che in parte è militare. Perché è in parte militare? Perché gli Stati di potenza allora, a un certo punto ricorrevano con disinvoltura alla guerra. La guerra non era affatto considerata un crimine come la consideriamo noi, era normale fare la guerra. Noi facciamo fatica a capirlo. E la Germania e l’Italia e l’Austria, questo era ancora più complicato …perché tra l’altro, una delle cose che abbiamo dimenticato è che, almeno fino al 1915, il ceto politico colto distingueva fra Germania e Austria, molto molto profondamente. Noi eravamo alleati con la Germania anche per tenere a bada l’Austria. E l’impero Guglielmino usava l’Italia anche per – questa è una cosa che abbiamo completamente dimenticato, e che io mi ritrovo continuamente: è quest’idea del distinguere il tedesco prussiano, che è una cosa diversa dall’austriaco. Cose che voi direte: ma questo è antiquariato. Può darsi che sia anche un po’ antiquariato, ma le radici, se cerchiamo delle radici, vengono di qua. Adesso faccio di nuovo un passo indietro, perché volevo leggervi l’assunto da cui parto che magari voi mi falsificate. Inutile dire che poi c’è anche la ……..e questo è inevitabile, ci sono un sacco di cose di cui qui non posso parlarvi oggi, cioè i due modi diversi con cui Italia e Germania hanno fatto i conti col loro passato, che però rimandano a un’idea diversa di fascismo e di nazismo, perché io ho l’impressione che a livello di cultura media si considera il fascismo una variante debole del nazismo. E no, è totalmente diverso il fascismo: è costruito in maniera diversa, allora voi capite perché noi abbiamo una simpatica ragazza che si chiama Alessandra Mussolini che ..voi immaginate una nipote di Hitler…ma non è superficialità, subito ecco “Voi siete superficiali, avete una Mussolini..” – una simpatica ragazza, signora ormai; ma perché il fascismo non è una variante minore del nazismo, dico così perché io ho a che fare…faccio sempre un …..seminar alla ………………. (università di…) agli studenti tedeschi, e vedo tutti questi stereotipi loro, quest’idea per cui se parli un po’ positivo del fascismo ti guardano male, perché è costruito in maniera diversa, ha tutta una storia diversa, capite cosa voglio dire? Questo non c’entra niente, ma gran parte della letteratura comparativa è equivoca, perché l’etnocentrismo tedesco fa: “Noi siamo i più bravi e i più cattivi”. E quindi tutti gli altri sono o meno bravi o meno cattivi. Scusate queste battute, ma voglio essere sintetico. No, è sbagliato, perché l’talia ha una storia diversa, non siamo né meno buoni né meno cattivi rispetto alla Germania, smettetela di essere etnocentrici. Vediamo un po’ com’è la situazione, vengono fuori delle cose singolari. Che poi arrivano fino al governo attuale che all’inizio sembrava “I fascisti al Governo”, ma no, un momento, chi sono questi qua, da dove vengono? Voi capite che se voi partite da un assunto storico sbagliato non capite neppure perché si arriva a oggi. Qui ci vorrebbe però un altro seminario per spiegare….è difficilissimo spiegare…lo dicevo ieri a tavola: è difficilissimo spiegare oggi la situazione italiana del nostro Governo aldilà delle posizioni pro o contro. Perché è sovraccaricato di stereotipi impropri. Mi sono arrabbiato furiosamente un anno fa, quando lo….ha tirato fuori l’analogia Berlusconi-Mussolini: non solo è una stupidata, ma è un errore storico che davvero fraintende completamente tutto il nostro lavoro. Che ci stiamo a fare noi professori, che dobbiamo supportare (o sopportare?) queste cose qua. Se voi partite con questo assunto, seppure scherzando, non capite più nulla. Ci capiamo sempre meno (?), e si arriva alla situazione di oggi. Perché non solo a livello di politica, ma anche a livello di intellettuali alti, alti nel senso metaforico, c’è molta freddezza. Io non lo so se è una proiezione mia personale, ma rispetto a dieci anni fa facciamo più fatica a parlarci. Ma non lo so perché, può darsi che sia un fatto congiunturale. Scusate se faccio queste divagazioni, ma voi siete grandi e capite che io voglio lasciarvi una serie di messaggi problematici su cui eventualmente si può dopo ……(discutere?). Ora torniamo indietro. Italiani e tedeschi sono convinti di conoscersi molto bene, ma non è vero. Sanno troppo poco della loro storia reciproca. Depositate (?) memorie controverse e unilaterali. E’ una storia politica, che si suppone di conoscere già, degli ultimi centocinquanta anni, che ha forgiato in maniera decisiva il modo con cui i due popoli si identificano a vicenda. Quella tra Germania e Italia è una storia difficile, tormentata e conflittuale. Naturalmente da decenni la situazione è molto cambiata. Però vedete, il mio punto è questo: è cambiata a livello sentimentale, a livello di buona volontà, ma nessuno ha fatto la riscrittura delle storie nazionali. Capite cosa voglio dire? E se non si va indietro, vengono fuori degli equivoci. Tornerò su questo. Quando la storia politica non viene più rivisitata o riservata agli specialisti, nell’immaginario collettivo rimangono precipitati di esperienze passate, o di narrazioni impermeabili alla riflessione critica. Si sedimentano sub-culture trasmesse quasi invariate di generazione in generazione, nonostante il mutare dei costumi e il dilatarsi dei contatti. I vecchi stereotipi si mimetizzano. Gli stereotipi vengono aggrediti e decostruiti, vanno sotto, e vengono fuori di colpo. Poi uno si pente, quello che è successo quest’estate. Uno si pente d’avergli scappato (?), “ma perché ti è scappato?”. Perché non si fa più un lavoro di elaborazione che ci sta dietro, e allora scappano. Subiscono metamorfosi senza cambiare realmente. Negli ultimi decenni, nelle generazioni più giovani, che poi sono quelle che confrontate voi, tra italiani e tedeschi si sono creati simpatici rapporti di amicizia, ma si sovrappongono a residui di memoria collettiva non elaborati affatto. E qui narro un piccolo episodio che ho già anticipato stamattina a tavola con alcuni di voi. Diciamo che io faccio molto volentieri questo seminario alla……perché mi serve. Ci sono questi simpatici ragazzi, che voi conoscete – vabbè, li quelli sono universitari – che sono esattamente identici ai miei torinesi: quando io dico: che differenza c’è tra i ragazzi torinesi e quelli berlinesi: nessuna. Salvo la lingua, ovviamente. Si vestono nello stesso modo, sono gli stessi trasandati, simpatici, tirano sempre sul prezzo, esattamente uguali, vi assicuro. Io non vedo nessuna differenza sul piano antropologico, assolutamente. Tolleranti, simpatici, di sinistra vagamente, poi mano a mano che diventano vecchi si spostano a destra, esattamente come i nostri. Bene. A un certo punto mi sono messo a parlare…. e sono ignoranti, esattamente come i nostri. A un certo punto mi sono messo a parlare dell’otto settembre. Chissà cos’è questo otto settembre? Non l’undici, eh! No, l’otto settembre del ’43. E gli ho spiegato questa terribile storia a cui qui sono dedicati ben quattro capitoli, perché l’otto settembre è il punto critico più profondo di rottura tra Italia e Germania. E si ha paura di andarci sopra, perché ci sono i delitti, ci sono le cose terrificanti che voi conoscete. Allora bisogna andare avanti, spiegare cos’è stato quella disgraziatissima data, da parte degli italiani e da parte di…insomma. Poi si scivola via, adesso; è questo l’errore: non ne parliamo più. benissimo, ma non è che lo riapriamo per litigare, siamo diventati grandi. Allora ho spiegato l’otto settembre, eccetera eccetera. A un certo punto uno dice: “Ah, adesso capisco perché il mio nonno dice sempre che gli italiani sono traditori! Io non riuscivo a capire, ma come, sono traditori!”. Cioè, lui ha capito finalmente perché… e perché sbagliava, suo nonno. Come dicevo, questa cosa per me è stata una rivelazione. Ecco la strada da percorrere: far capire a questi ragazzi come mai la loro……………….. sono saltati. Si passa dai gross …… (nonni) ai nipoti, perché i ……preferiscono non ragionare, la generazione di mezzo. No, non fraintendetemi: io sono piuttosto rapido perché vedo che il tempo corre, ma è un problema generazionale. I nonni (in tedesco:………) sono lì, in attesa, e alcuni sono ancora dei vecchi criminali (?), queste cose terribili di ottantenni che vengono lì dietro (incomprensibile)….. I padri (in tedesco:…… ) stanno zitti, e i ragazzi invece sono sconcertati, perché non capiscono più niente. Perché vengono in Italia e c’è Marzabotto, capite? Non hanno più i quadri di riferimento. Perché nessuno ha detto loro che gli italiani vennero trattati così perché erano dei (traditori?) ……E suo nonno non l’ha mai convinto, per lo meno si può immaginare, avrà brontolato qualche volta a tavola, si sa come fanno i ragazzi, ha sentito e ha pensato: “Bah, ……….perché, sono così simpatici”. Capite? Io lo racconto sempre perché mi ha fatto capire che questo è esattamente il mestiere che devo fare io, ma che forse dovete fare voi, cioè di ricostruire ma anche dare delle informazioni. (Perché altrimenti non…..) Dopodiché ci siamo messi a lavorare e la cosa è difficile. Vado avanti. A livello politico, nelle classi dirigenti a Roma e a Berlino, la lunga e positiva cooperazione durata mezzo secolo ha lasciato in eredità una conoscenza piuttosto superficiale. La diversità di orientamento dei governi in tema di costruzione dell’Unione europea e di politica estera comune, causa di tanto in tanto freddezze e frizioni, come nel caso della crisi irachena. Naturalmente qui c’è il problema anche della qualità del Governo, però non è solo un problema di governo nel senso tecnico; ovviamente qui interferiscono le posizioni specifiche dei governi in carica, per qui diventa problematico parlare di tedeschi e italiani. E’ chiaro che se gli italiani avessero un governo diverso probabilmente certe cose cambierebbero, ma certe cose sì, altre cose no. Eppure, aldilà delle differenze dei governi, che hanno maggiore o minore affinità a livello di ceto politico e intellettuale, non si sente il bisogno di approfondire la reciproca conoscenza. Ci si accontenta di una disinvolta, conclamata amicizia, che in realtà ha fragili basi. Memorie e politica si muovono su piani diversi e sconnessi. E allora, la relazione particolare tra Italia e Germania continua ad essere carica di luoghi comuni, positivi e negativi, di clichés, di pregiudizi buoni e cattivi, che non è difficile sintetizzare. Dico delle cose a voi ben note: i tedeschi sono visti dagli italiani come ordinati, scrupolosi, efficienti, seri ma troppo spesso fastidiosamente rigidi, occasionalmente maldestri pedagoghi e in fondo in fondo prevaricatori. Di contro, gli italliani sono percepiti dai tedeschi come cordiali, simpatici, elastici, di pronta adattabilità, maestri della gestione del caos, abili ad arrangiarsi, ma opportunisti, mal organizzati, e sotto sotto inaffidabili. Tutto quadra. I tedeschi sono campioni dell’industria, nel senso più completo del termine, anche se adesso non va tanto bene, gli italiani sono campioni dell’arte, nel senso più esteso del termine, arte in tutti i sensi. Naturalmente con qualche eccezione, come la mitica coppia Ferrari-Schumacher. E no, voi credevate che…questo è un trucco! Perché, e qui vi leggo quello che ho scritto: il fenomeno Ferrari-Schumacher, macchina italiana e uomo tedesco sembra un’eccezione. Al culmine delle vittorie della…….(l’anno scorso, adesso non ne parliamo più, è perfino noiosa, la vittoria continua) è apparsa una pubblicità Fiat, che esaltava la tecnologia italiana e la fantasia tedesca festeggiando il rovesciamento dello stereotipo. Ma siamo davvero sicuri che è così? Ho il sospetto che sotto sotto tutti, italiani e tedeschi, pensino che le prestazioni della Ferrari sono più di un’opera d’arte. La Ferrari non esprime un’industria, esprime una capacità artistica, capite cosa voglio dire? Non sto scherzando, sto toccando quello che sembrava il rovesciamento dello stereotipo: è la conferma dello stereotipo. La Ferrari è un’opera d’arte, non è un prodotto industriale. E Schumacher? Schumacher è esattamente una macchina professionale, è Il tedesco. Voi ridete ma non è una battuta, voi capite che quello che sembrava…Va be, vi risparmio poi che c’è tutto il discorso della vita politica, eccetera eccetera. Il punto, perché qua il tempo corre, è che, fatto questo elenco, dicevo, dove si va a trovare l’origine? E la mia tesi, a cui non ho trovato nessuna risposta, è che, fermo restando le radici profondissime di questi stereotipi, a un certo punto ci sono, ripeto, degli episodi che, se avessero preso un’altra piega, probabilmente avrebbero invertito questo……Questa è un po’ la mia…..Io non sono affatto un determinista in queste cose qua. E sono quelli che vi ho anticipato (?), vediamo se riesco a leggere qualche passaggio più preciso. In particolare, leggo appunto un passaggio intitolato “Ricostruzione storica selettiva”, perché qui sono quattrocento e rotte pagine, ma non è la storia dei due paesi, ho selezionato alcuni episodi strumentali. Non è un lavoro…sì certo, è un lavoro di storia, nel senso che non credo di dire sciocchezze, ma è la selezione di alcuni momenti. Allora, in particolare la circolarità degli stereotipi delle memorie sull’inaffidabilità italiana e sulla prepotenza tedesca non sarebbe così potente se non fosse passata attraverso il ciclo delle guerre, degli accordi militari e della loro rottura, che parte dal patto italo-prussiano del 1866 – e qui ho avuto il piacere che alcuni amici storici tedeschi hanno scoperto delle cose che prima non sapevano; per esempio, Bismarck. Adesso sapete che Bismarck è una figura…non è primo dei cattivi o ultimo dei buoni, rispetto alla grande…Non è più da Bismarck a Hitler, ma Bismarck è la figura di mezzo, nel senso che ci si poteva fermare lì, in un certo senso. Se voi leggete… andate a prendere in qualunque grande biblioteca l’opera omnia di Bismarck, cercate nell’indice analitico, Italia, La Marmora, trovate enormi citazioni. Per Bismarck l’Italia (sì, La Marmora è quello dei bersaglieri)….cioè, i cavouriani sono interlocutori di Bismarck, ad un livello che oggi la storiografia tedesca ignora. Voi prendete un lavoro bellissimo del mio amico Winkler (?): manco viene citata, l’Italia, al tempo di… (Bismarck?). Questa è una deformazione storica inaccettabile, non perché voglio difendere l’Italia, ma perché a un certo punto – e voi lo sapete – il Risorgimento italiano fiorisce perché l’Italia cambia alleanze dalla Francia alla Prussia. Si conquista Venezia e si va a Roma perché c’è la Prussia alle nostre spalle, non perché c’è la Francia, alle nostre spalle, per esempio. Questa cosa qui non viene più detta. La Triplice Alleanza, cioè quando l’Italia si allea con la Prussia e l’Austria, non è un’aberrazione, è stato un momento storico importante.Questa cosa qui viene ignorata (…antiquariato). Sarà antiquariato, ma voi capite che è qui che si comincia a dire: Bismarck non avrebbe fatto la guerra contro l’Austria se l’Italia non fosse stata alleata, perché lui, pensava, militarmente, “Questi attaccano dal di sotto, noi attacchiamo dal di sopra (…?)”, perché la guerra, voi sapete, si inizia ma non si sa mai come va a finire. In quel caso lì è andata benissimo per i Prussiani che hanno scoperto di essere i più bravi del mondo, prima non lo sapevano, è soltanto con…..e Sédan che scoprono di essere i più bravi. Capite le mie battute? Occorre introdurre nella storia l’elemento contingente, il possibile non possibile. Mentre noi tendiamo a vedere tutto con una razionalità, tutto lineare, no?Se voi la rifate con attenzione, e non manipolando, ma ricostruendo i singoli passaggi, in particolare, e qui davvero faccio una polemica: già la mia generazione è stata educata che la storia non si fa più con le battaglie: l’histoire-batalle (?) è una sciocchezza, ci sono tanti movimenti strutturali… giusto, ci mancherebbe altro. Ma le battaglie sono le strozzature attraverso cui a un certo punto – il ……vi faceva passare lo spirito- noi semplicemente facciamo passare le cose principali. Se nel ’66 la battaglia era diversa, la storia era diversa. Se nel ’14 La Marna avessero fatto (?) certe cose possibili anziché delle altre, …(Cambiava?). Noi abbiamo una visione deterministica in cui le battaglie invece giocano un ruolo importante. Adesso sta emergendo un modo di fare storia che a me piace molto, che non a caso gli storici accademici guardano con ostilità, peggio per loro: la storia controfattuale. (E va be, ma sai, gli accademici sono terribili, quando sono arrivati in cattedra tutti fermi, siamo arrivati….). La storia controfattuale è un lavoro scientifico, cioè individuare esattamente quei momenti di passaggio decisivi che determinano un esito piuttosto che un altro. Perché è importante? Perché la possibilità cancellata non è che sparisce nel nulla. Là sotto (?) rimane, capite cosa voglio dire? Quindi la storia controfattuale è tutta una storia di possibilità mancate, che però sono sempre lì che premono. Certo, è molto più difficile fare la storia così. Ma questo per dire – ho fatto una piccola divagazione, una delle tante – per dire: “Ma come mai questo qui tira fuori le battaglie, tira fuori la prima guerra mondiale, la seconda…?. Roba vetero, roba da vecchi professori”. No ragazzi, invece esattamente la guerra sta diventando… vi siete accorti che è una cosa importante, la guerra, che sta cambiando la storia? Ma anche prima. Però bisogna guardarla bene, bisogna guardarla in questo senso, se sono le strozzature che cambiano…guardate la guerra dell’Irak. Sta cambiando il mondo perché è andata in un modo anziché in un altro. E’ un fatto anche tecnico. Allora, è con questo spirito che io qua ho rivisto le battaglie in cui Germania e Italia alcune volte erano assieme e alcune volte….Prima erano assieme, nel ’66, poi erano contro nel ’15, poi di nuovo assieme fino al ’43, poi di nuovo contro tra il ’43 e il ’45. Detto così viene da sorridere, ma vi rendete conto che la storia italo-tedesca è fatta di queste cose? Di continuo cambiamento? Colpa degli italiani. Ufficialmente è così, perché loro…cominciano da una parte e finiscono dall’altra, questi luoghi comuni. Luoghi comuni che però hanno dei punti di riferimento. Il problema è: perché? O voi dite che l’italiano è antropologicamente inaffidabile, allora io mi alzo e me ne vado, oppure ci si deve mettere (chiedere?) perché gli italiani si cacciano in situazioni in cui purtroppo si trovano a disagio. Lì c’è un discorso di fondo, della situazione italiana, dalla posizione geopolitica italiana…è difficile essere italiani. E’ difficilissimo essere italiani.

 

Intervento(a): E’ più facile essere tedeschi?

 

Rusconi: Non lo so, tocca a voi decidere. Io aspetto un mio collega che faccia il partner di quello che sto facendo io, ma ho l’impressione che hanno altri interessi, in questo momento.

 

Intervento (b): Chi è il suo collega?

 

Rusconi: No, aspetto un collega ….

 

Intervento (c): Non c’è nessuno che abbia un atteggiamento di ricerca così, aperta?

 

Rusconi: Questo non tocca a me dirlo. Io non li vedo, intorno, comunque non ha importanza. Facendo eccezione – io non volevo far politica, adesso la faccio per qualche minuto. Perché l’Italia in questo momento è in questa posizione, a livello europeo, a livello della guerra dell’Irak, non si capisce bene da che parte sta, fa l’occhietto di qui e fa l’occhietto di là? Il ministro (il primo ministro?) va a Mosca, dà le pacche sulle spalle a Putin, poi dopo… Avete notato? Si dà la colpa al Berlusconi che è un dilettante. Ma io, che non sono berlusconiano, assolutamente, nonostante il nome assomigli, con orrore vedo che il grande dilettante Berlusconi sta esasperando inconsciamente una linea che è frequente nell’Italia. Ma allora, perché? Allora cito (?) un problema molto serio, non è un problema di Berlusconi, e dei quattro suoi dilettanti che ha portato al governo, che sono davvero dei dilettanti, perché se avessimo una classe politica più professionale probabilmente saremmo più tranquilli, magari meno divertenti, non lo so. Però voi capite il problema, qui c’è sotto qualcosa di molto profondo, e qui dicevo ancora parlando in questi giorni, avete notato che le legittime critiche a un governo Berlusconi ha (hanno?) ritirato fuori, ha ritrascinato fuori gli stereotipi anti-italiani? Gli italiani sono diventati di nuovo tutti mafiosi, tutti dei deficienti che guardano la televisione e poi gli vanno dietro? Avete notato? I cavalli fanno così (?). …..(gli italiani, in tedesco) …che …..(gli italiani!). Prima si potrebbe dire metà e merà, perché la metà è contro! Avete notato che è come se, finalmente, l’attenzione più critica verso l’Italia che faticosamente negli anni ..(?) sta…. No, possiamo insultare gli italiani come abbiamo sempre fatto fino agli anni Ottanta. Capite cosa voglio dire? Sto esagerando. E’ come se questo fenomeno avesse di nuovo tolto l’alibi a un processo conoscitivo più complesso. Perché il berlusconismo è diventato la ….. (?) in cui tutti i vizi tradizionali vengono ripetuti ed esasperati. Seguite cosa voglio dire? Ecco perché quello che sembrava antiquariato, che cominciava da ….. in realtà arriva fino ad oggi. Che poi, cosa sono centocinquanta anni? Sono niente, se voi guardate la storia lunga, no? Quando ho detto ai miei colleghi (?): “tu hai cominciato da Custoza, ma sei matto?”. Da dove dovevo cominciare, da De Gasperi? Non sono niente centocinquanta anni, se uno imposta il discorso in questo modo. Sono alcune generazioni che si trasmettono poi queste esperienze, e così via. Allora, ancora qualche minuto poi voglio… vi ho mandato sufficientemente stimoli per sentire le vostre reazioni e per comprarvi il libro (per farvi comprare?). In particolare, dicevo, la circolarità degli stereotipi delle memorie sull’inaffidabilità italiana e sulla prepotenza tedesca non sarebbe così potente se non fosse passata attraverso il ciclo delle guerre, degli accordi militari, della loro rottura, che parte dal patto italo-prussiano del ’66, dalla Triplice Alleanza, o…….come dicono i tedeschi, seguita dall’interventismo del 1915, quando l’Italia cambia alleanza, per arrivare all’Asse tra l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, e quindi alla rottura del ’43. Questi episodi da cui traggono sostanza le memorie collettive sono ancora quelli che sono rimasti, vanno trattati criticamente insieme con i tradizionali concetti di sovranità, geopolitica, guerra. Vanno rivisitati alla luce della storia critica dello Stato nazionale di potenza e dei suoi dilemmi geostrategici. Questo era il discorso che facevo all’inizio, vedete il discorso degli stereotipi va fuso con il discorso della storia politica e della storia militare. E’ questa un po’ l’ambizione. Dicevo, le memorie sono arrivate….-è una cosa incredibile, ma le potete verificare – Le memorie delle generazioni sono legate al ciclo che io ho chiamato il primo ciclo. Il secondo ciclo, che è il più bello, che è il  più simpatico, che è quello della collaborazione di Italia e di Germania, in cui si è fatta insieme l’Europa, non soltanto Adenauer e De Gapseri, ma anche …..ma anche Colombo, ma anche Andreotti, perché no, Andreotti è stato un personaggio importante. Tutto questo non lascia assolutamente nulla nella memoria collettiva, e questa è una cosa che mi ha colpito. Cioè, la memoria è come se è nata là, e dopo tutte le cose, anche le cose più positive perché esistono anche delle cose positive, perché non sto scherzando, l’Italia- Germania negli anni Cinquanta sono stati (?) esemplari, se non c’era Italia-Germania, l’Europa non nasceva. Perché la Francia non la voleva, e non la vuole mai, l’Inghilterra la conscete, sono Germania e Italia che hanno creato l’Europa. Ripeto: non per idealismo, è per egoismo, perché entrambe dovevano tirarsi sù e l’Europa era un modo razionale per contare, soprattutto Adenauer, abilissimo, realistico, questo Bismarck in versione civile. Niente, come se questi ultimi cinquanta anni non avessero lasciato nessuna traccia nella memoria. Io prendo atto di questo. (Io parlo della…).Finisco. Ho citato più volte il ’43; a questo episodio importante qui sono dedicati ben quattro libri, vi leggo il titolo: “La rottura traumatica dell’Alleanza italo-tedesca nel ’43”, un capitolo è “Chi tradisce chi?”. Negli anni Ottanta è uscito un famoso libro di Cubi (?), “Il tradimento tedesco”, perché non è un tradimento. i tedeschi a un certo punto non trattavano più gli italiani come alleati ma come dei vassalli. Non solo, ma forse voi non lo sapete -chiedo scusa se vi tratto come degli studenti – quando Badoglio ha fatto – maldestramente, perché l’operazione otto settembre è stata assurda dal punto di vista gestionale – ma non è stato tradimento, nel senso Goebbelsiano del termine, no. ..tutti gli aggettivi dispregiativi metteteli, salvo “tradimento”. Il Badoglio ha pregato e supplicato, poveretto, Hitler, “Lasciateci uscire, non ce la facciamo più”. Lui, il Badoglio, voleva uscire dalla guerra con il permesso dei tedeschi. E quello manco gli ha risposto. Ma tecnicamente era un patto tra alleati in cui uno dei due diceva: “Non ce la faccio più, lasciatemi uscire!”. E quell’altro gli ha detto: “No, anzi vengo e ti occupo”. Sto semplificando. Allora, capite, che tradimento è? Uno dei partner non stava più al patto sottoscritto, per cui non sei più mio alleato, ma sei mio vassallo, capite? Il vassallo che si ribella al suo padrone improprio non è un tradimento, sarà un’altra cosa. (Poi si è ribellato malissimo…). Capite cosa voglio dire? Non sto rovesciando la frittata, non sto facendo il patetico patriottico, è semplicemente che le cose non sono andate così come sono andate (?). Tant’ è vero che oggi, nella storiografia ufficiale tedesca non si parla più di ….(tradimento), ci mancherebbe altro, hanno semplicemente cancellato la parola. Nessuno ha fatto lo sforzo, dei miei illustri colleghi, di capire cosa diavolo hann fatto gli itailani. Per cortesia, non dicono più che hanno tradito. Capite cosa voglio dire? E’ quello, che mi fa arrabbiare contro i miei amici tedeschi storici. Vi ringrazio che non dite più che siamo dei traditori, ma dovete darci una spiegazione. Quindi semplicemente si è – dietro, chiaro, l’orrore del nazismo, ci passa pure un piccolo episodio (?). Un’ultima cosa, poi -questa è stata la cosa più bella che ho trovato – l’ipotesi di un Badoglio tedesco. Sì, ho scoperto con mio enorme stupore che una parte piccola ma significativa di oppositori di Hitler, quelli che poi sarebbero stati distrutti dopo il 20 luglio del ’44, ….(?), personaggio importantissimo – … era stato ambasciatore tedesco fino al ’38, in Italia, poi dopo è stato licenziato e lentamente è passato all’opposizione e finirà impiccato come tutti il 20 luglio del ’44. Ebbene, l’opposizione tedesca a Hitler voleva letteralmente un Badoglio tedesco. Quando ho detto queste cose ai miei colleghi sono rimasti stupefatti: non lo sapevano, e studiate allora. Quindi addirittura non il traditore ma la parte anti-hitleriana che vede in Badoglio un modello possibile di uscita – certo, non rivoluzionaria, non da sinistra, perché qui c’è anche l’effetto indotto della storiografia di sinistra, quella che ha sempre considerato gli oppositori di Hitler del 20 luglio dei conservatori (che è vero?. Appunto, volevano fare come Badoglio. A me non interessa in questo caso la politica ?). Voglio dire, guardate che addirittura si è rovesciato il modello. Che i migliori tedeschi guardavano a Badoglio come possibile modello di uscita legale da una situazione terribile. Mi seguite? Ma io trovo scandaloso che nessuno degli storici tedeschi si sia mai accorto di quello, ha dovuto aspettare un professore di scienza politica che scartabellando ha scoperto che c’era perfino l’espressione “Badoglio tedesco”. Ora cosa vuol dire? Vuole dire che chi fa questo mestiere deve ancora darsi da fare. Non è antiquariato, questo qua. Perché se noi riuscissimo a far passare ai ragazzi quest’idea, è così che va rifatta, è così che anche lo stereotipo cambia; sennò è una storia complicata. E allora questo ragazzo avrebbe spiegato al ….(nonno), il quale però non avrebbe capito niente, che “no, guarda, la situazione era così, così…”. A me non interessa il …..(nonno), il quale andrà dove deve andare, a suo tempo, a me interessa il nipote, che ha un’idea complessa. Non che rovesci la frittata, eh! No, l’errore rimane. Perché è facendo questo lavoro, che dovrebbe fare la scuola, che lentamente gli stereotipi vengono destrutturati perché non sono dei dati metafisici, antropologici che rimangono da Tacito a oggi, queste sono sciocchezze che dicono i letterati. Certo, che se però questo lavoro non lo fa nessuno siamo al punto di prima. Mi fermo qua. A voi.

 

Intervento (moderatrice): Ricordo che abbiamo fuori un’esposizione di libri con i libri del professor Rusconi.

 

Rusconi: C’è anche questo. Einaudi editore, è uscito otto mesi fa. E credo che non sarà mai tradotto in tedesco.

 

Intervento: No, perché questo?

 

Rusconi: Facciamo una scommessa.

 

Intervento: La ringrazio di avere espresso queste teorie, mi rallegro veramente di cuore perché ha tracciato un ponte tra le due nazioni e sento che è la verità.

 

Rusconi: La ringrazio.

 

Intervento: E quindi la ringrazio.

 

Rusconi: Adesso non esageriamo, è il mestiere che deve fare l’intellettuale. Grazie comunque. Adesso Lei mi fa diventare sentimentale, ma questo lavoro come ha capito è un po’ il risultato di anni di studio della Germania e che ho capito poco alla volta, queste cose qua. Che qualcosa non funzionava, nella… Io devo tantissimo alla Germania. Io sono venuto in Germania tante volte, sempre con delle borse. Ho preso la borsa Humboldt (?), mi hanno trattato benissimo, i tedeschi. Ma sapevo che mi amavano, mi amano. Questa balla che gli italiani sono sentimentali e i tedeschi no. Secondo me è l’opposto. I tedeschi sono dei sentimentali, gli italiani sono dei cinici. Vero care signore? Ecco. Mi amano molto, davvero, scherzi a parte, con la Humboldt, la Goethe, eccetera, però non sono riuscito a essere ……..A metterli al muro e dirgli: “Ragazzi, è giusto queste cose?”. Cambia queste cose (?). E’ quello il punto, che io spero prima di morire di riuscire, ma non lo so perché… Allora, in questo senso occorre lavorare. Perché non basta più la simpatia reciproca, oppure la nostra venerazione per tutto ciò che è tedesco. C’è qualcosa di nuovo da fare, che è difficile forse, probabilmente. Perché è chiaro che se ci fosse…..No basta, tocca a voi parlare.

 

Intervento (Maracci): Ma questo debito storico, politico anche, è di parte solo tedesca, dell’Accademia tedesca, o c’è una responsabilità anche italiana (…)? Nel senso che ho l’impressione che in questo pregiudizio ci sia una condiscendenza anche… (nostrana?)

 

Rusconi: Questa è una domanda difficile, non lo so, perché trovo molti miei colleghi e specialmente appunto non più giovanotti, che hanno la stessa sensazione che ho io, cioè che vengono in Germania, studiano, sono accettati, eccetera, ma non riescono a…Cioè, si riesce…In Germania, a livello culturale, si vede soltanto quello che loro vogliono. Rinascimento, ..e fascismo. Il fascismo vende tantissimo, purché sia, come dicevo prima, la variante buona del nazismo. Ma sfondare certe cose è difficilissimo. Perché rimane tutto sommato un complesso di inferiorità intellettuale verso la Germania. Il perché è un altro discorso. Perché noi siamo così insicuri della nostra tradizione? (Noi abbiamo…) Adesso non voglio fare l’arrogante, ma come capacità di studio, enorme (?). Ma è come se dalla grande stagione grosso modo che risale all’idealismo Crociano, l’ultimo autore- filosofo che viene… è Croce. Adesso, certamente viene preso anche Vattimo, Vattimo oppure Umberto Eco. Umberto Eco, Vattimo, Cacciari un pochettino. Certamente, sono italiani, per l’amor di Dio, ci mancherebbe altro, ma perché fa parte dell’icona dell’italiano brillante (Eco, Cacciari), ma è un discorso molto serio quello che Lei fa, sa? Discorso molto serio ma è auto critico, perché chi siamo noi, per esempio? C’è destra e sinistra, ma… Comunque, senza volere abbiamo toccato un nervo scoperto dei rapporti intellettuali, che sono una cosa seria, come vedete.

 

Intervento: Certo, perché se si affida l’abbattimento dei clichés, come è giusto, perché non c’è nessun altro ambito che li possa trattare se non quello culturale, francamente, allora la mancanza, e qui io sono veramente d’accordo con Maracci, la mancanza di rapporti protratta per anni in ambito intellettuale alto, accademico, fra l’Accademia italiana e l’Accademia tedesca, ed è un dato di fatto, perché io questi anni li ho attraversati, figuriamoci, in un’italianistica in cui non vedevo quel contatto che ci doveva essere fra italianisti italiani e italianisti tedeschi, e viceversa potrei fare però lo stesso discorso anche per la germanistica italiana. Quindi, figuriamoci lì, a questo punto in ambito di Istituti, Facoltà, ancora meno costrette già di per sé, per statuto, a un dialogo culturale, è stato ancora inferiore il dialogo, posso immaginare, a parte eccezioni. A questo punto lì c’è un primo fondamentale male e origine dello stereotipo, cioè della impossibilità di abbatterlo. Certamente noi italiani non dobbiamo assolutamente affrontare…(?) C’è questo senso di inferiorità o superiorità in altri campi, per esempio, e quindi lo stereotipo ce lo siamo portati dentro al cuore e al cuore dell’Istituzione che era preposta ad abbatterlo.

 

Rusconi: Ma l’istituzione non ci aiuta in niente. Se io sono diventato qualcosa lo devo soltanto ai tedeschi, non certamente agli italiani, alla mia istituzione, questo lo devo dire. E’ paradossale, no? Io devo tantissimo alla Germania, perché non ho mai speso un deutsche marc (?marco tedesco) di mio, in Germania, perché mi hanno sempre….(Lo dico con estrema…) Mi hanno viziato. Però spero che questo non sia vissuto come…cioè, questo è il prodotto, la ….

 

Intervento: Lei ha il grande merito, a questo punto io glielo dico così, non perché siamo qui, ma proprio di avere finalmente aperto il dialogo. Vogliamo anche metterci a litigare, su queste tesi? Penso che Lei se lo auspichi, perfino.

 

Rusconi: E’ quello che voglio.

 

Intervento: A questo punto però Lei ha aperto, ha buttato il sasso. E adesso le acque si sono mosse.

 

Maracci: Sennò a cosa servono gli intellattuali, cioè è un vecchio discorso, nel senso che c’è un debito, una responsabilità degli intellettuali nel proprio periodo storico. Quindi questo…….(?) politica, è un privilegio e una responsabilità degli intellettuali, non ci si può esimere. Lo scarso orgoglio nazionale, Lei mi sembra assolutamente orgoglioso, personalmente lo apprezzo moltissimo.

 

Rusconi: Orgoglioso direi di no, non mi piace, sono, mi sento….

 

Maracci: Però purtroppo, per noi, la bandiera puzza di fascismo, insomma.

Rusconi: Certo, però è sbagliato, ma questo l’abbiamo in parte già fatto, in Italia, anche se il sottoprodotto è questa cultura di governo un po’ …..avete capito che non la condivido ma neppure la demonizzo. E’ stata la sinistra all’inzio degli anni Novanta, che ha tirato fuori un concetto rubato, sia pure soltanto letteralmente dalla Germania, il patriottismo costituzionale. Cioè, se Ciampi oggi parla in un linguaggio nazionale, lo deve alla sinistra dei primi anni Novanta. Però la sinistra lo sapete com’è aveva paura, .., risultato che la sta usando l’altra parte che non aveva nessun merito perché aveva una visione in fondo etnica dell’italianità, che è una cosa diversa dal concetto di patriottismo costituzionale. Qui adesso ci fa parlare della situazione di oggi, della situazione che però…..Però volevo dire, scusate, una cosa, una parentesi poi la chiudiamo. Che al limite esagero. Non è che le cose siano meglio che i francesi. Quindi, io mi sono fissato sulla Germania, però non pensate che i rapporti con i francesi siano meglio. Certo, è tutta una storia diversa. Quindi, il problema torna di nuovo alla posizione, all’autocoscienza, alla coscienza italiana. Quello che voglio dire è: non fissatevi che sia una cosa specifica italo-tedesca. E’ che probabilmente la Germania e l’Italia è più evidente, ma anche perché i tedeschi (sono più..) hanno fatto questo processo autocritico straodrinario, che ogni volta continuo a lodare. Capite? Io mi chiedo se un discorso che sto facendo con voi – a parte che non saprei farlo in un ambito francese, sarebbe possibile, perché dall’altra parte non c’è la stessa…. non lo so. Ecco, quello che voglio dire, non pensate che sia una specificità italo-tedesca. Il problema che stiamo toccando negli ultimi dieci minuti è un po’ più largo, no? Dopodiché torniamo al tema.

 

Intervento: Comunque mi meraviglia un po’ questo silenzio tedesco, secondo me è una questione di tempo, perché io ho sempre riscontrato una grande attenzione, sicuramente in larga parte affidata anche a delle correnti, poi quelle affidate ai mass media per forza sono stereotipate a priori, forse, però c’è anche una grande attenzione. Io ho sempre avvertito in tutti i campi – ieri si parlava di traduzione – anche una maggiore attenzione della propensione, ansia comunicativa, della Germania verso l’Italia che non viceversa, ma molto superiore. Quindi, è chiaro che verrà raccolto, secondo me verrà raccolto.

 

Rusconi: questa è una bella cosa; non lo so.

 

Intervento: Non lo so, io leggendo ultimamente il giornale, la Suddeutsche Zeitung, anche altri giornali, rimango colpita da come in Germania, a un certo livello, ritornino appunto su questi clichés. Magari legati a Berlusconi, però in cui anch’io mi sento in qualche modo, come italiana, coinvolta. Non so, se poteva darci una mano a capire un po’ di più questo fenomeno presente anche su giornali di grande livello, dove mi aspetteri un maggiore approfondimento, anche più di rispetto. Però non so come pormi, non so come…

 

Rusconi: Son cose che ci diciamo quando ci si incontra, c’è stato un mese fa un incontro al Goethe di traduttori, tra l’altro, e sono venute fuori queste cose, ci diciamo queste cose, “Come mai, come mai?”. Però quando si tocca il berlusconismo scatta un meccanismo di polarizzazione politica difficile. Certo, la Suddeutsche Zeitung (?) , che poi in realtà è la …….. che viaggia da sempre, glielo dico, “Guarda che tu sbagli, credi di contribuire a creare un atteggiamento critico ma poi diventa controproducente”. Non lo so, non sono in grado di rispondere, d’altra parte non vorrei cadessimo…Io stesso ho introdotto questo elemento, però il senso di questa mia chiacchierata di stamattina è di andare più indietro, di non….Dico solo che la cronaca viene anche coinvolta in questo processo, però quello che a me stava a cuore questa mattina è quello che viene prima della cronaca. Perché poi a questo punto Lei ha questa sensazione, uno ne ha un’altra, entriamo nell’aspetto soggettivo, dico solo – e ho l’impressione che col vostro silenzio-assenso me lo confermiate – che qui c’è un grosso problema, c’è un lavoro fortemente e specificatamente intellettuale da fare, che deve essere fatto da entrambe le parti. Ecco, direi che è questa la cosa più importante. Poi il prodotto o sottoprodotto della cronaca politica è una variabile un po’…, a me interessa la prima parte. Perché la cronaca passa, queste cose qui sono di media se non di lunghissima durata.

 

Intervento: Intervengo solo un’ultima volta perché voglio lasciare la parola anche agli altri. Mi interesserebbe sapere perché non ha avuto eco da nessuna parte, al limite anche come strumentalizzazione di una strategia politica, questa fase invece positiva, così definita, seconda fase del periodo della costruzione dell’Europa? Perché è stata così poco sfruttata, anche ai fini magari strategici di qualche strategia di partito?

 

Intervento (b): Se posso aggiungere ancora una cosa, forse, per verificare se ho capito bene. I suoi colleghi storici, professori storici della Germania, è giusto, in Germania (?)?

 

Rusconi: Sì, a Berlino, sostanzialmente. Alla…….(università…)

 

Intervento: Ha trovato o non ha trovato, diciamo, consenso su quello che ha detto…

 

Rusconi: Sì, come no! E’ che anzitutto, come Lei sa, e qui diventa un problema la battuta iniziale, io non sono in grado di esprimermi in tedesco in maniera altrettanto efficace come ho fatto con voi in italiano. Quindi mi è difficile convincere i miei colleghi che… E d’altra parte quasi nessuno dei colleghi storici…l’italiano è conosciuto pochissimo a livello scientifico, cioè vanno a fare i turisti. E qua occorre che prendando in mano il libro e che me lo leggano, perché, capisci, quando fai queste battute dicono: “Ah sì, hai ragione, è vero, ma non lo sapevo,che bello, che bello, buongiorno”. Ma questo non mi basta più, capisce?

 

Intervento (B): Ha ragione, io appartengo a queste generazioni e ….

 

Rusconi: E’ chiaro che i ai miei amici gliel’ho detto e questa cosa di Badoglio non la sapevano, “Ah, hai ragione”, poi andiamo a cena e buona sera. E’ difficile mettere in moto un processo….toccherebbe impiantare un seminario, capisci? Anche perché, ripeto, è un problema anche di capacità espressiva, io non…Questa mattina sono riuscito, è inutile negarlo, a trasmettere delle cose anche perché ho un certo stile comunicativo. E io non sono capace di parlare in tedesco in questo modo, …..è una cosa completamente diversa, capite? L’importanza della lingua è mostruosa, io più divento vecchio, più mi rendo conto di quanto sia terribile il limite linguistico. … adesso tutti sappiamo parlare un po’ di tedesco, eh no! Più si va avanti più ti rendi conto che io non riesco…..non era una battuta di falsa modestia, quella che vi dicevo all’inizio: io mi rendo conto che non riesco a comunicare, se non nella mia lingua, queste cose. E voi lo capite perfettamente. Perché qui non c’è bisogno di dire: “Ok, hai ragione caro collega, chissà”. E no, qui è… Uno mi può dire: “Eh no, senti ragazzo, ho un sacco di altri problemi più importanti in questo momento”, capite cosa voglio dire? Per l’amor di Dio, ci sono cose più importanti, che non aprire questo dossier. Perché, e qui mi arrabbio di nuovo: “Ma sì, adesso basta, è tutto passato, ma ci vogliamo tanto bene”. E tutto ritorna come prima, fino alla prossima sortita del Tizio piuttosto che del Caio.

 

Intervento: Il libro è uscito dopo Francoforte, dopo la Fiera del libro? (?)

 

Rusconi: Devo dare la risposta, se ho ben capito. La riformulo così: come mai l’impresa comune europea non è riuscita a trasmettere qualcosa di più profondo? La risposta, direi, è la seguente: prima perché è l’Europa stessa che, aldilà della retorica, è molto meno entrata nella coscienza collettiva di quanto non dica la retorica. Quindi è un problema generale, tutti sono europei ma è un modo un po’ epidermico, perché l’Europa, come unione, non ha creato la storia come (?) queste cose qua. Quindi è un problema… Poi c’è una seconda obiezione un po’ più maliziosa: l’Europa è stata creata dai democristiani, non dalla sinistra. La sinistra, che in Italia come voi sapete ha gestito per un sacco di anni di fatto la cultura, ha guardato – diciamocele, queste cose, poi si arrabbiano i miei amici di sinistra a questo punto: è inutile che voi facciate gli europeisti. Fino agli anni Settanta voi eravate contro l’Europa, come del resto anche i socialdemocratici. Ricordate (?) una battuta bellissima di Schumacher ma quell’altro, il socialdemocratico: le tre cappa, no? L’Europa ……..era conservatrice, clericale e capitalista. E qui lo si dice: l’Europa è nata contro la sinistra. Vogliamo dirlo? L’Europa è nata strettamente legata alla Nato. Allora ai nostri ragazzi raccontiamo una storia sacra inesistente delle origini dell’Europa. Contiamo delle bugie. L’Europa è nata democristiana, filoamericana, grazie a Dio, diciamo. Però questa è una grossa sberla per la cultura di sinistra, che non ha il coraggio di dire – io sono di sinistra, ovviamente, ma però queste cose le ho scoperte anch’io, cioè accidenti! Ma qui senza la nato non si faceva l’Europa. Provate a dirle queste cose, oggi. Vedete che siamo entrati nella dura politica. Ecco perché è difficile …….(?), perché dobbiamo cominciare a raccontare una storia vera dell’Europa, che non è quella cosa così spirituale che ci vogliono far credere. L’Europa, ripeto, è nata contro la sinistra strettamente legata all’America in funzione anticomunista, punto e basta. Allora, non (?) riconosciamolo ex post, che è stata una buona cosa, però a questo punto si mette in moto un processo autocritico che si fa anche così. Però tra qui e …..(?) capisci come…

 

Maracci: Lasciamo le domande alle nostre colleghe.

 

Intervento: ….fare luce….queste scoperte recenti delle stragi, degli assassini che hanno fatto le SS in qualche piccolo paese non so dove (?). Ma sono proprio stati i tedeschi? (?) Sono buoni per avere relazioni Italia Germania (?)

 

Rusconi: Io penso di sì. Bisogna dire quali italiani. Si prendo atto di questo sia pure tardivo processo da parte di una minoranza o comunque non di una minoranza, di questi fatti terribili, che peraltro da noi sono stati acquisiti, c’è come un riconoscimento. E’ un fatto positivo, perché tra l’altro correggono l’idea – qui c’è un capitolo dedicato al tedesco buono e tedesco cattivo, in particolare con Nuto Revelli, non so se conoscete Nuto Revelli, lo scomparso di …(?). No, non lo sapete? Un bellissimo libro. Quindi in realtà questi fenomeni sono positivi perché sono fatti con un giusto distacco storico. Quello che mi lascia perplesso per quanto riguarda queste cose, è la messa in moto dei processi giudiziari, che probabilmente vanno fatti in termini giuridici, ma che hanno più un effetto di memorizzazione che non un effetto di perseguimento dei criminali. Cioè, vanno fatti perché vanno fatti, ma però allora si crea una sensazione della ricerca dell’assassino che mi sembra fuori luogo. Non so se riesco a spiegarmi, quello che Lei dice è un fatto positivo e rientra in questo processo di acquisizione critica di questa terribile storia. Non vedo…Perché, Lei ha qualche dubbio?

 

Intervento: …………..Forse contribuisce a fare più…..(?)

 

Rusconi: No, perché da noi è già stato acquisito. E’ che finalmente viene riconosciuto, capisce? Non introduce un elemento in più. No, io lo considero un fatto positivo. Poi tenga conto quando il Presidente …. che viene in Italia, che va a Marzabotto, ha un enorme effetto positivo. Direi che quello che forse vi sorprende, questa fase dei crimini nazisti, è forse il capitolo- sembra un paradosso – più facile perché è riconosciuto, perché c’è l’autocritica. E’ più difficile il resto. Sembra un paradosso, no, ma queste cose enormi sono in qualche modo già state acquisite e c’è l’atteggiamento autocritico (?). Perché viceversa anche l’Italia, con molta fatica, riconosce i suoi crimini che ha fatto. In Yugoslavia, per esempio, nei Balcani, anche i nostri soldati si sono comportati spesse volte in maniera….e quindi c’è anche questo effetto indotto del riconoscimento dei crimini italiani, no? Comunque, può darsi che la cosa vi sorprenda, ma i capitoli che sembrano più atroci tutto sommato sono quelli più facilmente ricolocabili, perché si riconosce il crimine, si fa autocritica, si riconosce che nel frattempo la Germania ha totalmente superato (?)..e basta. Invece le altre cose, gli altri elementi rimangono, no?

 

Intervento: Non so se ho capito bene, ma Lei ha detto che la terza fase di questi stereotipi comincia con …(?), con l’incompetenza… (?)

 

Rusconi: No, no, la ringrazio così adesso cerco di essere più preciso. Allora, la terza fase inizia direi negli anni Novanta, con la guerra in Yugoslavia, la guerra nel Kosovo, cioè con delle differenze tra il Governo italiano e il Governo tedesco sulla guerra umanitaria. Ci sono già delle piccole differenze. Però, fintantoché rimangono tra governi politicamente affini, cioè il governo Schroeder-Fischer e il governo dell’Ulivo, non si sono notate, però c’erano già delle differenze, delle freddezze, c’era De Michelis che ha litigato molto, con chi se ne parla, con …(?), perché noi avevamo idee diverse sulla crisi Yugoslava, che come lei sa viene imputata forse a torto all’accelerazione da parte tedesca dell’indipendenza. Insomma, c’erano già delle differenze. La cosa è cambiata col nuovo governo, però è semplicemente un trend che si è accelerato. Perché, e oggi è diventato evidente, questo governo è molto più freddo rispetto all’Europa, molto più freddo rispetto in particolare…siccome poi il nostro Presidente del Consiglio fa politica estera facendola mediare dall’atteggiamento personale. Cioè, lui è convinto che ci fa politica estera non tramite vecchia maniera con le diplomazie e con le cancellerie, ma con i rapporti personali. Non è una battuta. Il fatto di chiamare Putin in Sardegna, o di ospitare le sue figlie a gratis nella sua isola, non è forma di corruzione, lui è convinto che la politica si fa così. Allora, tutto questo crea un senso di disagio ma anche nella diplomazia francese, addirittura il centro- destra francese. Quindi il berlusconismo come tale -guardate che io, chiaro, non posso negare che non sono d’accordo, però si potrebbe dire anche che è positivo – è un mutamento, per certi aspetti, di certi stili di governo, che come sottoprodotto ha creato, come dicevo prima, il far riemergere l’italiano che non è serio, che fa queste cose, che cerca di risolvere così facendo…, non è lineare, da che parte sta, non fa la guerra nell’Irak ma subito dopo ci manda i soldati, questi si ritirano però tu rimani..Allora, viene fuori quella che chiamavo all’inizio l’inaffidabilità, cioè questo atteggiamento un po’…che è accentuato da questo governo che potrebbe, come Lei sa, cambiare tra sei mesi, no? E allora – lasciamo perdere se succederà o meno -allora, per certi aspetti è una linea politica, un maggiore distacco rispetto al progetto europeo, dall’altra è uno stile di governo. Dall’altra sono anche elementi politici, cioè l’emergere di una cultura di destra che non è in realtà, fascismo, questo post fascismo, ma adesso mi fate parlare di politica che non volevo. L’elemento peggiore è la Lega. Non è mica Fini, non avete visto l’altro giorno che addirittura hanno fatto passare una cosa che rende quasi legittima la tortura? Cioè, il vero pericolo dal punto di vista di una regressione di civiltà è il leghismo. Non è il post fascismo. Insomma, io non riesco a spiegarmi mai ai tedeschi, che dicono: “Ma come il federalismo, che federalismo?”. Guardate che il vero problema di inciviltà politica è questo gruppo che tira fuori le cose peggiori del lombardismo, tra l’altro, io sono lombardo. Cioè, proprio del forcaiolo, del ….e qui non c’entra mica il fascismo e il post fascismo, capite? Vedete che è complicata, la cosa? ma vai a spiegare il leghismo come fenomeno culturale minoritario ma che questo governo sta usando come una specie di mastino del governo. E’ complicata, la storia italiana. E’ complicata, la cronaca italiana di oggi. E i modelli politici coi quali la Germania lo vede non…per esempio, non vede il leghismo. Non capisce il leghismo, anche perché apparentemente è piccolo. E’ piccolo ma è strumentale. Terrorizza, intimidisce, ha alterato il linguaggio politico, usa l’insulto come linguaggio normale, intimidisce…e qui non c’entra il fascismo. Qui è il leghismo, che è un’altra cosa, è diverso. Ma come vai a spiegare queste cose? Perché il leghismo è un fenomeno che in Germania non lo capiscono, perché non ha niente a che vedere conl’etnocentrismo di qualche città o con….sì, ha certe componenti con l’anti-immigrazione, ma… Allora, tutto questo è la terza fase, cioè è il terzo ciclo. E’ iniziato, rispetto a questa ricostruzione, il terzo ciclo, di cui forse il berlusconismo è il prodotto, non la causa. Però qui davvero stiamo entrando in un ciclo di cui parleremo tra qualche anno, quando mi…, fra cinque anni. Guardate che stanno cambiando i parametri. E qui ancora una volta il narcisismo italiano è: l’Italia è il laboratorio di quello che succederà in Europa. Il berlusconismo in realtà anticipa certe cose che succederanno anche in Germania. Non lo so, certamente, e poi mi fermo, oggi è iniziato un ciclo diverso dal precedente, che in parte era già negli anni Novanta. Perché, anche se si dovesse, ipotesi irreale, nelle prossime elezioni avere un rovesciamento, certe cose sono irreversibili. Il cambiamento che è in atto nel personale della Rai, il cambiamento che è in atto nel personale dell’Università. C’è stato uno spoil-system effettivo, e questi qui non torneranno mica indietro. La vita politica è una cosa seria, in Italia. C’è stato un ricambio di élite, è in atto un ricambio di élite notevole, lo dico come politologo. Di fatto…quindi questo fenomeno è molto più complesso di quanto non sembri, e di quanto anche i giornali della Suddeutsche descrivono come se fosse un problema di questo qua che ha un sacco di televisioni: cacciamolo via e tutto…. (?) No. Questo è un sintomo di qualcosa d’altro. Capite cosa voglio dire? Questa è la vera critica al berlusconismo, non lui che ha le sue cose.(.).. Quello che voglio dirvi, ma ve lo dico con …perché è difficilissimo, le cose più difficili da capire sono quelle che avvengono sotto i tuoi occhi. Queste qui sono chiarissime, nel passato. Però vi assicuro che quello che sta succedendo oggi non è legato al signor Silvio Berlusconi, che mandato a casa cambia tutto. No, è molto più complesso. Molto molto più complicato. Ed è una fase che scombina le carte. Però, alcune tornano fuori. Comunque, questo fa parte, ripeto, di un altro seminario.

 

Intervento: Senta, Lei non trova che questo stato che Lei ha definito adesso sia un po’ il sintomo del nostro tempo? Cioè, non lo vedo solo dal punto di vista politico, bensì globale. Cioè, questa mancanza di trasparenza, di autenticità, che c’è nell’aria, a tutti i livelli, così corriamo, facciamo, ma non si sa bene cosa. Secondo me, queste due cose, la mancanza di trasparenza e di autenticità personale, proprio “ma chi sono, ma dove vado, ma qual’è il mio scopo?”, e il risultato è la confusione generale, a tutti i livelli. Non trova?

 

Rusconi: Non lo so.

 

Intervento: La ricerca della verità è sempre quello che ha fatto Lei…

 

Rusconi: Lei mi spaventa, quando dice la verità: io cerco la verità, ma non nel senso…Non lo so, non è un modo di eludere, Lei ha esposto un problema….Non chieda troppo alla politica.

 

Intervento: O agli storici, è la stessa cosa. (c’è una ) bellissima parola, in italiano, la parola distacco: la distanza che bisogna prendere. Io credo che questa terza fase, come ha detto Lei (?). Siamo ancora in una fase di confusione, è normale. Tutto ci pare complesso. Perché dubitiamo (?). Non abbiamo il distacco ancora, non abbiamo neanche il diritto di interpretare facilmente (…). quello che si fa professionalmente in Italia dalla parte dei giornalisti. Io appartengo a una generazione che ha letto durante tutta una vita i giornali italiani. Mi fa meno piacere (?) perché la situazione mi sembra più complessa. Non è vero, è soltanto perché il sapere è andato avanti un po’, ho la nostalgia delle semplificazioni di una volta. (…) il dopoguerra, la fase la capisco facilmente. ……interpretato, discusso con gli italiani, semplificato, anche con gli stereotipi, perché gli stereotipi servono anche alla comprensione. Adesso, aprendo un giornale, la Repubblica o il Corriere, l’interpretazione è diversissima. Cambiano? No (?). Sono sempre cambiati, in Italia, molto più della Germania, voi capite meglio la Germania forse dal fatto che siamo più fissi nei nomi, non abbiamo questa democrazia liberalissima italiana. E per i nomi non abbiamo la possibilità di seguire e di capire quello che c’è dietro a un nome. (Bossi) è ricoverato, adesso? Si capiscono nomi come lui, per esempio, che è un personaggio fisso. Tanti nomi, ogni giorno, nei giornali italiani, come si può capire, anche da parte dei colleghi universitari, in Germania, chi legge i giornali direttamente, chi non legge la traduzione……(seguito incomprensibile). davanti agli insegnanti liceali, adesso, che vogliono una verità. La verità del momento non esiste, nella memoria collettiva, come diceva lei, c’è un’interpretazione dopo, che dà una verità, la verità dell’interpretatore, anche. Non è vero? Questa non è una domanda, è un po’ l’espressione….

 

Rusconi: Dunque, io capisco che abbiamo usato la parola verità…

 

Intervento: noi siamo in un dilemma: siamo insegnanti di italiano, da una parte, facciamo anche il compito dello storico, ogni tanto. E poi chiediamo al collega che ha la materia storia (?) Ci stiamo europeizzando, in questo momento. Abbiamo bisogno di commissioni miste, che interpretano da una parte, dalla Francia, dall’Italia, dalla Germania, la nuova storia, una volta nazionale (?). E se Lei dice che perfino un atto come il tradimento dell’Italia uscendo da un patto fascista, nazionalsocialista, se Lei dice …..non ho trovato veramente l’interpretazione che abbiamo avuto noi, altrimenti non avremmo forse questo amore per l’Italia, che è stato la prova dell’intelligenza italiana, anche di uscire da un patto che guidava fino alla catastrofe.

 

(Intervento: Veramente, non ci sono molti tedeschi che pensano questo… seguito incomprensibile)

 

Intervento: Allora, per noi serve una verità per un libro scolastico semplificato.

 

Rusconi: Io posso fare alcune battute. L’ultima cosa. Non voglio essere frainteso. Certo, i libri di testo dicono che non è stato un tradimento, più o meno sinteticamente, ma in genere lo dicono senza documentarlo bene. Lei l’ha documentato in maniera molto esemplare. Come se fosse una cosa dovuta, no? (Senza invece la…) Addirittura rovesciato: “Ha fatto benissimo”. Non ha fatto benissimo, ha fatto malissimo, cioè tecnicamente è stato un errore colossale, perché non si possono lasciare cinquecentomila soldati senza indicazioni, che vengono deportati in Germania. Accidenti, la colpa non è dei tedeschi, la colpa è di chi governa e non riesce a mandare degli ordini precisi, per cui cinquecentomila ragazzi vengono disarmati nel giro di quarantotto ore. Non era mai successo nella storia. E allora, uno dice: “Ah, gli italiani sono i soliti infingardi”. No, è un errore politico colossale.

 

(interruzione nella cassetta)

 

(CASSETTA 9. Rusconi e Dondolini. Sabato 24)

 

Rusconi: ..il fatto che sia confuso non ci esonera dall’avere delle opinioni più o meno documentate. Quindi, non è che siamo nel panico, “Oddio oddio cosa succede?”. Però mi sembra giusto parlarne qua. Questo però lo voglio dire; e indirettamente l’ho anche detto, guardate che non è un fatto puramente contingente, non è un fatto legato alla persona Silvio Berlusconi, è un fenomeno complesso, già questa è una grossa affermazione, perché viceversa un’altra interpretazione è: prendete questa persona, spostatela, e tutto torna come prima. Guardate che il messaggio che viene mandato specialmente quello (?). Eh no. Però lo volevo dire. Il fatto della situazione confusa oggi non esonera che ciascuno abbia le sue prospettive e non esonera dal dare dei giudizi. Ma ripeto, mi sembra corretto esporlo in questa sede.

 

Maracci: L’ultima domanda?

 

Rusconi: Dai che c’è l’amico giallista, ma possibile che nessuno riesce a trasformare questa in una bellissima storia? Tanto il morto c’è sempre, basta infilarlo.

 

Intervento: Avrebbe un grande successo, di sicuro.

 

Maracci: Se non ci sono domande…

 

Intervento: Del resto è il momento, di un cambio generazionale. C’è poco da fare. (…) Ci si è inventati anche un pezzettino di ’68, sul cambio generazionale che avveniva nel

’68. E adesso siamo al nuovo cambio generazionale. I cambi generazionali non sono tutti ugualmente forti. Alcuni sono più forti (…)

 

Intervento (moderatrice): Va bene, allora pongo a malincuore fine al dibattito, con la speranza di poter avere nuovamente il professor Rusconi.

 

(interventi incomprensibili)

 

 

Intervento (moderatrice): Comunque, riguardo a questo desiderio di approfondimento, ricordo l’esposizione di libri, che troverete all’uscita, e vi pregherei di compilare il questionario di gradimento che vi ho consegnato. facciamo la pausa caffè e ci rivediamo fra circa una mezz’oretta.

 

(h.11.00:)

 

Gabriella Dondolini Scholl, Università di Erlangen- Norimberga: “La multimedialità nella società italiana“)

 

Moderatrice: Proseguiamo con la professoressa Gabriella Dondolini Scholl, che è lettrice del Ministero degli Affari Esteri presso l’Università di Erlangen – Norimberga. Ci proporrà un intervento sulla multimedialità nella società italiana, con particolare riferimento ai settori della scuola e della pubblica amministrazione, cioè dei rapporti tra il cittadino e appunto la multimedialità e lo Stato. Ricordo che la professoressa Dondolini Scholl è appunto specializzata in tecniche multimediali, e vorrei cogliere l’occasione per farle un grande ringraziamento per il suo contributo alla realizzazione di questo seminario di aggiornamento. Prego.

 

Dondolini: Grazie. Dunque, preciso che la mia intenzione, nel preparare questo intervento, parlare di multimedialità senza strumenti multimediali e telematici, è una cosa un po’ assurda. Infatti avevo preparato una bella presentazione di siti internet. Lei, poverina, si è portata da Monaco un accidente di Bimer (?) pesantissimo, io ho letto (?) proprio tutti i collegamenti, cavi e cavettini, e abbiamo scoperto ieri sera, dopo aver montanto il bimer e tutto quanto, che l’unica cosa che non funziona è – a parte il fatto che la presa era messa lì, e ci serviva una prolunga di dimensioni notevoli, manca il collegamento telefonico. Allora, stamattina abbiamo cercato la suora, che è stata molto gentile, Suor Scolastica, ed è stata lì con me a soffrire cercando di attaccare cavi e cavetti con tutto quello che aveva, non siamo riusciti ad effettuare il collegamento. Me l’ha attaccato pure al fax, abbiamo provato di tutto. Allora, come soluzione alternativa, io naturalmente ho un file simile a quello che ho distribuito, dove tra l’altro a un certo punto, siccome questa abbazia è un po’ diciamo antica, senza “un po’”, è antica, a un certo punto i cavi elettrici sono anche abbastanza ..(?), a un certo punto qualcuno ha attaccato un’aspirapolvere e si è interrotta la corrente al computer, per cui a un certo punto è partito un pezzo di file, per cui avete a un certo punto un pezzetto, me ne sono accorta dopo la stampa, che manca qualche lettera, perché poi ho ripreso a scrivere, ..vabbè, non fa niente. Il problema naturalmente è che non vi posso illustrare direttamente i siti che avevo selezionato per farvi vedere appunto esattamente su esempi della Rete quello che gli strumenti telematici hanno cambiato e stanno cambiando nella società italiana. Però non mi dovete credere sulla parola, quello che vi racconto, cioè vi potete documentare direttamente sulla base dell’elenco dei siti che vi ho stampato su questo foglietto. Ho distribuito a ciascuno un foglio; se ce l’avete sul vostro posto, bene, sennò ne ho ancora qualche esemplare qui, chi non ce l’ha dopo se lo può ritirare. Vorrei cominciare facendo una breve presentazione su quello che significa il termine comunicazione. E’ un termine di cui oggi si parla moltissimo, ma per cominciare a parlare di comunicazione mediatica o meglio ancora, io preferisco il termine non mediatica ma mediale, bisogna appunto intendersi (su quello che…) sull’oggetto di cui vogliamo parlare. Il termine comunicazione viene utilizzato nella nostra società, nelle società contemporanee, oltre che per designare la comunicazione naturale, faccia a faccia, che si realizza in presenza dei comunicanti e che è caratterizzata da una vera e propria relazione tra i soggetti, i quali per comunicare interagiscono tra loro e si vengono a trovare in una relazione di reciprocità; viene impiegata, dicevo, anche per definire tutte quelle forme di relazione comunicativa in cui questa è resa possibile dall’adozione di un mezzo prodotto dall’uomo, che stabilisca una relazione tra un emittente e un ricevente. In questo caso io parlerei di comunicazione mediata, cioè che si svolge non direttamente ma attraverso un mezzo, in cui il mezzo si frappone fra questi due termini della relazione di comunicazione per rendere possibile la trasmissione a distanza del messaggio. E in questa nuova accezione – cioè, pensiamo, in genere quando si parla di mass media pensiamo normalmente alla radio, alla televisione, al telefono, non so, a questi strumenti di cui oggi tutti, diciamo così, dispongono, che però soltanto qualche decennio fa erano completamente sconosciuti nella nostra vita quotidiana. In questa nuova accezione, inserita, introdotta, dall’uso dei media, il termine comunicazione non corrisponde più al suo significato originario, di esprimere una relazione interattiva tra due o più soggetti, ma si attesta invece su un significato più debole, che indica soltanto l’atto o la capacità di connettere, di collegare punti o persone o entità che intendono stabilire un contatto. Non si tratta di un passaggio concettuale, qui, di poco conto, perché, e  per questo lo vorrei segnalare, lo vorrei sottolineare, perché mette in luce, anche linguisticamente, come si siano trasformati e ampliati i bisogni di relazione in società estese e dislocate, in cui si manifestano oggi gli interessi di soggetti molto differenti tra loro. Si parla molto, nella nostra società, di comunicazione mediata, soltanto, cioè soprattutto, da quando questa è diventata una forma espressiva diffusa nella nostra vita, da quando è diventata una presenza insostituibile e costitutiva della nostra esperienza quotidiana, basti pensare a come è cambiata la comunicazione all’interno della famiglia. Mi riferisco qui alla famiglia italiana, ma ho in mente un modello di comportamento di fronte ai media in uso molto spesso in Italia, ciascuno di voi che magari è stato in Italia per un periodo di tempo conosce questa onnipresenza per esempio della televisione nella vita italiana, magari uno entra in casa, prima dell’avvento della televisione si stava a tavola, si parlava, si comunicava, eccetera, invece adesso io moltisime volte, quando vado da amici, si parla moltissimo, si comunica, quello che si vuole, però c’è sempre questa televisione accesa nello sfondo, che è un continuo compagno e fa praticamente da sottofondo alla comunicazione; è diventato un elemento (quasi…) talmente presente nella vita familiare, nella vita sociale, degli italiani, che praticamente corre sempre, anche facendo da sottofondo, da leit motiv, della comunicazione reale, della comunicazione umana. E a rigor di logica, è mediata ogni forma di comunicazione che corrisponde, cioè che comporta l’impiego di uno strumento necessario a trasferire qualsiasi tipo di messaggio, quasi che fosse un modo di prolungare i nostri sensi. In questo senso è “medio” la scrittura, anche la tavoletta di creta dei fenici, una lettera mandata per posta, sono tutti media allo stesso modo, e allo stesso modo come la televisione e tutti i mezzi tecnologicamente avanzati di cui oggi la nostra vita quotidiana è permeata. Quello però che caratterizza, la peculiarità e l’innovazione delle nostre società contemporanee, è la possibilità di realizzare la connessione di chi trasmette e di chi riceve, in modo istantaneo. Cioè, non c’è più un passaggio di tempo, viene eliminato il momento della trasmissione materiale del messaggio, è tutto in un’ottica di simultaneità. La lettera può raggiungere persone anche molto lontante, ma ci mette un po’ di tempo, deve superare uno spazio, dev’essere recapitata, c’è uno spostamento nella trasmissione del messaggio. Perciò c’è una relazione differita a cui si risponde in un secondo momento, dopo un momento di pausa, magari di riflessione, ci si mette lì, si risponde, e la comunicazione è tutta inserita in uno schema temporale ben determinato. I mezzi di comunicazione che usiamo oggi hanno abolito completamente questo schema temporale. (Non c’è più, diciamo, questo…) Cade la necessità di supporto reale, fisico, diciamo così, del messaggio che deve superare un certo tipo di spazio o di tempo, e la comunicazione avviene in maniera assolutamente simultanea. Questo implica un ripensamento della relazione tra chi trasmette e chi riceve, e i ruoli di queste due entità della comunicazione, cioè chi trasmette e chi riceve, cambiano, in quest’ottica, completamente. Un tipo importante di questa nuova comunicazione mediata è quella che viene chiamata “comunicazione di massa”, dove la stessa espressione usata per designarla mette in luce il fatto che non si tratta di una comunicazione, una relazione comunicativa condivisa pariteticamente da tutti i soggetti, tra due persone oppure fra un gruppo di soggetti pari tra loro, paritari fra loro, o all’interno di un gruppo ristretto, appunto, ma di una connessione tra un’entità che ha una sua struttura gerarchica, per così dire, quasi una struttura ad albero, c’è un entità che trasmette messaggi, e c’è un ampio numero di soggetti che ricevono questi messaggi, senza avere una reale possibilità di interazione con questi messaggi che ricevono; l’unica possibilità, per esempio, di interazione che c’è di fronte a una trasmissione televisiva se qualcosa non mi va, è quella di spegnere o di cambiare col telecomando la trasmissione che sto sentendo. Cioè, c’è un rapporto quasi di gerarchia tra l’emittente e il ricevente. Il concetto di comunicazione, perciò, subisce qui un’ulteriore trasformazione, nella quale si viene ad affermare un senso più debole della relazione di comunicazione, che a volte si riduce a una semplice connessione, a un semplice passaggio di informazione, non è più una vera e propria comunicazione, per questo si parla di società dell’informazione, cioè un elemento emittente predominante, un elemento ricevente debole. E’ chiaro che qui si ha anche un rapporto indistinto, tra gli elementi della comunicazione, un rapporto squilibrato, perché c’è un punto centrale che è chiaro, distinto, evidente a tutti, e gli elementi periferici, che ricevono, non sono chiari, molto spesso il messaggio viene concepito senza avere presente in maniera chiara quali sono le persone a cui ci rivolgiamo per trasmettere quello che vogliamo dire: cioè, è un rapporto estremamente diverso da quello della comunicazione interpersonale a cui siamo normalmente abituati. Questa assimetria comunicativa, cioè la mancanza di circolarità, di condivisione, è l’elemento più caratterizzante della comunicazione mediatica. Proprio questo aspetto dell’assimetria è quello che ha posto anche il problema del grande potere che può assumere la comunicazione di massa (premetto che non voglio parlare di questo tema), attribuendo ad essa anche la capacità di orientare, e questo è un fatto molto importante, i nostri sistemi di valori. I valori che noi abbiamo vengono molto spesso influenzati in maniera molto chiara e determinante nel corso degli anni, da determinati passaggi di informazioni che noi abbiamo subito, subiamo e che tendiamo a recepire e attuare nella nostra vita quotidiana. Addirittura c’è questa forte influenza in azioni e comportamenti, basti pensare a quello che è successo nella società italiana in cinquant’anni (quest’anno la Rai faceva il cinquantenario, compiva cinquanta anni), in cinquant’anni di televisione. Dappertutto si è vista la televisione, e si sono visti questi vecchissimi filmati Rai in bianco e nero, che venivano trasmessi in piccoli segmenti della giornata, c’erano dei momenti culminanti della giornata in cui tutta l’Italia, come una comunità reale, si riuniva davanti alla televisione a vedere Carosello e il telegiornale. E’ una cosa con cui io sono cresciuta, penso molti anche, non so, che molti conoscono, ed è una cosa che faceva parte, diciamo, di un nostro rituale collettivo. Oggi tutto questo è sparito dalla nostra vita, cioè c’è una onnipresenza di informazioni in tantissime lingue, noi possiamo vedere tranquillamente i canali americani, quelli tedeschi, basta avere un antennone parabolico e tutto funziona, solo l’Italia ha una pletora incredibile di emittenti di tutte le specie, quelle statali, quelle private, quelle regionali, eccetera, per cui c’è di tutto, si trova di tutto, non ci sono più questi rituali collettivi (che, pur non essendo …), cioè in cui non c’è una presenza reale di tutto l’ambiente di comunicazione, c’era però una presenza virtuale di questa comunità, che si riuniva in rituali fissi, a certe ore. E questo ha cambiato moltissimo anche le abitudini della società italiana anche in questo senso, per esempio basti pensare a quello che era una censura vera e propria, che esisteva in televisione. Adesso non parlo tanto di censura politica, parlo di censura puramente di costume, per esempio: mai e poi mai si sarebbe tollerata una ballerina scosciata, oppure le ballerine dei balletti Rai di Studio Uno venivano squadrate da tutta Italia: “Oddio, gonne troppo corte”: sono successi casi di questo tipo. Testi di canzoni che erano abbastanza osé per l’epoca venivano assolutamente buttati fuori dalla programmazione, cioè c’era veramente un controllo di quello che era conforme alle abitudini della nostra società, cosa che oggi è completamente sparita. Non solo: in Italia è un effetto molto molto evidente perché c’è una società di tipo veramente molto tradizionale e patriarcale, che è stata proiettata con grande velocità in forme del tutto nuove. La stessa cosa la vediamo anche per quanto riguarda la lingua: che influenza ha avuto la televisione sulla lingua italiana? Cioè, se vediamo dall’unità di Italia, per esempio gli analfabeti, la presenza del dialetto (adesso ne parlo solo molto brevemente), la presenza del dialetto, l’influenza del dialetto rapportato alla frequenza con cui si parlava l’italiano cosiddetto standard, aveva, dall’unità d’Italia fino praticamente all’avvento della televisione, seguito un certo parametro di sviluppo, ma era stato uno sviluppo lineare, lento e costante. All’avvento della televisione, radio e televisione, c’è stata un’mpennata assoluta della diffusione dell’italiano come lingua unitaria, come lingua comune degli italiani, dappertutto, al punto che il dialetto è adesso una forma minoritaria di comunicazione. Nel giro di cinquant’anni si è raggiunto quello che nei precedenti ottanta e passa anni di unità d’Italia non era stato raggiunto, con la formazione scolastica, eccetera. Perciò queste sono influenze pesantissime, c’è un importante studio di De Mauro sull’influenza della televisione sulla lingua unitaria dell’Italia, e queste sono influenze che la televisione ha raggiunto in maniera determinante. Senza entrare però in queste particolarità, mi interessa particolarmente vedere quale tipo di influenza questi mezzi di comunicazione di massa hanno sull’elaborazione di un quadro di riferimento culturale, che è fatto di valori, di credenze, di orientamenti politici, di modelli di comportamento che ciascuno di noi e ciascuna società forma. Certamente si può dire che la comunicazione di massa contribuisce alla costruzione sociale della realtà, ed è in maniera determinante anche un elemento di accelerazione di determinati processi che una società porta in sé, ma che non raggiungerebbe con la velocità che viene imposta, con l’accelerazione che viene impressa da questi mezzi di comunicazione. Il discorso che dobbiamo fare a questo proposito in presenza di comunicazione mediata dal computer è ancora molto più specifico, in quanto questo strumento presenta un salto di qualità completo rispetto già al salto fatto dalla radio e dalla televisione. Cosa succede con il computer? Questo strumento ha caratteristiche tecniche tali da permettere la riunione di più media, cioè video, audio, testo scritto, addirittura comunicazione telefonica on line, in un solo strumento. Offre per di più la possibilità di comunicazione sincrona e asincrona, un accesso quasi illimitato a fonti di informazione, a cui si può accedere individualmente e in modo autonomo. La differenza è che, mentre nei mezzi di comunicazione di massa tradizionali c’è comunque una sproporzione tra fonte emittente e massa ricevente, e quindi una direzione, come dicevo, ad albero quasi, fortemente univoca, un passaggio dall’emittente al ricevente che è praticamente gerarchico in verticale, nel vettore della comunicazione, nel caso del computer c’è una relazione che può essere attivata, adattata alle esigenze individuali, e presuppone la possibilità, sia pure con diversi gradi di interazione, di rilanciare la comunicazione e di costruire percorsi del tutto autonomi, individuali, personalizzati, all’interno di questo strumentario (?) che c’è a disposizione. Perciò nella comunicazione telematica è possibile realizzare un tipo di comunicazione che si realizza senza rapporto gerarchico, in cui l’architettura, invece di quella ad albero, può essere rappresentata come una rete, infatti il nome, rete, rappresenta, descrive, questo tipo di connessione non gerarchica del passaggio di informazioni e della comunicazione. Questa definizione si limita solo a indicare le potenzialità intrinseche del mezzo, ma dice ancora poco sulle effettive possibilità di interazione che si possono sviluppare all’interno di questo sistema, e quindi sulle sue caratteristiche specifiche. Questo non è un caso, in quanto questo sistema ha un carattere del tutto provvisorio e in continua trasformazione. In realtà, la distinzione ancora netta tra comunicazione mediale tradizionale – radio, televisione, telefono, eccetera – e comunicazione telematica, si sta sempre più indebolendo, ed è destinata a cadere in un futuro prossimo grazie alla convergenza digitale, che unificherà completamente i sistemi mediali nello stesso sistema di codifica, e li renderà tutti gestibili attraverso pc. Cioè noi, usando un pc, potremo unificare tutto quello che è oggi invece legato da diversi strumenti tecnici: non devo andare alla televisione a accenderla, non devo andare alla radio, addirittura ci sono sistemi gestionali in tutti gli elettrodomestici domestici collegati tra loro e gestibili attraverso pc. Sono scenari che non riusciamo ancora mimimamente a immaginarci ma che succederanno, cioè si realizzeranno molto rapidamente. Un’unificazione di questo tipo, però, dovrà naturalmente comportare una maggiore integrazione dei mercati e anche dei linguaggi differenti, si avrà perciò la possibilità di diventare parte attiva nella comunicazione, attraverso prodotti personalizzati a cui ciascuno di noi può accedere, creare, ciascuno di noi produce i propri video, se li taglia, se li sistema, se li monta, se li mette in rete, il giorno dopo cambia idea, toglie un pezzetto, ne aggiunge un altro, mette a disposizione di un forum questi suoi prodotti, si interessa di archeologia, scrive nel suo curriculum vitae, “A me interessa molto l’archeologia, queste sono le foto che ho fatto quest’estate…”; cioè, è una comunicazione continua di persone che non avevano minimamente accesso a questo universo mediatico, che invece si introduce in questo sistema e non abbiamo nessuna maniera di prevedere oggi quello che ci porterà domani questa trasformazione. Non solo non abbiamo nessuna possibilità di prevederlo, ma le nostre previsioni che abbiamo fatto fino a adesso sono risultate completamente sballate, molto spesso. Per esempio, quante volte abbiamo sentito dire “Ah, le rete sarà la morte del libro”. Manco per niente! Il libro è più vivo che mai, soltanto si usa per altri scopi, diversi da quelli per cui si usa la rete. Esempio: nessuno avrebbe pensato, anni fa, che le case editrici avrebbero riempito la rete dei propri prodotti on line, facendo concorrenza ai loro prodotti cartacei, Cosa è successo? Nuove forme di marketing, proprio quello di cui parlavo, cioè bisognerà trovare delle nuove strategie di mercato. Nel mio elenco di siti avete per esempio un sito dell’editoria che porto ad esempio, cioè sotto “Garzanti linguistica.it” c’è il vocabolario Garzanti on line. Voi tutti sapete che Garzanti pubblica un vocabolario. Ma perché questi mettono adesso un vocabolario on line? Molto semplice: si riferiscono a un altro tipo di utenza, diversa da quella che compra il vocabolario cartaceo. Questa utenza, che si avvale magari traducendo, vedendo, leggendo, scolari, che ne so io, (di) questo vocabolario on line, dopo un po’ avendo bisogno del vocabolario cartaceo è fidelizzato da questo prodotto e comprerà il dizionario cartaceo. La stessa cosa ha fatto la casa editrice Paravia: nel sito di Paravia troverete la stessa identica cosa: il dizionario, De Mauro, che è l’ultimo nato tra i prodotti editoriali, dizionari editoriali, è accessibile in rete, con la stessa finalità. Non solo ma c’è, accessibile in rete, addirittura un vocabolario Paravia italiano- inglese. Bisogna soltanto registrarsi e si può accedere gratuitamente al sistema di ricerca con cui si digita la parola che si cerca e si trova il lemma con tutta la sua spiegazione e tutto quello che vi serve. Questo non vuol dire che Paravia dice: “Vabbè, adesso non venderò neanche un vocabolario cartaceo, visto che l’ho messo in rete”: no, è un sistema di marketing differente che tiene conto di queste nuove esigenze del mercato. Paradossale addirittura può sembrare la posizione della Casa Editrice Simone. Se voi cercate il sito, www.simone.it, vedrete che la casa editrice Simone, che è specializzata nell’editoria giuridica, nella preparazione ai concorsi e nei materiali per esperti di giurisprudenza, ci sono in rete tutti i vocabolari giuridici, tutti, della casa editrice Simone. Accessibili -vocabolario del diritto romano, il dizionario di economia, il dizionario giuridico – tutti in rete, accessibili gratuitamente. Questo vuol dire che, di fronte alle previsioni di anni fa, la rete sarà la morte del libro, cosa succede? Succede esattamente il contrario: la rete ha un pubblico, il libro ne ha un altro, ovvero tante volte non sono neanche pubblici diversi, ma si integrano secondo le esigenze dell’utenza. Come si vede da questa interazione, di cui possiamo prevedere fino a un certo punto gli effetti, l’intervento di questi strumenti telematici ha un’influenza notevolissima sugli sviluppi di determinati aspetti della società. Vorrei portare ad esempio due aspetti principali, perché naturalmente quest’ ambito è molto molto esteso. Due aspetti principali: uno è l’ambito scolastico, cioè: cosa ha cambiato la multimedialità, l’avvento della multimedialità, nella scuola italiana? E come sta cambiando ancora? Secondo: cosa è cambiato nel rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione grazie agli strumenti telematici? Concentriamoci un momento sulla scuola. Ho raccolto all’inizio dell’elenco una serie di siti generali, da cui vi potete fare un’idea di quanto sia diffusa questa ormai invalsa abitudine di tutte le scuole di avere un proprio sito internet, di mettere in rete i propri progetti, di sviluppare propri progetti che vengono poi resi accessibili sia a utenti della rete, sia attraverso una rete di comunicazione all’interno delle scuole, a cui si accede soltanto se si è membro di questa rete. Bene, cosa è successo? L’Italia, fino a circa dodici anni fa, era da considerare come il fanalino di coda tra i paesi dell’Europa unita, dell’EU, dal punto di vista delle penetrazione della competenza telematica della popolazione. (C’era una diffusione…) era mi sembra al terzultimo posto prima della Grecia e del Portogallo. Nel giro di un decennio c’è stato un intervento molto forte da parte dello Stato per valorizzare e potenziare la competenza informatica all’interno della scuola. Le tre I, no? Impresa, inglese e informatica. E perciò ci sono stati dei programmi abbastanza forti per convincere le scuole a lavorare molto in rete. Non solo, ma ci sono stati incentivi anche per gli insegnanti, iniziative che sono state prese dal Ministero per favorire in ogni caso la cosiddetta alfabetizzazione informatica degli insegnanti, attraverso dei moltiplicatori (?) che si sono trovati in ogni scuola. Ogni scuola ha un suo esperto di rete, ogni scuola provvede ad alfanetizzare i propri docenti, ogni scuola ha la possibilità di pagare per i propri docenti, corsi di aggiornamento on line che editori specializzati come per esempio, lo trovate sull’elenco, sotto siti di aggiornamento per insegnanti, la casa editrice Garamond, offre regolarmente corsi in rete a cui gli insegnanti accedono previo pagamento di somme modiche tipo sessantacinque euro, ottanta euro a corso, che vengono poi rimborsate da ogni scuola, per tutti gli insegnanti che prendono parte a queste misure di formazione o di aggiornamento telematico. Oltre a ciò, viene favorita moltissimo anche la formazione di comunità telematiche tra scuole: ci sono scuole che collaborano, pur non essendo presenti diciamo in vicinanza, allo stesso progetto, addirittura a livello internazionale, avvalendosi di fondi comunitari come Comenius. Molto spesso scuole, anche in paesi differenti, che hanno dei gemellaggi o dei rapporti di cooperazione, producono materiali comuni che vengono poi messi in rete. Questo panorama risulta difficilmente visibile a un occhio che naviga la rete senza cercare questi strumenti, però è evidente se voi cercate per esempio in questi siti generali che ho elencato, l’archivio di Indire (?): gold indire.it (?), si viene portati in questo sito che adesso si chiama Indire, della biblioteca di documentazione pedagogica italiana. Questo archivio contiene praticamente tutto un elenco di migliori pratiche (?) di determinate scuole che hanno lavorato su determinati temi, hanno prodotto dei materiali e li hanno messi in rete. Un esempio di queste migliori pratiche lo trovate sotto “siti vari”, è un sito fatto da un insegnante di diritto in un istituto tecnico, il professor Galasso, sulla Costituzione e sulla sua storia. Sito estremamente articolato, molto utile anche per insegnanti di italiano che magari vogliono lavorare sulla Costituzione in Germania, dove ci sono moltissimi materiali sull’origine, sulla storia e sui contenuti della Costituzione, anche già didatticizzati, in buona parte, e che sono stati messi in rete a disposizione appunto di tutti coloro che vogliono accedere all’archivio della biblioteca di documentazione pedagogica. Le scuole collaborano anche tra loro, per esempio c’è, sotto “pianeta scuola”, una raccolta di siti in cui si può vedere quali sono tutti i siti in cui le scuole cooperano producendo materiali…(?). Interessante anche la raccolta, che si trova nella biblioteca di “mediamente Rai”, mosaico (?), che contiene una serie di articoli e di interventi sulla multimedialità nella scuola. E il portale delle scuole in rete, a cui le scuole possono aderire, le scuole dispongono di un (una?) password, questo (?) è soltanto per vedere come funziona questo portale, ci sono moltissime scuole connesse, alcuni progetti sono visibili, molto spesso le scuole sono connesse per territorio, per Provincia, per cooperative di Comuni, per così dire, che lavorano a progetti insieme. Questo processo non è soltanto un processo che inizia nelle scuole superiori, ma inizia nelle scuole elementari. Ho portato veramente a caso, cioè scegliendole a caso tra i tantissimi siti che ci sono delle scuole elementari, questi siti hanno un look del tutto non-professionale, come fatto, non so, tra i banchi di scuola, con disegnini un po’ naif, carta a quadretti, non hanno un look assolutamente di quelli stilizzati in un certo modo, con design professionale, eccetera, sono fatti dai ragazzi insieme a degli insegnanti che naturalmente dispongono degli strumenti di cui (che) mano mano si sono fatti carico di acquisire, ma sicuramente non sono professionali, e molto spesso sono molto carini, risultano quasi a volte veramente simpatici, proprio per questa freschezza che hanno nella presentazione grafica. Vi ho preso due esempi, due esempi usati (?) ad hoc non da scuole di grandi città, ma da scuole di paese. Il primo esempio della scuola elementare è un sito della scuola elementare Santucci di Casteldelpiano, in provincia di Grosseto. L’ho scelto ad hoc visto il tema della Maremma che avevamo avuto, questo Casteldelpiano è un pochino ai margini della Maremma, è già verso l’Amiata, però è in questa zona, e è un sito in cui appunto questa scuola si presenta e c’è, sotto l’accesso (La voce?) “lavori”, ci sono tutta una serie di materiali che le classi, in genere seconda, terza, quarta e quinta, hanno composto in modo progettuale. Il secondo modello che ho è una scuola elementare, (vedete qui “elementare”, doveva essere, si è cancellato), Pirandello di Pesaro. In questa scuola c’è in particolare, ci sono moltissimi materiali anche qui, in particolare mi è sembrato molto carino il piccolo progetto “Filastrocchiamo”, che sono filastrocche inventate e illustrate dai bambini. Certamente conoscerete tutti l’opera di Gianni Rodari, e anche questi progetti che lui faceva nelle scuole dove ha insegnato o con insegnanti con cui collaborava, per portare i bambini a una creatività linguistica molto estesa. Potrei consigliare, per chi volesse documentarsi in questo ambito, un libro molto carino di un’insegnante elementare, non solo elementare, però si può usare anche nell’ambito non elementare, Ersilia Zamponi, che ha scritto un libro ispirato appunto a queste tecniche di creatività linguistica che si chiama “I draghi locopei”. Questo termine è un po’ strano, è praticamente un gioco di parole creato dai bambini che venivano addestrati praticamente a un’estrema creatività linguistica; e di questo ne troviamo traccia in questo lavoro, che si chiama appunto “Filastrocchiamo”, (anche qui abbiamo un titolo abbastanza creativo), in cui i ragazzi hanno creato da soli delle filastrocche e le hanno illustrate. Ragazzi di terza elementare, seconda elementare, quarta elementare. Ho inserito il sito specifico qui, sotto “mappa”, il secondo sito potete trovare proprio l’elenco dei lavori. La stessa cosa la troviamo anche per la scuola media. La scuola media, qui ho portato due modelli e ho cercato di prendere un modello proveniente da una scuola del sud, una scuola calabrese. E’ il sito della scuola “Legnetti” (?) di Schiavonea, che è inserito appunto nell’archivio della biblioteca di documentazione pedagogica, in cui si raccolgono tutta una serie di lavori dell’istituto. E qui trovate appunto, in questo doppio sito, ci sono questi due indirizzi, tutta una serie di lavori che potete guardare per rendervi conto di come moltissime scuole, pur non avendo questa grande esperienza grafica, pur non avendo una forma grafica veramente accattivante, professionale, eccetera, lavorano moltissimo in questi ambiti. Naturalmente questo uso molto pronunciato della rete, non tanto per la descrizione dell’istituto in sé e per sé, ma per la messa a disposizione, per lo scambio, per la comunicazione, e per l’interazione nella creazione di materiali didattici comuni e di lavori progettuali, ha creato anche un certo cambiamento nell’ottica della didattica quotidiana in classe. la scuola italiana è una scuola molto molto tradizionale, è stata una scuola molto tradizionale, incentrata su uno studio molto mnemonico, molto basato su …uno studio anche a memoria, molto spesso la nostra storia di scolari ci può servire ad esempio, e mano a mano si è sempre più alleggerito, oggi è molto più leggero il…Però naturalmente, in presenza di contenuti che si moltiplicano esponenzialmente, il concetto di studio con il libro, di studio individuale, di studio finalizzato a un esame, a uno scrutinio (anche le forme di valutazione e il loro cambiamento hanno contribuito naturalmente alla modifica della didattica, questo lo dico tra parentesi) hanno creato naturalmente un certo tipo di cambiamento nell’uso dei metodi, cioè non più il metodo frontale, molto spesso il metodo progettuale richiede un cambiamento totale di ottica, cioè la didattica collaborativa, una forte forte influenza del cooperative learning. Di questa trasformazione se ne (si?) vedono le tracce in questi siti internet, ma anche in tutta una serie di siti volti alla formazione e all’aggiornamento degli insegnanti, e che portano avanti in maniera molto decisa un tipo di didattica che va via dalla classica, tradizionale, didattica frontale che noi tutti conosciamo, e va verso una didattica che si basa molto fortemente su attività di cooperazione, di lavoro di team, e naturalmente anche delle forme di attenzione molto particolari per le nuove situazioni sociali che sono entrare ormai nelle classi italiane. Qui vorrei fare un esempio particolare, e cioè il sito, a cui potete accedere liberamente e gratuitamente, a differenza dei corsi della Gamamond che sono a pagamento, il sito del progetto Alias, che è un progetto tenuto dall’Università di Venezia, e che è volto alla formazione e all’aggiornamento degli insegnanti che operano in ambiti in cui c’è una forte presenza di ragazzi stranieri, provenienti dalle più diverse etnie. E’ praticamente un sito in cui si raccolgono moduli, c’è un forum, c’è un aggiornamento continuo a distanza, per gli insegnanti che si trovano a dover affrontare situazioni di multiculturalità oppure si trovano di fronte delle classi in cui è importante introdurre una didattica interculturale. Questo sito Alias, io ho aggiunto qui in particolare due, visto il tema del nostro convegno, due moduli che vi potete scaricare liberamente; il primo modulo è “educazione interculturale e discipline scolastiche”, l’indirizzo aggiunto qui è per il download, e il secondo modulo “Il cinema nella prospettiva interculturale”, con un elenco abbastanza approfondito di film di cui ci si può avvalere per mettere in evidenza e discutere con i ragazzi queste tematiche di approccio tra culture. Ci sono moltissimi altri moduli, c’è un forum, e si può aderire tranquillamente, cioè se uno si iscrive al corso di aggiornamento può aggiornarsi anche partecipando al forum moderato. Però i materiali sono accessibili gratuitamente per tutti gli insegnanti interessati in rete. Come esempio di un altro materiale nato a Venezia, ho aggiunto un sito che sicuramente vi potrà essere molto molto utile: è un sito di due insegnanti in Grecia, che lavorano in Grecia nell’ambito dell’insegnamento dell’italiano a stranieri, e che hanno fatto una specializzazione all’interno del Master Itals di Venezia. Queste insegnanti hanno creato, come lavoro finale del loro master, questo sito che si chiama Navigaroma, ed è un sito che vi sarà sicuramente utilissimo se voleste lavorare con i vostri studenti a un approfondimento di quello che è la città di Roma. Prima cosa, è un sito che si può anche gestire in autoapprendimento perché spiega molto particolareggiatamente agli studenti qual è l’approccio didattico seguito. (Abitua gli studenti…) c’è anche un test (per riuscire a capire) in modo che gli studenti capiscano quali sono i propri stili di apprendimento. Se uno ha uno stile di apprendimento più visivo, più acustico, più lavora sulla carta, più invece lavora con audio eccetera, e c’è un test iniziale, e gli studenti vengono (invitati poi a…) portati in giro per Roma. C’è tutto un percorso attraverso gli scrittori, attraverso la città, attraverso la cucina romana, molto molto articolato e ampio (c’è qualche link, avverto, che non funziona più, però la maggioranza funziona ancora molto bene), e penso che questo potrebbe essere un esempio di come questa…l’ingresso…

 

(interruzione nella cassetta)

 

 

…basta registrarsi per poter accedere alla rete. Un cambiamento di questo tipo è, diciamo così, epocale per uno tipo di struttura molto burocratica e molto rigida, come era la scuola italiana; come fortunatamente non è più la scuola italiana. La scuola italiana attraversa un momento forse di confusione sicuramente, di fronte a questa riforma, un momento possiamo dire un po’ di caos, anche perché questa riforma ha suscitato le ire di molti operatori scolastici, insegnanti e studenti, eccetera, però all’interno della scuola è entrato uno spirito diciamo così di rinnovamento didattico di cui si deve in ogni caso prendere atto, pur in presenza di questa situazione dal punto di vista dell’organizzazione anche caotica, ma che porterà e sta portando cambiamenti molto evidenti nel modo di lavorare all’interno della classe, con la classe, con le altre classi, c’è un’apertura all’esterno che contrasta in modo evidentissimo con la chiusura tipica che tutti noi a scuola abbiamo vissuto.

Vorrei adesso presentare la seconda parte di questi cambiamenti di cui volevo parlare, cioè come è cambiato il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione in presenza delle nuove tecnologie multimediali. Non dico una novità se sottolineo che il rapporto tra cittadino e Stato è fin dagli inizi dell’unità d’Italia, è stao disturbato da un senso di sfiducia profonda del cittadino -in Italia, naturalmente, ben diversamente da quanto avviene in Germania, in cui io rimango sempre stupita da questa immensa fiducia che i cittadini normalmente hanno nello Stato e si sentono adesso stupiti del fatto non possono più fidarsi completamente, c’è qualcosa che non funziona più in questo rapporto di apertura e di fiducia, per cui molti sono un po’ spiazzati e non sanno cosa pensare – in Italia non c’è problema: il cittadino non si fida dello Stato, il cittadino è convinto che lo Stato sia da avvicinare con diffidenza, quanto meno, e molto spesso è un rapporto veramente disturbato. Il cittadino si sente taglieggiato da un eccesso di burocrazia, dalla necessità di andare a fare file per ogni documento che deve essere fatto, di pagare carte bollate, marche da bollo, che i tedeschi non conoscono assolutamente, non sanno cosa sia la carta bollata, la marca da bollo, e ai miei studenti tedeschi devo spiegare “che è la carta da bollo?”. Che è la carta da bollo, è un pezzo di carta con un timbro che…..Dice: “Per il passaporto serve una marca da bollo? Inaudito, impensabile. Io sono cittadino, non mi vuoi dare il passaporto?”. Io ti pagherò il libretto, ma per cinque anni un italiano, signori, paga cinquanta euro all’anno per un passaporto, se non sbaglio. E’ una cosa ben diversa. Questo rapporto disturbato tra cittadino e Stato è dovuto anche al fatto che lo Stato usufruiva di un linguaggio impenetrabile, la burocrazia era come un muro di gomma, come un molo di fronte al quale il cittadino aveva già un momento di panico, già nell’entrare nei locali pubblici. Negli uffici pubblici uno entra, già si vede in questi ministeri, molto spesso io penso al Ministero degli Esteri, uno entra in un grande edificio di architettura fascista dove già questo effetto di labirinto sgomenta e lascia un po’ perplessi. Ecco, questo è l’atteggiamento che io provo da cittadino, nei confronti di qualsiasi istituzione pubblica, perché sono nata a Roma. Ho notato che, dove c’è appunto una quintessenza, una distillazione di burocrazia, talmente intensa per cui queste esperienze si avvicendano l’una all’altra, un continuo, un crescendo di impotenza del cittadino di fronte a questo molo (?)…In piccole città come Parma, Reggio Emilia, fortunata te, c’è un atteggiamento ben diverso, il cittadino sa che più o meno di fronte alla pubblica amministrazione può avere un atteggiamento più disteso, perché il piccolo in Italia funziona meglio. Il grande funziona male. Penso che Torino sia forse anche come Reggio Emilia, immagino. Voi siete i più efficenti, efficentissimi, non so. Invece cosas succede? Già un cittadino che deve fare una dichiarazione delle tasse, io per esempio non so, sono laureata, insegno italiano, m’è toccato l’anno scorso fare per la prima volta in vita mia un modulo 740, mentre faccio da anni le mie dichiarazioni delle tasse tedesche senza battere ciglio, in una lingua straniera, questo 740 mi ha lascisto veramente…ci ho messo due giorni solo per capire esattamente cosa dovevo fare. E’ una cosa, insomma, che mi ha lasciato veramente molto perplessa. (Cioè questo rapporto), con questo voglio soltanto dire quanto sia veramente profondamente disturbato, il rapporto di fiducia, di apertura, tra cittadino e Stato. Dall’avvento delle leggi Bassanini 1 bis e ter, con cui la pubblica amministrazione si apre alla trasparenza, già questa parola, “trasparenza”, contrasta con quello che il cittadino italiano è abituato a pensare della pubblica amministrazione, la pubblica amministrazione si è data da sola un nuovo codice di comportamento, di comunicazione. Ha dato l’incarico a eminenti linguisti italiani, cito soltanto la professoressa Zuanelli (?) dell’università di Venezia, di vedere completamente come si può semplificare – semplificazione, già questo termine – il linguaggio amministrativo, come il professor Cortelazzo, Michele Cortelazzo (?), come rendere più agevole la comunicazione nella pubblica amministrazione, nella burocrazia, e c’è stato un fiorire di manuali co-finanziati dallo Stato e dalla pubblica amministrazione per snellire, per formare il proprio personale, cioè il personale amministrativo dello Stato, alla semplificazione dei testi che dovevano servire al contatto col pubblico. Ogni Ministero si è fornito di un sito Internet che si avvale di una voce “relazioni con il pubblico”. Ogni Ministero ha cercato, sta cercando molto spesso il più possibile, di darsi un’immagine di accessibilità, di… – (in tedesco si dice…), nel linguaggio del computer si dice “user friendly”, una parola abbastanza intraducibile per l’italiano, “user friendly” rimane in italiano in genere (tradotta) in inglese; cioè dare una sensazione di accessibilità, di trasparenza, di “lo Stato è amico”, non è nemico, lo Stato non ti è ostile ma ti aiuta, se devi fare qualcosa. E questo, nel giro di pochi anni, dal ’98 a oggi, grosso modo, ha prodotto molti risultati. Vorrei dare soltanto tre esempi, anche qui ho scelto degli esempi di cui forse potete avvalervi per le vostre.., per la didattica. Un esempio della comunicazione istituzionale che funziona, secondo me, è il sito del Parlamento, www.parlamento.it, che è ricchissimo di informazioni tra cui per esempio i Presidenti della Repubblica, il testo della Costituzione, eccetera, ma la cosa più veramente nuova e simpatica di questo sito è “Il Senato per i ragazzi”, e cioè è una pagina in cui c’è un piccolo senatore romano in cartone animato, infatti vedete che si chiama, questo sito, senato.it.spqr.home (?), SPQR è la sigla dei senatori romani gli hanno dato apposta questo nome, c’è questo bel senatore che parla un po’ come un fumetto, e che conduce i ragazzi attraverso un sito in cui viene illustrato il funzionamento del Parlamento, con delle scenette da fumetto, però un linguaggio semplificato, chiaro, accessibile appunto ai ragazzi. E c’è pure un piccolo test per vedere se hanno capito come funziona veramente che cosa (?); questo è un sito veramente utile anche per stranieri, io l’ho usato con i miei studenti di giurisprudenza scherzando, i quali non sono ragazzi ma hanno una competenza diciamo non molto elevata dal punto di vista linguistico, e vi era appunto interesse a vedere come funzionava il Parlamento, e ci siamo molto divertiti nell’entrare in questo sito che usa un linguaggio abbastanza semplificato. Questi sono due esempi di quello che può fare in sito Internet per abbassare le barriere tra Stato e cittadino; addirittura (è) accessibile ai ragazzi. C’è anche la possibilità, al Senato, di andare con tutta la classe, se qualcuno di voi fa un viaggio con la sua scuola, a Roma, consiglierei di prendere per tempo appuntamento perché è possibile per classi visitare il Senato e la Camera e presenziare ad alcune sedute. C’è la possibilità di telefonare per prendere appuntamento e presenziare ad alcune sedute. Spero solo che vi capiti una seduta dove non si ammazzino a botte, questo anche può succedere, ma…

 

Intervento: Oppure non c’è nessuno.

 

Dondolini: O non c’è nessuno, può anche capitare, come al parlamento europeo, dove spesso non c’è nessuno. Un’altro sito che può essere citato come esempio di accessibilità, il sito amico dei cittadini, potrebbe essere il sito Inps. L’Inps è l’ente della previdenza sociale. Era praticamente una giungla impenetrabile per i non addetti ai lavori, per chi, poveretto, doveva farsi conteggiare gli anni di contributi versati, la pensione, eccetera, (era..), bisognava farsi forza in anticipo per andare a via dell’…..(?) all’Inps e farsi fare i conti, file su file e compagnia: appuntamenti, eccetera. Oggi l’Inps è presente del tutto in via telematica. Si può chiedere un numero di accesso, si può accedere direttamente al proprio libretto previdenziale telematico se si è ricevuto a casa questo numero di accesso che si chiede in rete; chi per esempio impiega una badante -sapete cosa sono le badanti?. Sono quelle sante signore straniere che curano i vecchietti italiani che non sono autosufficienti – allora, (per) iscrivere una badante è una cosa abbastanza difficoltosa, invece nel sito Inps ci si possono scaricare tutti i materiali e si possono spedire per posta, oppure c’è un formulario on line in base al quale si può fare l’iscrizione direttamente in rete. Si può scaricare tutta la modulistica e ci sono numeri verdi, anche questa è una novità del rapporto nuovo tra cittadino e Stato, numeri verdi gratuiti a cui si può accedere direttamente, a cui si possono chiedere tutte le informazioni. Ultimi due esempi di questo mutato rapporto tra Stato e cittadino- è chiaro che l’intenzione di mutare questo rapporto è partita dallo Stato, e che piano piano il cittadino adesso sta cominciando ad abbassare un po’ le difese e ad accedere a questi servizi che lo Stato gli offre, con maggior disinvoltura, con maggiore disponibilità – per esempio il sito del Ministero della giustizia. www.giustizia.it, cito soltanto l’esempio della voce del menu “servizi per il cittadino” e “come fare per”. qui c’è tutto un elenco di spiegazioni particolareggiate (su) come fare per: l’adozione, la separazione, cioè un cittadino che vuole informarsi su determinati temi giuridici, trova in rete semplicemente delle istruzioni per l’uso di determinati strumenti legislativi. E’ una novità assoluta che fino a qualche anno fa era impensabile. E, dicevo, qui c’è anche l’ufficio relazioni con il pubblico, con il numero verde, a cui si può accedere in qualsiasi momento. Altra novità notevole è: il cittadino non è più muto. E questa forse è la novità principale. Il sito del Comune di Roma, per esempio, ha un …., ci sono tutti gli indirizzi e-mail delle persone competenti per i servizi, gli assessorati del Comune, e c’è una possibilità di scrivere quello che si pensa necessario. E si ottiene anche risposta, a differenza di quello che succedeva nella situazione precedente, in cui molto spesso chi scriveva a un ente pubblico sapeva già che non avrebbe avuto risposta al 90% dei casi, e andava munito di tutte le sue scartoffie, di persona, a fare file e controfile. Oggi molto spesso si riesce già ad avere una risposta in rete. Le reti civiche sono anche una novità assoluta, cioè il cittadino ha una voce, il cittadino può aderire a reti civiche, si può muovere, può formare dei gruppi di interesse, e ha una voce in capitolo. Su questo sito, siccome il discorso è abbastanza esteso perché queste reti civiche sono una realtà molto vasta in Italia, potete, se vi interessa il tema, spulciarvelo direttamente da questo sito dove c’è un elenco delle reti civiche italiane, sono tutte registrate in questo sito di apertura. Non solo è cambiato il rapporto con lo Stato, ma è cambiato il rapporto anche con la stampa, grazie a questi strumenti telematici. Prima il cittadino che voleva mandare una lettera al giornale si metteva lì e scriveva la sua lettera, ma chi è che lo faceva? Si leggeva il giornale, a casa, al lavoro, no? Pochi erano quelli che lo facevano, sostanzialmente. Oggi quasi tutti i giornali hanno dei forum. Per esempio, Repubblica ha dei forum su tutti i temi che possono interessare molto gli italiani, per esempio il tema dell’euro, del rincaro della vita, è stato sentitissimo dagli italiani, che hanno preso posizione in modo estremanente massiccio nei forum aperti ad hoc su Repubblica. Leggendo questi forum molto spesso si trovano dei materiali utilissimo per tastare il polso degli italiani di fronte a un certo problema. E sono materiali anche che, dal punto di vista didattico, possono avere un elevato grado di utilizzabilità. (Anche per quanto riguarda…) Ci sono dei giornalisti che godono di un seguito notevole, faccio soltanto un esempio: Severgnini, Beppe Severgnini che scrive sul Corriere, e che ha una rubrica telematica di colloquio continuo con il suo lettore. Lettore che gli scrive, scrive al suo giornalista della sua rubrica preferita, e c’è la possibilità di uno scambio. Questi forum sono in rete, sono accessibili, praticamente il cittadino non è più un muto, ha una sua presenza, una sua possibilità di entrare in questo circuito reticolare di comunicazione. Questo ha cambiato notevolmente anche la psicologia del cittadino, che in Italia prima era quasi colpito da uno stato abbastanza pronunciato di sensazione di impotenza, di fronte a questa amministrazione pubblica, e che oggi invece riscopre delle possibilità di azione che prima non sapeva di avere, e probabilmente non aveva, sicuramente. Un ultimo esempio di trasformazioni notevoli sono alcune riviste che esistono soltanto in forma telematica. (Per esempio…)… o esistevano soltanto in forma telematica. Qui ho citato soltanto una rivista che si occupa specificamente di questo tema di come incide la telematica, gli strumenti telematici, la multimedialità, nella società.  E cioè, la rivista “Telema”, che si trova in rete, trovate in rete tutti i numeri con articoli interessantissimi di approfondimento su questo tema di cui oggi vi ho dato una piccola prospettiva iniziale ma che può essere notevolmente approfondito e sistematizzato analizzando anche moltissimi altri campi in cui questo fenomeno effettivamente si verifica. Ecco, con questo avrei terminato la mia esposizione, spero di non aver ecceduto come tempo, e se volete farmi domande oppure intervenire, oppure dare informazioni, darci informazioni…

 

Moderatrice (?): Se ci sono domande, interventi, …

 

Intervento: Gabriella, il numero dell’Inps, l’indirizzo (?).

 

Dondolini: E’ la seconda pagina, sotto la comunicazione istituzionale: www.Inps.it. Bisogna però, per avere questo numero, e accedere ai propri dati previdenziali, chiedere un numero di accesso che spediscono a casa, e poi con questo numero si può accedere ai dati. Questo perché, come diceva ieri, c’è questa idea della privacy o privatezza, per cui non è che chiunque possa accedere ai dati per via telematica.

 

(interventi incomprensibili)

 

Moderatrice: Allora, vi prego di intervenire con una certa celerità perché purtroppo alle tredici dobbiamo cominciare con il pranzo: pensate in fretta. Siate concisi.

 

Dondolini: Comunque, io ho un’ampia collezione di siti Internet didattici, anzi abbiamo fatto nell’ambito di un progetto multimediale abbiamo fatto dei materiali in rete che non sono ancora liberamente accessibili ma chi desiderasse vederli mi può chiedere l’accesso e gli do un accesso, diciamo così, da ospite, non c’è il mio indirizzo e-mail sul vostro foglio, se lo volete scrivere ve lo scrivo qui. Lo potete aggiungere, e vi mando per e-mail il file in word con tutta una serie di siti istituzionali, di siti scolastici o storici, o geografici, di cui magari vi potete avvalere per far lavorare i ragazzi anche insieme su un progetto, su un’informazione da cercare, su quello che volete. L’e-mail è gadondol@aol.com (?). Ho un sito proprio di indirizzi di civiltà o di vari temi di civiltà, e in più una bibliografia molto ampia, aggiornata adesso, il mese di marzo, è stata aggiornata ultimamente, su libri di cui vi potete avvalere per approfondire l’uno o l’altro tema di civiltà.

 

Intervento: Vabbè, faccio una domanda io, mi interessa. Io sono un po’ perplessa, cioè non perplessa, sono d’accordo con te ma ho un dubbio, un punto di domanda, proprio. Il cittadino non è davvero più …(?), punto di domanda? Perché io ho provato un paio di volte non tanto abbastanza (?) da poterne trarre delle conclusioni definitive, ma un paio di volte ho veramente cercato di interagire con queste istituzioni perché avevo bisogno di materiale, avevo bisogno di informazioni, il muro è più spesso, più grosso, più solido di prima. Io non sono passata e non ho ricevuto risposta.

 

Dondolini: Guarda, universalmente non posso risponderti. Ti posso solo dire che io, con mio grandissimo stupore, ti dico due esperienze che ho avuto. Una è quella della Rai. La Rai ha fatto un corso per extracomunitari, si può dire, con cassette e con una serie di poli presso determinate scuole. Io ho scritto a un indirizzo che c’era sotto questo sito e ho mandato appunto…Mi hanno risposto dicendo “No guardi, noi non siamo più competenti, deve rispondere a quest’altro numero”. Io ho scritto a quest’altro numero, ho detto “Mi piacerebbe avere le cassette, ditemi se si possono comprare”; nel giro di quindici giorni, senza avere risposta, mi è arrivato un pacco di quindici cassette e non ho avuto risposta ma mi è arrivato un pacco di quindici cassette, che poi non erano utilizzabili per i miei fini, a insomma le musicassette sono arrivate. Secondo esempio, la seconda esperienza che ho avuto positiva, devo dire che l’Inps mi ha mandato a casa tutti i dati, sono riuscita ad accedere, ho il mio registrino con tutti i miei dati, funziona benissimo, mi sono scaricata tutti i dati per la badante di mamma da lì, ho fatto l’iscrizione telematica; il Ministero degli Esteri, quando per esempio volevo informazioni per un concorso ho scritto e mi hanno risposto; e il Comune di Roma, io volevo un’informazione per quanto riguarda il cane e mi hanno risposto. Altri casi non mi hanno risposto, però ….

 

Intervento: Io ho scritto alla Rai, recentemente, e non ho avuto nessuna risposta.

 

Dondolini: La Rai è un po’ difficoltoso.

 

Intervento: Ho detto, non ho un’esperienza tale…, infatti era proprio un interrogativo aperto.

 

Dondolini: Comunque è un processo in cui, diciamo così, ci si deve incontrare a metà strada. Cioè, secondo me il cittadino deve in qualche modo cambiare il suo atteggiamento nei confronti della pubblica amministrazione e usufruire di queste potenzialità che almeno teoricamente ci sono. Arriverà il momento in cui, in questo breve spazio dall’inizio di questa rivoluzione a oggi forse non si è sviluppata una vera cultura della trasparenza, ma sicuramente se c’è una convergenza di iteressi tra la pubblica amministrazione e il cittadino a sviluppare questa cultura, questa cultura prima o poi si svilupperà. Cioè, molto spesso in Italia il problema di base è che il cittadino (non è così..), non insiste tanto sui suoi diritti come noi facciamo automaticamente in Germania, per cui molte volte il cittadino si pone in una situazione diciamo vittimistica, dice “Tanto non mi risponde nessuno, manco scrivo”. Perciò il momento è importante, quello (?) di superare questa posizione già negativa, e cercare un avvicinamento, una composizione di questo conflitto tra il cittadino e la pubblica amministrazione.

 

Intervento b: Più che altro non una domanda ma un ringraziamento.

 

Moderatrice: Va bene, allora solo un grazie naturalmente alla professoressa Dondolini Scholl per il suo intervento. Volevamo ricordarvi che spediremo ai vostri indirizzi ancora una volta l’elenco dei partecipanti perché purtroppo alcuni numeri di telefono non sono completi. Se volete adesso, anche magari a pranzo, completare questo, e poi noi manderemo ai vostri indirizzi le fotocopie. Soltanto due parole, allora, per concludere questo seminario. Un ringraziamento al Dottor Francesco Jurlaro, Addetto Culturale del Consolato Generale d’Italia e Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura; un grazie al Bayerischen Staatsministerium fur Unterricht und Kultus e al signor Udo Schmitt, Consulente di lingua italiana nei ginnasi; un grazie di cuore al dottor Massimo Maracci, della scuola “Cultura italiana” di Bologna, per la sua consulenza, per il suo aiuto, per i suoi interventi; un grazie alla Professoressa Dondolini Scholl per ilo suo sostegno e il suo aiuto fattivo, naturalmente un grazie a tutti i relatori per la loro disponibilità e per i loro interventi; un grazie di cuore a tutti voi per aver partecipato. Grazie a tutti e arrivederci.

 

(Intervento: e un grazie di cuore alla Dottoressa Salati? : la moderatrice?)

 

Intervento: Adesso tocca a noi ringraziare tutti quanti i partecipanti, vorrei ringraziare i relatori, naturalmente, ma particolarmente gli organizzatori, perché senza Lei, signora Salati (?) e senza Lei, signor Maracci, questo bellissimo seminario non sarebbe stato possibile, anzi non ci sarebbe stato neanche. Un seminario informativo, cioè noi abbiamo imparato tanto, che era interessante, vuol dire che questa informazione molto spesso ci ha stupito. Era divertente, ci ha fatto (il) più delle volte ridere, sorridere, comunque essere allegri. Questo seminario era, come sempre, buono. Vuol dire che noi abbiamo sempre mangiato bene. Grazie per tutto questo a voi, abbiamo un piccolo ricordo per Lei, un dolce per Lei, signora Salati (?)

 

Salati: Grazie mille.

 

Intervento B: (e un amaro per il signor Maracci?) Grazie tantissimo per questo seminario a tutti quanti.

 

Maracci (intervento disturbato da rumori di fondo): A nostra volta ringraziamo i presenti, ci scusiamo se ci sono stati dei problemi, anche giustificati, abbiamo delle buone scuse, perché i tempi di organizzazione sono stati assolutamente strettissimi, senza esagerare è stato organizzato in un mese e mezzo, e quindi con tutte le difficoltà …..Speriamo che complessivamente sia andato bene.

 

Intervento b: Benissimo e buonissimo!

 

FINE DEL SEMINARIO

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